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venerdì 9 novembre 2012

Ennesimo atto vandalico nei confronti del Villaggio della Legalità di Borgo Sabotino, centro antimafia di LIBERA


Villaggio della Legalità, nuova intimidazione
l'associazione Libera: "Non ci arrenderemo"

fonte : La Repubblica


Dopo numerosi tentativi di incursioni di estranei nei giorni scorsi, ieri sera distrutte tutte le telecamere di sorveglianza e una vetrata nel centro antimafia di Libera di Borgo Sabotino. I filmati con persone incappucciate che tentano di entrare nel Centro. 

La coordinatrice nazionale: "Nessuno può pensare di vandalizzare e fermare l'impegno di  tante realtà associative che con fatica, passione e corresponsabilità stanno realizzando percorsi di democrazia e di giustizia sociale"

Ennesimo atto vandalico nei confronti del Villaggio della Legalità di Borgo Sabotino, un ex camping totalmente abusivo confiscato e affidato a Libera dall'aprile del 2011. Ieri sera ignoti sono entrati nella struttura di circa quatto ettari di Borgo Sabotino in provincia di Latina e hanno distrutto le quattro telecamere di videosorveglianza che monitorano gli ingressi e la struttura. Le telecamere, molto probabilmente distrutte con delle mazze, prima avevano registrato l'ingresso di un'auto all'interno della struttura. Dopo pochi minuti la telecamera si è spenta. E' stato rilevato anche il tentativo di sfasciare una vetrata della struttura. L'assalto segue i continui tentativi, nei giorni scorsi, da parte di persone incappucciate, di entrare nel Villaggio: tutte azioni registrate dalle telecamere e prontamente segnalate.


"Nessuno può pensare di vandalizzare e di fermare l'impegno delle tante realtà associative del posto che insieme con fatica, passione e responsabilità stanno portando avanti percorsi di democrazia e di giustizia sociale", ha commentato Gabriella Stramaccioni, coordinatrice nazionale di Libera.  Il Villaggio della Legalità di Borgo Sabotino, dedicato a Serafino Famà, avvocato catanese ucciso dalla mafia,  già nell'ottobre del 2011 fu  oggetto di un atto grave: ignoti distrussero completamente il centro, danneggiando computer, impianti elettrici, amplificazioni e suppellettili. Furono distrutte anche le vetrate a picconate, con danni per migliaia di euro. 

Dopo gli interventi di ripristino, il bene confiscato ha ospitato quest'estate numerosi campi di volontariato, con centinaia di giovani provenienti da tutt'Italia che hanno promosso iniziative, incontri, proiezioni di film, interventi di ristrutturazione. Nel luglio scorso il campo ha ospitato anche il secondo raduno nazionale dei Giovani di Libe

giovedì 19 luglio 2012

Palermo, 19 luglio 1992, Via D'Amelio


Palermo 19 luglio 1992 Via D'Amelio: giudice Paolo Borsellino (52 anni); Catalano Agostino (43 anni) assistente capo della Polizia di Stato; Emanuela Loi ( 24 anni) agente della Polizia di StatoWalter Eddie Cosina (31 anni) agente scelto polizia di Stato; Traina Claudio (27 anni) agente scelto della Polizia di Stato Vincenzo Li Muli   (22 anni) Agente della Polizia di Stato


Grazie caro papà  (lettera di Manfredi Borsellino)
Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.

Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.

Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.

Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.

La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.


Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.
Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.

Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.
Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.

Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.
Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.

Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.

La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.

Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.

Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre,  una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.

Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.

Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere

( La lettera di Manfredi, del figlio del giudice Paolo Borsellino– pubblicata per gentile concessione dell’editore – chiude il libro “Era d’estate”, curato dai giornalisti Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi- Pietro Vittorietti editore

lunedì 2 luglio 2012

Lamezia Terme città antimafia? Ma di cosa stiamo parlando…




Mercoledì 20 giugno ritornava a Lametia Terme ''Trame", il festival della letteratura sulle mafie ospitato per il secondo anno dalla cittadina calabrese. ''È un'azione corale contro le mafie - spiegava il direttore Lirio Abbate - perché le azioni pratiche di magistrati, scrittori e giornalisti possa essere da esempio per la gente, affinché si rompa il muro dell'omertà''. 
L'idea è quella di portare i protagonisti in mezzo alla gente. Infatti gli incontri che si susseguiranno fino a domenica prossima si terranno all'aperto nelle strade di Lamezia Terme.
Il programma di ''Trame'' di quest'anno ruotava attorno alla figura della donna e al loro coraggio. ''Parleremo delle vittime innocenti della mafia, delle testimoni di giustizia che hanno avuto l'ardire di liberarsi dai clan e altre tratte nei tranelli e sciolte nell'acido'', spiega il direttore del festival Lirio Abbate.
A pochi giorni dalla fine del festival letterario Trame Roberto Gallullo scrive un articolo apparentemente dissonante. L'intento ci pare essere piuttosto l'ennesimo avvertimento: il rischio che iniziative e momenti -culturalmente anche importanti e lodevoli- possono servire da alibi e paravento al potere mafioso ( Gallullo scrive di una cupola massonica deviata-mafiosa-politica) per continuare a condurre le pratiche abituali.

Fonte: Guardie o ladri di Roberto Galullo Sole 24 Ore

“Via del Regresso”, Lamezia Terme/1 La (vera) capitale calabrese dove la mafia da piovra diventa Medusa
Lamezia Terme, Padova, Vicenza, Montebello Vicentino, Vigonza: tutti questi comuni hanno una strada che si chiama “Via del Progresso”.
Solo una dovrebbe cambiare la toponomastica: Lamezia Terme, che quella strada dovrebbe chiamare “Via del Regresso”.
Debbo essere sincero: non ho mai capito e l’ho sempre scritto, perché questo comune calabrese che capoluogo non è ma capoluogo è, sia diventato negli ultimi anni il simbolo di un’antimafia che non c’è e non ci sarà mai. Misteri della fede oltre che di una pubblicistica – come spesso accade – sciatta, disattenta, credulona, ingannevole e ingannata, poco preparata, influenzabile, inventata. Più passa il tempo – debbo ammetterlo – e più mi rendo conto che la nostra categoria ha prodotto e sta producendo danni inenarrabili nella regressione culturale della lotta alla mafia. Quasi peggio di una certa magistratura manipolatrice e massonica che da Milano a Reggio Calabria approda inevitabilmente a Roma.
Lamezia Terme è tra le capitali mondiali dei traffici di ogni tipo: a partire da quello di armi e droga.
Lamezia Terme è la capitale degli intrecci tra affarismo, malapolitica e malamministrazione, come testimonia la sciagurata indagine “Why Not” dalla quale uno sciagurato “Giginiello ‘o sciantoso” è riuscito a trarre un millesimo del suo potenziale carico devastante.
Lamezia Terme è la capitale di investimenti milionari da 488/92, una legge che ha permesso a centinaia di truffatori di arricchirsi alle spalle dei calabresi onesti.
Lamezia Terme è la capitale dell’abusivismo edilizio alimentato dalle cosche, da un’intera città e da un nugolo di amministratori, consiglieri e politici che hanno chiuso gli occhi fottendosene di tutto e magari sfilando nelle marce antimafia.
Lamezia Terme è la città in cui ci sono stati una sessantina di omicidi (quanti risolti?) in pochissimi anni e dove un giorno si e l’altro pure commercianti, imprenditori e professionisti sono minacciati e pagano.
(Cos’è Lametia Terme?)
Lamezia Terme è una città che ha subito lo scioglimento per mafia per ben due volte.
Lamezia Terme è la città in cui vivono felici parecchie famiglie di ‘ndrangheta.
Lamezia Terme è la città dove la massoneria coperta detta legge dentro e fuori.
Lamezia Terme è la città in cui – parole e musica dell’ex capo della Procura Salvatore Vitello – un residente su 5 è in qualche modo legato, mischiato o coinvolto con le cosche.
Lamezia Terme è la città in cui un Governo (questo come tutti) al quale nulla interessa della vera lotta alle mafie, ha deciso di cancellare il Tribunale, forse l’unico vero presidio dello Stato.
Lamezia Terme è la città in cui persino il Papa tedesco non ha mai nominato la parola ‘ndrangheta e vadano a farsi…il bagno coloro i quali si beano del fatto che non c’era bisogno di nominarla. Ma fatemi il piacere analisti da 4 soldi: le parole sono macigni e colpiscono nel segno molto più delle pallottole. Per Dio – e lo dico onorando Nostro Signore – la ‘ndrangheta, le cosche Torcasio, Cerra, Giampà, Iannazzo e via elencando vanno nominate, strillate, esposte al pubblico ludibrio ogni volta che questo è possibile. Sono loro che uccidono le anime, caro Benedetto XVI!
Don Giacomo Panizza 
Lamezia Terme è la città in cui per i cittadini la Chiesa è soprattutto un prete: don Giacomo Panizza. Mah!
Con queste premesse che – attenzione – non sono cambiate negli anni in cui l’antimafia di facciata camminava e marciava senza produrre – a mio giudizio – “un-solo-atto-uno” degno di questo nome, nessuno può sorprendersi di quanto è emerso dall’Operazione Medusa, con la quale la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ha piegato ancora una volta la cosca Giampà. C’è da giurare che sarà l’ennesima ferita, che per quanto profonda, non infetterà il corpo della ‘ndrangheta perché gli anticorpi – quelli che dovrebbe produrre la società civile - sono falsi e finti come una scenografia cinematografica.
Dedicherò a questa operazione una serie di articoli perché – insisto ancora una volta – Lamezia è una delle capitali mondiali della "cupola massonica deviata-mafiosa-politica” che erode giorno dopo giorno la società. Calabrese e no.
Se leggeste – come ho fatto io – le 717 pagine dell’ordinanza firmata il 21 giugno dal Gip Assunta Maiore, vi trovereste uno scenario che – bando alle ciance – è così riassumibile: una città addormentata dove le cosche dettano legge. Punto. Non ci sarebbe null’altro da aggiungere se non complimentarsi - attenzione – oltre che con le Forze dell’ordine (quelle vere) e con la magistratura (quella vera), con quei pochissimi che davvero credono nella legalità, forse anche perché sono passati attraverso la mortificazione della dignità umana.
E mi riferisco – in particolar modo – al buon Rocco Mangiardi, che inconsapevolmente, era intercettato dai Carabinieri di Lamezia all’interno della sede dell’Ala (Associazione antiracket del centro lametino), luogo ove si riuniscono i commercianti dell'hinterland aderenti. Dalla viva voce di questi ultimi, ovviamente ignari del servizio di intercettazione, si legge nell’ordinanza, “è stato possibile ascoltare le diverse vicende e le storie personali che, nel corso degli anni, li hanno visti costretti a sottostare alle angherie dei maggiori esponenti del gruppo criminale in questione e, in definitiva, al pagamento dell'estorsione imposta dalla cosca, certamente egemone su tutta via del Progresso di Nicastro-Lamezia Terme”.
Tutta Via del Progresso. Tutta. Lo scrive la Polizia giudiziaria. Non lo scrivo io. Anche se lo penso da sempre per qualunque paese del Sud dove ci sia da spremere anche un solo centesimo.
L’ASSICURAZIONE
Ma quanto sia grave la situazione non lo si capisce da questo passaggio. No, no, no…
Leggete qui cosa scrivono – verosimilmente con il morale distrutto – i pm della Dda di Catanzaro: “E' sorprendete come l'affermazione che normalmente viene effettuata da qualsiasi cittadino calabrese circa il fatto che tutti pagano il pizzo, abbia tutt'altra valenza quando proviene da chi appartiene alla categoria che è vessata dalla criminalità, cioè commercianti e imprenditori: sentire dal capo dell'associazione antiracket o da uno dei suoi membri che alle riunioni tutti "hanno il problema " (del pizzo da pagare) e ne parlano, ma che poi nessuno fuori abbia il coraggio di denunciare, fornisce la prova piena dell'assoggettamento”.Quando, poi, i due interlocutori intercettati commentano come per alcuni dei loro colleghi pagare sia una sorta di assicurazione, emerge anche il vincolo di omertà indotto dalla forza intimidatoria del vincolo associativo. “Per taluni imprenditori il pagamento dell'estorsione viene accettato e sdoganato - si legge ancora nell’ordinanza - come se fosse il pagamento di una forma di assicurazione. Si tratta di un concetto di non trascurabile importanza, in quanto in esso è racchiusa, a ben vedere, anche la spiegazione più semplice e immediata del perché il fenomeno sia ormai così radicato nella zona di Lamezia e nulla riescono a sortire le periodiche (ma, comunque, nel complesso sporadiche) operazioni di Polizia giudiziaria”.
La conclusione, vergata probabilmente con la disperazione di chi sa che poco o nulla cambia o può cambiare, è devastante. “Il capitale simbolico della cosca – si legge - è e rimarrà elevato sino a quando ci sarà anche un solo imprenditore che percepirà il proprio pagamento dell'estorsione come una forma di assicurazione. Così facendo, la `ndrangheta trova terreno fertile per bloccare lo sviluppo economico effettivo di un territorio”.
Lamezia Terme città antimafia? Ma di cosa stiamo parlando

martedì 26 giugno 2012

Bruno Caccia. Magistrato ucciso dalla 'ndrangheta il 26 giugno 1983


Bruno Caccia



Fonte: Cascina Caccia

Nato a Cuneo nel 1917, Bruno Caccia dedicò la sua vita a far rispettare la legge.
Iniziò la sua carriera in magistratura nel 1941 nel Palazzo di giustizia torinese. Nel capoluogo piemontese ci rimase sino al 1964 ricoprendo la carica di Sostituto Procuratore, per poi passare ad Aosta come Procuratore della Repubblica. Nel 1967 Caccia ritornò nelle aule torinesi con l’incarico di sostituto Procuratore della Repubblica e, nel 1980, gli fu affidato il compito di presiedere l’organo giudiziario all’ombra della Mole.
Caccia era un uomo scrupoloso, attento ai dettagli, inflessibile, fedele al ruolo di tutore della legge. Queste caratteristiche lo hanno portato a portare a termine brillanti inchieste. Nel 1974 istituì un’indagine che portò alla luce lo scandalo delle tangenti delle giunte rosse del comune di Torino.
Diede inoltre un contributo di fondamentale importanza per contrastare la ferocia del terrorismo. Grazie alla sua opera, la Procura instituì i primi processi ai capi storici di Br e Prima linea. Il lavoro di Bruno Caccia in Procura fece vacillare le basi del dominio malavitoso imperante tra Torino e Provincia.
Nel capoluogo piemontese era arrivato un vero uomo delle istituzioni che non si poteva corrompere. La malavita lo sapeva e decise di eliminarlo. Bruno Caccia venne freddato con diversi colpi di pistola sotto casa. Domenico Belfiore è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio. Era il 26 giugno del 1983, giorno in cui Bruno Caccia pagò con la vita la sua fedeltà al dovere di magistrato. L’ennesima vittima di mafia in Italia.

giovedì 21 giugno 2012

Non basta fare cortei, mettere lenzuola se poi non c'e' continuità d'interventi. E allora nasce Libera


Mafia: dal Gruppo Abele a Libera, don Ciotti si racconta

 Fonte: Antimafia2000

21 giugno 2012
Roma. 
Dagli inizi resi difficili dalla povertà all'attuale guida di Libera, don Luigi Ciotti si raccconta. In un'anticipazione sulla "Stampa" del programma dedicato alla figura del sacerdote antimafia, in onda questa sera alle 23,30 su Rai Due, don Ciotti parte dall'infanzia, in una Torino alla soglia del boom ma con la sua famiglia in sostanziale povertà, e invidivua in un episodio preciso la sua scelta di non violenza: "quando tirai per rabbia un calamaio addosso alla maestra. Mia madre a casa mi diede una sonora lezione, e per questo le saro' per sempre riconoscente". Fondatore in gioventu' del Gruppo Abele, dedito alla lotta alle tossicodipendenze, don Ciotti offre una visione d'insieme sul tema delle droghe: e se prima erano l'eroina e le sue tossiche sorelle ad avere il monopolio della morsa su giovani e non, "ora raccogliamo persone che sono dipendenti dal gioco d'azzardo, da Internet". 
Il passaggio dalla lotta alle droghe a quello al narcotraffico e' naturale, e lo sbocco sulla strada dell'antimafia ne è la logica conseguenza. "Dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, la morte di Falcone e Borsellino e quei stupendi ragazzi della polizia di Stato che li accompagnavano. In quelle due giornate ero in Sicilia proprio a lavorare sul problema delle dipendenze -racconta don Luigi-. E in quel momento uno sente prepotente di dover continua a stare sulla strada, con i poveri, ma nello stesso tempo di dire 'ma perche' non mettiamo insieme le migliori forze del paese? Non basta fare cortei, mettere lenzuola se poi non c'e' continuità d'interventi. E allora nasce Libera"
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lunedì 18 giugno 2012

"Rivelerò alla Procura di Palermo il nome di chi incontrò Pio La Torre prima di essere ucciso"


 Pio La Torre, segretario del PCI siciliano, pochi giorni prima di morire aveva incontrato 5 professori universitari a cui voleva far visionare documenti riservatissimi relativi ai rapporti tra mafia, politica, anche estera, e imprenditoria da Portella della Ginestra alla scalata dei corleonesi. Il secondo incontro non si tenne mai e quei professori sono rimasti fino ad oggi figure senza volto.   

Fonte :  L'Unità- 
la torre pio web0Solo lui può raccontare ai magistrati di quei documenti riservatissimi in possesso di La Torre”.
di Nicola Biondo - 17 giugno 2012
Intervista all'avvocato Armando Sorrentino
Lo sguardo di Armando Sorrentino è mobile e vivacissimo. A volte dolente: come se la conoscenza di fatti, nomi, intrecci e inganni, in terra di mafia, nel Paese delle stragi, lo inchiodi a ragionamenti inesprimibili solo a parole.
Dirigente politico, avvocato di parte civile per il Pci-Pds nel processo per l’omicidio di Pio La Torre e il suo uomo ombra Rosario Di Salvo, studioso e libero battitore della sinistra siciliana. Sorrentino è balzato agli onori della cronaca per un libro-inchiesta sull’omicidio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre, avvenuto il 30 aprile 1981. Delitto eccellente, forse qualcosa di più, quello di La Torre. Sul quale la Procura di Palermo sta riaprendo le indagini proprio sulla base di nuovi elementi, alcuni dei quali forniti dal volume di Sorrentino, scritto con il giornalista Paolo Mondani. Uno su tutti: il segretario del Pci pochi giorni prima di morire aveva incontrato 5 professori universitari a cui voleva far visionare documenti riservatissimi relativi ai rapporti tra mafia, politica, anche estera, e imprenditoria da Portella della Ginestra alla scalata dei corleonesi. Il secondo incontro non si tenne mai e quei professori sono rimasti fino ad oggi figure senza volto.       
Quando ha incontrato uno di questi cinque uomini chiamati da Pio La Torre?
Nel 2007 e solo una volta.
Perché non ne ha parlato subito?
Comprendo la sua domanda. Ma l’esistenza di questo personaggio è pubblica. Lo intervistò prima di me un giornalista nell’aprile 2007. Nessuno però dice nulla: né i magistrati né alcuno di quei dirigenti politici che si affrettano ad ogni anniversario a celebrare La Torre.
Vuole fare adesso il suo nome?
Lo farò solo ai magistrati e poi, com’è giusto, saranno loro ad indagare.
Cosa le ha detto questo personaggio?
Da quell’incontro con La Torre, e dai fatti che poi si sono succeduti, si è convinto che sia esistita una sorta di struttura riservata a copertura di una sistema di potere in Sicilia, come una trincea che spiega decenni di crimini di sangue ma anche politici ed economici. La parte visibile sono gli omicidi di mafia la cui spiegazione non si trova solo nelle dinamiche mafiose.
Una ricostruzione che lei ritiene credibile?
La Torre parlava di “direzione strategica della mafia”, di un “tribunale internazionale” che decideva i delitti politici in Sicilia. La Torre è l’ultimo dirigente comunista ad essere ucciso ma prima di lui due generazioni di militanti vengono trucidati. La lotta antimafia non è nata dopo le stragi del ’92, anzi.
Ieri come oggi si parla di trattativa, di patti tra Stato e Cosa nostra. La Torre fu ucciso perché intuì questi legami?
Nessuna banda politico-criminale è più longeva di Cosa nostra. L’ossessione di La Torre era chi permetteva il “successo” di questa banda. Le faccio notare che ad ogni forte cambiamento politico corrisponde un cambiamento di Cosa nostra: i padrini italo-americani del dopoguerra durante il monopolio democristiano, poi l’ascesa dei corleonesi parallela alle fortune andreottiane fino alla dittatura di Riina durante il decennio craxiano. Tante trattative per un unico lungo patto.
Secondo questo testimone La Torre mette intorno ad un tavolo tutti professori universitari di letteratura e esperti del linguaggio. Nessuno storico, non le sembra strano?
A loro La Torre chiede che leggano dei documenti per analizzarne il linguaggio: potevano essere di tipo militare e messaggi provenienti da uomini di Cosa nostra. I mafiosi e il loro modo di comunicare a volte sono molto raffinati e complessi. Pensi al killer di La Torre: diplomato al liceo classico, lontano dal prototipo del “viddano” e pur essendo un soldato semplice sedeva alla pari nelle riunioni della Cupola.
E’ solo per paura che “il professore” non ha parlato?
La paura non spiega tutto. Lui ci dice che La Torre gli impose il silenzio assoluto anche all’interno della federazione. La paura dell’isolamento è spesso più forte della paura di morire. La morte è un attimo, l’isolamento ti divora la vita.
Killer e mandanti mafiosi sono stati condannati per il delitto. In questi trent’anni si è sempre parlato di moventi esterni per l’omicidio La Torre: non solo l’impegno antimafia ma anche contro i missili nucleari di Comiso, addirittura una pista interna.
La pista interna fu un depistaggio anche raffazzonato ma ha messo in allarme chi nel Pci siciliano  non era privo di peccati, anzi accettava il sistema di potere dominante. La Torre fu un uomo di rottura dentro il Pci siciliano, contro quel meccanismo che aveva inglobato una parte del partito. Lo dice lo stesso ex-segretario Natta: in Sicilia non vi fu un compromesso storico ma solo un compromesso. E le dirò di più: Berlinguer si è “fermato” a Eboli, la sua spinta ideale non è mai arrivata in Sicilia. Ai funerali di La Torre fu permesso di parlare al presidente della Regione, l’andreottiano D’Acquisto, il cui governo La Torre definì il peggiore nella storia dell’isola.
Ma nell’era di internet, che senso ha parlare di una “vecchia” storia di mafia, di comunisti, di segreti legati alla guerra fredda. Sembra archeologia, non le pare?
La nostra è un’indagine sul potere, sul coraggio di sfidare il potere. E spesso il potere non ha colore politico. Oggi La Torre sarebbe un feroce critico, sempre da sinistra, un punto di riferimento per i giovani: aveva capito che la mafia e la politica, come le avevamo conosciute stavano morendo, sostituite da altri soggetti non più definibili tout court con i vecchi schemi, destra-sinistra, criminale-illegale. Era un eretico, ce ne fossero di eretici come lui.
Parliamo sempre del passato ma com’è la mafia oggi?
Da sempre e’ una delle manifestazioni, quella più brutale, del potere italiano. Cambia forma ma è sempre un esercito a disposizione di altre logiche. La Torre diceva pubblicamente che la sola azione della magistratura non basta a capire cosa è la mafia, il malaffare. Ci vuole la politica, una sua assunzione di responsabilità. Perché spesso la magistratura ha fatto da tappo alla verità, anche nel caso La Torre.
A cosa si riferisce?
Come parte civile non abbiamo potuto interrogare uno dei killer, reo confesso. Non sono state svolte indagini precise nemmeno sulla dinamica dell’omicidio. Perché?
Giovanni Falcone indagò a lungo anche sull’omicidio di La Torre ma le indagini non lo soddisfacevano.
“Non firmerò quell’inchiesta nemmeno se mi torturano”, ecco cosa disse. E pubblicamente diceva anche che la mafia non prende ordini. Ma sapeva che non era così, era un messaggio verso l’esterno, quasi a tranquillizzare i suoi avversari nelle istituzioni.
Poi però arrivo l’attacco di Leoluca Orlando che diceva che i giudici palermitani tenevano le carte nei cassetti sugli omicidi eccellenti.
Un attacco irrituale ma i diari di Falcone confermarono che c’era qualcosa di vero. Al giudice –come lui stesso racconta – non fu permesso di indagare sul ruolo dei servizi segreti sui delitti La Torre e Mattarella. Sa quando vidi l’ultima volta il giudice?
Prego
Aula Bunker, Processo La Torre, fine maggio 1992: improvvisamente Falcone entra nell’aula che stava interrogando Bruno Contrada [ex-numero tre del Sisde, condannato a dieci anni per mafia]. Ero dietro Contrada, nei banchi riservati alle parti civili. Per pochi secondi il giudice lo osserva con un espressione profonda, dura. Poi prende posto ma la seduta venne sospesa. Pochissimi giorni dopo avvenne la strage di Capaci. Ancora una volta si decise di fare politica con il sangue.
Lei crede che ci siano altre voci rimaste ancora nell’ombra?
Non ne ho le prove ma sono sicuro che ci siano.


mercoledì 13 giugno 2012

Raffica di incendi nei campi di Libera


Don Ciotti: "Non sono coincidenze"

Dopo Mesagne e Belpasso, gli ultimi due episodi si sono verificati nel Trapanese in contemporanea: un uliveto di Castelvetrano e un altro uliveto a Partanna, zona già colpita dieci giorni fa

di ALESSANDRA ZINITIFonte: LA Repubblica
PALERMO - Nessuno crede alla casualità. Cinque incendi in dieci giorni in oliveti e vigneti confiscati alle organizzazioni criminali e affidati alle cooperative di Libera suonano come una evidente intimidazione. Gli ultimi due episodi si sono verificati nel Trapanese praticamente in contemporanea in un uliveto di Castelvetrano e in un altro a Partanna, poco distante da dove, solo dieci giorni fa, un altro incendio aveva mandato in fumo ettari di coltivazioni dei ragazzi delle cooperative di Libera.

Gli ultimi incendi, che seguono quello di Mesagne in Puglia (il paese venuto alle cronache dopo l'attentato di Brindisi) e quello di Belpasso nel Catanese, preoccupano Don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera, che dice: "Non possiamo più pensare a delle coincidenze. Non possono lasciarci indifferenti i recenti episodi di vandalismo a danno dei beni confiscati alle mafie, dalla Puglia alla Sicilia, dal Lazio alla Calabria". 

"Quei beni - dice Don Ciotti - non sono solo uno schiaffo alle organizzazioni criminali, ma anche uno strumento per indebolirle in ciò che le rende forti: l'accumulazione illecita di capitali. Libera sente un debito di gratitudine verso chiunque, dalle forze dell'ordine alle istituzioni e amministrazioni local, contribuisce per garantire la sicurezza di quelle realtà, ma alla luce del susseguirsi 
degli incendi e vandalismi è chiaro che qualcosa nel meccanismo di tutela deve essere rivisto".

mercoledì 30 maggio 2012

Le mani della 'ndrangheta sulla Salerno-Reggio Calabria


Le mani delle cosche sulla Salerno-Reggio Calabria

La storia è sempre quella. Dodici fermi nella notte nei confronti di altrettanti esponenti del clan di Giuseppe Virgilio Nasone. Un "pizzo" del 3 per cento sull'importo degli appalti per i cantieri. Gli imprenditori che non pagavano avevano i mezzi danneggiati o subivano pesanti intimidazioni
Fonte La Repubblica


REGGIO CALABRIA - I carabinieri li hanno sentiti pianificare le incursioni notturne, organizzare i danneggiamenti. Stabilire quali mezzi dovevano saltare in aria e quali essere devastati a mazzate. Per lavorare sui cantieri della Salerno-Reggio Calabria, dovevano pagare tutti. E nella zona di Scilla-Villa San Giovanni, i soldi toccavano a loro. Il 3% dell’importo dell’appalto, e “non meno”, doveva andare ai “Nasone-Gaietti”. 
All’alba di oggi una decina di componenti della cosca sono finiti in manette su richiesta della Dda di Reggio Calabria, che ha deciso di affondare il colpo mentre la cosca era ancora pienamente operativa. I carabinieri del Comando provinciale hanno notificato dodici “fermi” nei confronti di altrettante persone ritenute legate al clan degli scillesi. Il procuratore aggiunto Michele Prestipino e i pm Alessandra Cerreti e Rosario Ferracane, hanno firmato i provvedimenti nel tentativo di bloccare lo stillicidio di intimidazioni che negli ultimi mesi ha riguardato una serie di aziende impegnate nella fornitura di servizi e materiali o subappaltatori dell’A3 e non solo. 
la mapppa del racket sulle forniture del cemento. anno 2008
In questo senso, il boss Giuseppe Virgilio Nasone, e i suoi uomini erano determinati. Nonostante l’arresto di un picciotto della “famiglia” catturato nei mesi scorsi - quando si era presentato ad un imprenditore per chiedere una mazzetta da sei mila euro - il gruppo non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Anzi. Le microspie dell’Arma li avevano sentiti ragionare: “Non è che le cose non si possono fare, basta stare attenti”.Le cose da fare erano gli attentati. E di soldi ne arrivavano tanti dalle ditte intimorite. Alcuni imprenditori pagavano per evitare che le attrezzature, in molti casi particolarmente costose, fossero danneggiate. Altri per paura o per evitare che gli operai subissero ritorsioni anche violente. “Dobbiamo fare come quelli di Gioia Tauro – dicevano – quelli che pagano sono apposto. Agli altri gli facciamo saltare i palazzi”.
L’inchiesta della Procura di Reggio Calabria ha preso il via dalla denuncia di un imprenditore che non si è voluto piegare. Così, a marzo del 2011 è finito in carcere Giuseppe Fulco, cugino dei Nasone. Gli inquirenti, incassato il risultato, tuttavia, non hanno mollato la presa ed hanno continuato ad ascoltare i suoi commenti in carcere. Ed è durante i colloqui con la madre e la sorella che sono venuti fuori una serie di elementi che hanno consentito di ricostruire la rete di rapporti interni alla cosca. Il clan infatti continuava a versargli “la mesata” ed a spartire con lui gli utili di altre estorsioni. Altre microspie e una serie di pedinamenti hanno fatto il resto, riuscendo a dare un volto ed un nome ad ogni componente del clan e a ricostruire i singoli episodi.  
GIUSEPPE BALDASSARRO

lunedì 28 maggio 2012

il dovere della memoria: Strage di Piazza della Loggia a Brescia - 28 maggio 1974

 Strage di Piazza della Loggia a Brescia . 28 maggio 1974





Lo abbiamo scritto solo pochi giorni orsono, commemorando Melissa Bassi, la studentessa uccisa nell'attentato di Brindisi:
"(...) Morti innocenti, delitti oscuri perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. E’successo e potrebbe succedere ancora: delitti commessi pensando che, in Italia, potesse servire “a qualcosa e a qualcuno” spargere sangue innocente, seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee, valori.(...)"
Quel giorno , il 28 maggio 1974, in Piazza della Loggia era in corso una manifestazione indetta dai sindacati e dal  Comitato Antifascista come atto di protesta contro gli episodi di terrorismo neofascista che si erano manifestati nei mesi precedenti. Una bomba nascosta in un cestino porta-rifiuti fu fatta esplodere mentre la folla era accalcata sotto il palco ascoltando il comizio.
Il 14 aprile 2012 la Corte d'Appello conferma l'assoluzione per tutti gli imputati appartenenti all'area della estrema destra, condannando le parti civili al rimborso delle spese processuali. 
L'ennesima strage italiana, l'ennesima strage "senza colpevoli". 
Quel giorno, il 28 maggio 1974,  oltre ad un centinaio di feriti, morirono 8 innocenti. .

Giulietta Banzi Bazoli, anni 34, insegnante
Livia Bottardi Milani, anni 32, insegnante
Euplo Natali, anni 69, pensionato
Luigi Pinto, anni 25, insegnante
Bartolomeo Talenti, anni 56, operaio
Alberto Trebeschi, anni 37, insegnante
Clementina Calzari Trebeschi, anni 31, insegnante
Vittorio Zambarda, anni 60, operaio

sabato 19 maggio 2012

ORE 8.00 - A BRINDISI: MUORE UNA RAGAZZA PER ESPLOSIONI DAVANTI ALLA SCUOLA


ORE 8.00 - ESPLOSIONI DAVANTI ALLA SCUOLA
Fonte : La Repubblica

Questa mattina , due esplosioni di fronte all’istituto professionale Morvillo Falcone di Brindisi. Una studentessa è morta e altri sette ragazzi sono rimasti feriti - un altro sarebbe in pericolo di vita -, immediatamente trasferiti nell’ospedale Perrino. L'attentato si è scatenato poco prima delle otto. Il nome della ragazza uccisa dall'esplosione è Melissa Bassi di 16 anni. L'edificio, a trenta metri dal tribunale, è stato immediatamente sgomberato, e il Palazzo di giustizia è circondato da forze dell’ordine e artificieri di carabinieri e polizia. Le schegge prodotte dalle esplosioni hanno raggiunto negozi a duecento metri di distanza, scardinando addirittura una saracinesca, al di là del vialone, a trenta metri dal tribunale. A quanto pare gli ordigni - sarebbero tre - sono stati collocati su un muretto vicino a una scuola. I ragazzi sarebbero rimasti feriti mentre passavano di lì e stavano entrando per le lezioni. Dopo le deflagrazioni, in rapida successione, scene di panico e disperazione di fronte all’edificio, rimasto intatto. Non si capisce ancora a chi possa essere addebitato l’incredibile gesto. Ma colpisce una coincidenza: oggi a Brindisi farà tappa la Carovana della legalità. "Le ipotesi sono tutte aperte e occorre vagliare tutti gli elementi per verificare se si tratta del gesto di un folle.... Ma quella scuola ha un nome importante...". E' il commento a caldo del fondatore di Libera Don Ciotti, dai microfoni di SkyTg24, al sanguinoso attentato all'Istituto professionale Morvillo Falcone di Brindisi.



(19 maggio 2012)

domenica 29 aprile 2012

30° anniversario dell'uccisione di Pio La Torre e Rosario Di Salvo




Gli omicidi del segretario del Pci siciliano e del generale nell'82; quelli dei due giudici nel '92. Oggi, venti o trenta anni dopo, ci sono ancora molti misteri sulla loro uccisione. Però sappiamo perché li volevano morti
fonte : LA Repubblica. estratto da un articolo di  ATTILIO BOLZONI


"QUELLA MATTINA sono anch'io là, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di guardare Paolo Borsellino che è con le spalle al muro e si sta accendendo un'altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le dita.
Mi avvicino al commissario Cassarà e gli chiedo: "Ninni, cosa sta succedendo?". Mi risponde, l'amico poliziotto: "Siamo cadaveri che camminano". Un fotografo aspetta che loro - Falcone e Cassarà, Chinnici e Borsellino - siano per un attimo vicini. Poi scatta. Una foto di Palermo. Una foto che dopo trent'anni mi mette sempre i brividi. Sono morti, uno dopo l'altro sono morti tutti e quattro. Ammazzati.
Tutti vivi me li ricordo, tutti ancora vivi intorno a quell'uomo incastrato dentro la berlina scura e con la gamba destra che penzola dal finestrino. Sono lì, in una strada che è un budello in mezzo alla città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della Grande guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso  parlamento dell'isola, Palazzo dei Normanni, cupole arabe e lussureggianti palme.
Chi è l'ultimo cadavere di una Sicilia tragica? È Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista italiano, deputato alla Camera per tre legislature, figlio di contadini, sindacalista, capopopolo negli infuocati anni del separatismo e dell'occupazione delle terre.
È Pio La Torre, nato a Palermo alla vigilia del Natale del 1927 e morto a Palermo alla vigilia del Primo maggio del 1982. L'agguato non ha firma. Forse è un omicidio di stampo mafioso. Forse è un omicidio politico. Chissà, potrebbe anche avere una matrice internazionale. Magari  -  come qualcuno mormora  -  si dovrebbe esplorare la "pista interna". Indagare dentro il suo partito. Nella sua grande famiglia. Cercare gli assassini fra i suoi compagni. Supposizioni. Prove di depistaggio in una Palermo che oramai si è abituata ai morti e ai funerali di Stato, cadaveri eccellenti e cerimonie solenni. Il 30 aprile 1982, trent'anni fa.
Uccidono l'uomo che prima di tutti gli altri intuisce che la mafia siciliana non è un problema di ordine pubblico ma "questione nazionale", il parlamentare che vuole una legge che segnerà per sempre la nostra storia: essere mafioso è reato. Chiede di strappare i patrimoni ai boss, tutti lo prendono per un visionario.
Dicono che è ossessionato da mafia e mafiosi, anche nel suo partito ha fama di "rompicoglioni". Al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini propone di inviare a Palermo come prefetto il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo. Non fa in tempo a vederlo sbarcare, l'ammazzano prima.
Pio La Torre aveva conosciuto dalla Chiesa nel 1949 a Corleone, lui segretario della Camera del lavoro dopo la scomparsa del sindacalista Placido Rizzotto e il capitano volontario nel Cfbr, il Comando forze repressione banditismo. Il loro primo incontro avviene nel cuore della Sicilia. Quindici anni dopo si ritroveranno uno di fronte all'altro in commissione parlamentare antimafia, uno deputato e l'altro comandante dei carabinieri della Sicilia occidentale. Il terzo incontro non ci sarà mai.
Destini che s'incrociano in un'isola che non è ricca ma sfrenatamente ricca, superba, inespugnabile. Il giorno dell'uccisione di Pio La Torre in Sicilia arriva il generale. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde lui.(...)"

giovedì 12 aprile 2012

Quando Borsellino sorrideva ancora


Quando Borsellino sorrideva ancora
Immagini di vita privata come furono selezionate e commentate dallo stesso giudice ucciso dalla mafia


Fonte: Corriere della sera
Quest’anno saranno vent’anni, il prossimo 19 luglio. Quel giorno del 1992, alle 16,58, esplose l’autobomba che uccise il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e cinque agenti di polizia addetti alla sua protezione: Claudio Traina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cusina, Emanuela Loi. Ma il ventennale della morte del magistrato antimafia erede naturale e unico di Giovanni Falcone – dilaniato da un’altra esplosione appena due mesi prima, il 23 maggio a Capaci, insieme alla moglie Francesca e a tre uomini della scorta – è già cominciato.
A marzo la Procura di Caltanissetta, all’esito di nuove e clamorose indagini, ha ottenuto altri arresti per quell’attentato dai risvolti ancora misteriosi, e l’omicidio Borsellino è tornato di bruciante attualità. Con inquietanti retroscena venuti alla luce, e altrettanti rimasti senza spiegazione. L’eliminazione del giudice s’intreccia con i segreti della presunta trattativa tra pezzi dello Stato e uomini di Cosa nostra, fino all’ipotesi che sia stata anticipata proprio perché Borsellino ne era venuto a conoscenza, e avrebbe costituito un ostacolo insormontabile. E i successivi depistaggi delle indagini potrebbero essere un’ulteriore conseguenza di quel patto inconfessabile.
Per la famiglia del giudice – la moglie Agnese e i figli Lucia, Manfredi e Fiammetta – è ripreso il tormento dei ricordi, dei quesiti insoluti, delle dolorose sollecitazioni esterne. Ma anche stavolta, come quasi sempre in passato, sono voluti rimanere in disparte. Hanno scelto la via del silenzio, lasciando a inquirenti e giudici il compito di arrivare alla verità, se mai ci riusciranno. Loro, dopo vent’anni, continuano ad aspettare.
Una cosa, però, hanno deciso di fare in vista della ricorrenza di luglio anticipata dalle nuove rivelazioni. Far parlare le immagini raccolte negli album di famiglia che raccontano l’uomo Borsellino: il marito e il padre che pure nei momenti più difficili o drammatici del suo lavoro non mancava di dedicarsi alla moglie, ai figli e agli amici con i quali amava trascorrere tutto il tempo che poteva. Con la grande carica di affetto, ironia e voglia di vivere che era capace di trasmettere.
FOTO PRIVATE DI UN UOMO PUBBLICO
Sono le fotografie private e pubbliche della vita di Paolo Borsellino, spezzata a 52 anni d’età dal tritolo mafioso, selezionate da lui stesso e sistemate nei grandi album divisi per anni, con tanto di brevi didascalie scritte a matita con la sua calligrafia minuta e chiara. Dai primi anni di un bambino nato nel 1940, quando l’Italia si preparava a entrare nella seconda guerra mondiale, fino alle ultime istantanee del ’92. Sono i momenti più belli, ma anche più brutti e tesi, dell’esistenza del giudice assassinato dalla mafia perché di certo rappresentava per Cosa nostra un nemico e un pericolo. Ma forse anche per qualche altro motivo.
Il figlio Manfredi, oggi quarantenne commissario di polizia, spiega che “dopo vent’anni non c’è motivo di tenere riservate queste immagini che sono più eloquenti di qualsiasi racconto per ricordare mio padre”. A volte compare anche lui, accanto al papà quasi sempre sorridente: in casa o all’aria aperta, in città o nei luoghi di vacanza. Quelli scelti volontariamente per viaggi e soggiorni – la Tunisia, il parco degli Abruzzi, l’isola di Pantelleria e altre località di mare, la montagna con la neve poco apprezzata dal giudice – e quelli imposti dal lavoro e dalle esigenze di sicurezza: come l’isola dell’Asinara dove Borsellino e Falcone trascorsero l’estate del 1985 con le rispettive famiglie, mentre scrivevano l’ordinanza di rinvio a giudizio del maxi-processo alle cosche.
In questa sorta di foto-storia pubblico e privato si mescolano, così com’erano mescolati nella vita del giudice. Ci sono i ritratti della prima comunione, e poi le immagini della laurea, del matrimonio, dei momenti di relax, delle trasferte per lavoro. Ricordi fissati sulla pellicola con gli amici che hanno subito la sua stessa sorte, assassinati da Cosa nostra: Giovanni Falcone e il commissario Ninni Cassarà. Le foto dei funerali e quelle in ufficio, da solo o coi colleghi di Palermo e della Procura di Marsala, che Borsellino guidò dal 1986 alla fine del 1991, prima di tornare a Palermo.
Non furono mesi tranquilli, gli ultimi trascorsi dal magistrato nel palazzo di giustizia ribattezzato “dei veleni”. Per via dei dissapori col procuratore Giammanco, e dopo la morte di Falcone per i tormenti che si portava dentro, confidati alla moglie il giorno prima di morire: “Mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere”, ha testimoniato la signora Agnese ricordando l’ultima passeggiata col marito, sul lungomare di Carini. All’indomani della strage di Capaci, Borsellino cominciò una corsa contro il tempo per cercare di capire chi e perché aveva voluto ammazzare il suo amico Giovanni con tanto clamore. Si rammaricava per non poter svolgere le indagini, affidate alla Procura di Caltanissetta; aveva delle idee che voleva affidare ai titolari dell’inchiesta, lo disse più volte pubblicamente, ma in quasi due mesi nessun inquirente trovò il tempo di ascoltarlo.
Nel suo ultimo discorso pubblico, il commiato dai colleghi di Marsala tante volte rimandato e celebrato solo il 4 luglio ’92, non ebbe timore di far trapelare i suoi turbamenti: “Sono un uomo profondamente cambiato… Voi sapete perché, lo immaginate… La morte di Giovanni Falcone mi ha talmente colpito, come magistrato ma soprattutto come uomo che ha vissuto con lui la sua vita fin da bambino, che oggi sono tanti gli interrogativi ai quali non so dare risposta”. Vent’anni dopo, se ne sono aggiunti altri ancora.

Giovanni Bianconi

L’ULTIMO DISCORSO PUBBLICO DI BORSELLINO «Voi sapete perché sono cambiato»


L’ULTIMO DISCORSO PUBBLICO DI BORSELLINO
«Voi sapete perché sono cambiato»
Il commiato dai colleghi di Marsala il 4 luglio 1992
 fonte : Corriere della Sera

Paolo Borsellino
«Questo incontro avviene dopo diversi mesi che io sono andato via dalla Procura di Marsala; avviene così tardi per colpa mia, perché il lavoro che mi ha preso pesante e impegnativo a Palermo ha fatto sì che io più volte pregassi i colleghi che volevano farmi questo saluto a postergarmi una data. E purtroppo in questo periodo è avvenuto qualcosa che fa sì che io oggi vi ringrazio per queste parole di affetto (…).
Vi ringrazio come uomo profondamente cambiato, nonostante siano trascorsi pochi mesi da quando sono andato via da Marsala. Voi sapete perché, lo immaginate perché sono profondamente cambiato, perché abbia detto con convinzione i nuovi commenti che ho sentito di dover fare dopo questa tragedia che ha sconvolto la nostra patria, la nostra Sicilia e noi tutti.
Tragedia che, come ho detto, mi ha fatto temere e mi fa temere ancora di aver perduto l’entusiasmo. Spero che questo entusiasmo mi ritorni (… ). Ritrovarmi con le persone con le quali ho passato la bellissima avventura della mia permanenza a Marsala mi ricorda l’entusiasmo con cui l’ho vissuta, e spero che questo entusiasmo, nonostante quello che è successo e che mi ha così profondamente colpito, mi ritorni anche nel nuovo incarico. Perché ne ho molto bisogno (…). Io sono venuto a Marsala per poter continuare un lavoro che avevo iniziato a Palermo con Giovanni Falcone, e nonostante è vero che ami profondamente il mare, al di là di qualche serata struggente passata in riva allo Stagnone parlando di lavoro con colleghi, poliziotti o carabinieri, delle bellezze di Marsala ne ho viste poche… Ho amato questa città, ma l’ho dovuta guardare e vedere quasi da lontano, attraverso il prisma che me la allontanava dai vetri blindati della mia macchina e del mio ufficio…
Se non fosse avvenuta quella tragedia che è avvenuta a fine maggio, oggi vi potrei dire qui che io sono ritornato a Palermo non soltanto arricchito dall’esperienza di Marsala, ma dalla convinzione che questa esperienza mi impegnavo a portarla a Palermo per trasformare, utilizzare in un ambito più vasto ciò che qui avevo sperimentato. Purtroppo quello che è avvenuto a fine maggio mi induce, e ritengo ci induca tutti, ad una riflessione, perché ancora forse neanche più sappiamo quello che facciamo dopo, quello che faremo dopo: io non so quello che farò dopo, perché la morte di Giovanni Falcone mi ha talmente colpito – come magistrato ma soprattutto, consentitemi, come uomo che ha vissuto con lui la sua vita fin da bambino – che oggi sono tanti gli interrogativi ai quali io non so dare risposta. Ma vi prometto che questi sei anni che abbiamo vissuto assieme, e questi momenti così commoventi che oggi stiamo vivendo assieme, per me ma ritengo anche per voi, avranno sicuramente un peso, e un peso determinante, nella risposta che io dovrò dare. Grazie». Paolo Borsellino

mercoledì 11 aprile 2012

LIBERO GRASSI. 11aprile 1991. "Caro estorsore..."

L'11 aprile di 21 anni fa, Libero Grassi comunicava a tutta Italia le ragioni del suo rifiuto plateale a sottomettersi alla pratica del pizzo. Oggi è dovere di tutti noi portare avanti questo messaggio d'onestà e dignità!
fonte: "Addiopizzo onlus"



Nuovo attentato dell'ndrangheta contro il sacerdote che assiste disabili e immigrati in un edificio confiscato alle 'ndrine



Lamezia Terme, colpi di pistola contro la comunità di Don Panizza
fonte : Corriere della Sera
Nuovo attentato dell'ndrangheta contro il sacerdote che assiste disabili e immigrati in un edificio confiscato alle 'ndrine
Don Giacomo Panizza
LAMEZIA TERME - Al rientro dal ponte pasquale, don Giacomo Panizza ha trovato la brutta sorpresa: due colpi di pistola contro la saracinesca della comunità “Progetto sud” che ha sede nel quartiere Capizzaglie di Lamezia Terme, in un edificio confiscato alla potente famiglia di 'ndrangheta dei Torcasio. Non è la prima volta che il prete impegnato nel sociale, da tempo sottoposto a un programma di protezione, viene messo nel mirino. Nel febbraio scorso un colpo di pistola fu sparato contro una finestra della comunità mentre la notte di Natale dello scorso anno un ordigno fu fatto esplodere davanti all'ingresso del centro per minori creato dallo stesso sacerdote. Nello stabile sottratto alle 'ndrine sono ospitati pure laboratori per l’assistenza ai disabili e agli immigrati.
LE PAROLE DI DON GIACOMO - «Si può dire che sono un po' confuso? Ecco, io credo che stanno esagerando. Ci stanno sfiancando e sarebbe importante capire le cause perché così non sappiamo come muoverci, chi denunciare ed a chi dire di smetterla». Don Giacomo Panizza, al telefono, risponde con voce stanca dopo l'ennesima intimidazione subita. Ma questo non significa alzare bandiera bianca. «Noi, comunque – aggiunge –, proseguiamo nelle nostre attività e non torniamo indietro perché ciò che facciamo lo facciamo perché la gente ha bisogno di questo tipo di servizi e non li lasceremo da soli».
IN PRIMA LINEA DA 36 ANNI - Don Panizza, bresciano, con un passato da operaio in acciaieria, ha fondato nel 1976 a Lamezia Terme la “Progetto sud”, una comunità autogestita insieme a persone con disabilità. Il prete è nel mirino delle cosche dal 2002, quando spezzò il cerchio della paura prendendo in gestione il palazzo confiscato ai Torcasio, cosca che a queste latitudini ha seminato morti e terrore. Lo stabile dista pochi chilometri dalla famiglia in cui abitano i mafiosi. «Abbiamo dovuto mettere le telecamere – dice –, circa due anni fa sono venuti a tagliare i freni di un pulmino e di un'auto per il trasporto dei disabili, c'è pure la discesa... Anche il vescovo ha ricevuto una lettera con disegnata una cassa da morto e la sua foto sopra».
Antonio Ricchio