Giulio
Regeni, dottorando dell'Univeristà di Cambridge, viene rapito il 25 gennaio
2016 -giorno del quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir- ed
il suo corpo, massacrato, viene fatto ritrovare il 3 febbraio La farsa ignobile
del governo egiziano comincia immediatamente con le dichiarazioni del generale
Khaled Shalabi il quale dichiara che Giulio Regeni era stato vittima di un
semplice incidente stradale. A quella dichiarazione “ignobile” altre ne
seguiranno, mentre l'uccisione di Giulio Regeni toglie la maschera al governo
egiziano dominato daAbdel Fattahal-Sisi, un governo che fa rapire e torturare sino alla
morte centinaia di suoi oppositori, gettando un poco di luce sui tanti “Giulio
Regeni egiziani” rapiti, torturati, uccisi, nel silenzio ipocrita della comunità
internazionale.
E la comunità internazionale sarebbe chiamata a combattere pure per la scarcerazione di Patrick
Zaki. lo studente egiziano dell'Università di Bologna arrestato nel febbraio di quest'anno, con l'accusa di propaganda sovversiva, e la cui "custodia cautelare" è stata rinnovata di altri 45 giorni pochi giorni orsono.
Paola Regeni: "Su quel viso ho visto tutto il male del mondo e mi sono chiesta perché tutto il male del mondo si è riversato su di lui."
Il 29 marzo 2016
Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, indicono una conferenza stampa
che si svolge nella sala del Senato dedicata alle vittime dell'attentato di
Nassiriya. Paola Regeni, madre di Giulio: "L'ultima foto che abbiamo
di Giulio è del 15 gennaio, il giorno del suo compleanno, quella in cui
lui ha il maglione verde e la camicia rossa. Non si vede, ma davanti a lui
c'è un piatto di pesce e intorno gli amici, perché Giulio amava
divertirsi. Il suo era un viso sorridente, con uno sguardo aperto. E'
un'immagine felice". Poi ce un'altra immagine. Quella che con dolore
io e Claudio cerchiamo di sovrapporre a quella in cui era felice,
quella all'obitorio. L'Egitto ci ha restituito un volto completamente diverso.
Al posto di quel viso solare e aperto c'è un viso piccolo piccolo piccolo,
non vi dico cosa gli hanno fatto. Su quel viso ho visto tutto il male
del mondo e mi sono chiesta perché tutto il male del mondo si è riversato
su di lui. All'obitorio, l'unica cosa che ho ritrovato di quel suo
viso felice è il naso. Lo ho riconosciuto soltanto dalla punta del naso". Qui le parole di Paola Regeni.
Il 10 dicembre
scorso nell'atto di chiusura delle indagini, i pm di Roma ed il procuratore
capo Michele Prestipino ricostruiscono gli ultimi giorni di Giulio Regeni,
catturato e torturato a morte dalla National Security egiziana dal 25 gennaio
al 3 febbraio 2016. Torture e sevizie con oggetti roventi,
calci, pugni, lame e bastoni che gli causarono “acute
sofferenze fisiche” portandolo lentamente alla morte. Michele
Prestipino: “Abbiamo acquisito elementi di prova univoci e
significativi (su quattro agenti egiziani, ndr). Questo è un risultato
estremamente importante e non scontato. Abbiamo fatto di tutto per accertare
ogni responsabilità, lo dovevamo a Giulio e all’essere magistrati di questa
Repubblica.Ringrazio la famiglia di Giulio per la tenacia
con la quale ha saputo perseguire le proprie ragioni”.
Nelle carte
della Procura emerge anche il nome di colui che, secondo l'accusa, è stato il
carceriere, l'aguzzino e il boia del giovane ricercatore: si tratta del
maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif.
Corrado Augias: "In memoria di Giulio Regeni restituisco la legion d'Onore alla Francia"
E' di questi
giorni l'ennesima prova dell'ipocrisia di cui scrivevamo prima:
nell'ambito di un incontro durante il quale si doveva affrontare anche il tema
del rispetto dei diritti umani in Egitto, Emmanuel Macron ha consegnato al
presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi la Grande Croce della Legion d’Onore della Repubblica
francese, la più alta onorificenza del Paese.
Corrado Augias, giornalista e
scrittore, cittadino italiano insignito a suo tempo della stessa onorificenza
ora concessa al presidente egiziano oggi comunica la sua decisione di
restituire quella onorificenza poiché, citando il poeta Orazio, “Sunt
certi denique fines, quo ultra citraque nequit consistere rectum” (Vi sono determinati confini, al di
là e al di qua dei quali non può esservi il giusto”).
Auspichiamo che le azioni del governo italiano siano ora all'altezza della richiesta di Giustizia e Verità impugnata dai genitori di Giulio Regeni e tanti cittadine e cittadini italiani.
Lettera di Corrado Augias al direttore di La Repubblica :
"Caro direttore,
domani lunedì 14 dicembre, andrò all'Ambasciata di Francia per restituire le
insegne della Legion d'onore a suo tempo conferitemi. Un gesto nello stesso
grave e puramente simbolico, potrei dire sentimentale. Sento di doverlo fare
per il profondo legame culturale e affettivo che mi lega alla Francia, terra
d'origine della mia famiglia.
La mia opinione
è che il presidente Macron non avrebbe dovuto concedere la Legion d'onore ad un
capo di Stato che si è reso oggettivamente complice di efferati criminali. Lo
dico per la memoria dello sventurato Giulio Regeni, ma anche per la Francia,
per l'importanza che quel riconoscimento ancora rappresenta dopo più di due
secoli dalla sua istituzione. Quando il primo console Napoleone Bonaparte la
istituì, non voleva ridare vita ad un ordine cavalleresco ma certificare il
riconoscimento di un merito, militare o sociale. Questa distinzione è
importante in relazione al caso di cui si discute. Dove e quali sono i
meriti del presidente Al-Sisi?
I riconoscimenti
e le onorificenze degli Stati sono soggetti al mutevole andamento della storia,
può accadere che un'insegna elargita in un dato momento si trasformi in un
gesto imbarazzante per il comportamento successivo della persona insignita. In
questo caso però le cose sono già chiare oggi. Il comportamento delle autorità egiziane, a partire dal suo presidente
Abdel Fattah al-Sisi, è stato delittuoso, ha violato i canoni della giustizia,
prima ancora quelli dell'umanità.
Ora l'Italia si trova di fronte
un'autentica alternativa del diavolo. Rischia di sbagliare qualunque
decisione prenda. Se manterrà normali relazioni diplomatiche con l'Egitto
sembrerà tradire la memoria di un bravo ricercatore universitario torturato e
ucciso per il lavoro accademico che stava svolgendo. Se li interromperà sarà
sostituita, tempo pochi giorni, da altri Paesi in molti fruttuosi rapporti
commerciali e industriali. In un caso e nell'altro una perdita secca, anche se
di diversa natura.I rapporti tra Stati (come ogni rapporto politico) sono
regolati dal calcolo, certo non dalla generosità né dall'amicizia, nemmeno dai
legami secolari che pure esistono tra Italia e Francia. Però c'è un limite che non dovrebbe essere superato, ci sono occasioni
in cui anche i capi di Stato dovrebbero attenersi a quella che gli americani
chiamano “the right thing”, la cosa giusta. Credo che il
presidente Emmanuel Macron in questo caso abbia fatto una cosa ingiusta".
Ecco il
testo della lettera consegnata all'ambasciatore:"Gentile
ambasciatore, le rimetto qui accluse le insegne della Legion d'onore. Quando mi
venne concessa, il gesto mi commosse profondamente. Dava una specie di
consacrazione al mio amore per la Francia, per la sua cultura. Ho sempre
considerato il suo paese una sorella maggiore dell'Italia e una mia seconda
patria, vi ho risieduto a lungo, conto di continuare a farlo. Nel giugno 1940,
mio padre soffrì fino alle lacrime per l'aggressione dell'Italia fascista ad
una Francia già quasi vinta.
Le rimetto le
insegne con dolore, ero orgoglioso di mostrare il nastrino rosso all'occhiello
della giacca. Però non mi sento di condividere questo onore con un capo di
Stato che si è fatto oggettivamente complice di criminali. L'assassinio di
Giulio Regeni rappresenta per noi italiani una sanguinosa ferita e un insulto,
mi sarei aspettato dal presidente Macron un gesto di comprensione se non di
fratellanza, anche in nome di quell'Europa che - insieme - stiamo così
faticosamente cercando di costruire. Non voglio sembrare più ingenuo di quanto
non sia. Conosco abbastanza i meccanismi degli affari e della diplomazia - però
so anche che esiste una misura, me la faccia ripetere con le parole del poeta latino
Orazio: “Sunt certi denique fines, quo ultra citraque nequit
consistere rectum” (Vi
sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il
giusto) .
Credo che in
questo caso la misura del giusto sia stata superata, anzi oltraggiata.
Con profondo rincrescimento".
Lidia Menapace, la "compagna Bruna" è deceduta questa notte all'ospedale 'San Maurizio' di
Bolzano dov'era ricoverata da alcuni giorni. Partigiana, donna, femminista ha saputo offrire un contributo prezioso al patrimonio culturale dell'Italia nata dalla vittoria sul nazifascismo: dal suo impegno come staffetta partigiana, all'esperienza come donna-parlamentare e femminista.
“Cosa rimane oggi della Resistenza?- diceva nell’aprile 2009 - È rimasto un gran buco da colmare. Siamo davanti a un fenomeno che ho iniziato a chiamare di 'alzheimer organizzato' (…) Tutti noi temiamo l’alzheimer, perché è la perdita della memoria di te stesso (…) ma un intero popolo che viene indotto all’alzheimer è un popolo che tu puoi portare dove vuoi. Senza un passato con cui confrontarsi non ha un futuro".
Anche nelle vesti di parlamentare, il suo pensiero era anzitutto rivolto alla difesa del bene comune agognato dalla vittoria della Resistenza e da realizzarsi attraverso una azione politica onesta: "(...)Noi che eravamo i più giovani e che non mettevamo nell’azione se non una rivolta morale invincibile, su cui fondava il gesto o il fatto politico. Per questo finiamo sempre per trovarci male nell’attività politica fine a se stessa, fatta solo di abilità, di furberia, di puro gusto del potere, ma senza tensione morale, senza un’idea di miglioramento civile, di testimonianza intelligente di rigore»..
Anche nei giorni della pandemia, Lidia Menapace sognava di poter uscire per cambiare il mondo: “Non vedo l’ora di uscire e andare nel piccolo giardino sotto casa Ma non vorrei che la liberazione dopo il virus, si riducesse solo a uscire di casa. (…) Immagino gruppi di persone che pensino a cambiare le cose dentro un grande movimento di cambiamento. Una vita politica in cui ciascuno vede cose che non funzionano e si impegni per trasformarle, in cui le cose sbagliate siano raddrizzate”.
Ci ha lasciati la "compagna Bruna". Aveva
96 anni, è deceduta questa notte all'ospedale 'San Maurizio' di
Bolzano dov'era ricoverata da alcuni giorni, a seguito del Covid-19,
Da vera insegnante ci ha educato con l'esempio della sua vita alla
Resistenza, alla voglia di ricostruire dopo le macerie, all'impegno
culturale e sociale. Sottolineato da un'interpretazione al femminile
della vita e della militanza
Giovanissima, Lidia
Menapace, "Bruna", prende parte alla Resistenza e
nel 1964 è la prima donna eletta nel Consiglio provinciale di
Bolzano. All’inizio degli anni Sessanta inizia a insegnare
all’Università cattolica del Sacro Cuore con l’incarico di
lettrice di lingua italiana e metodologia degli studi letterari,
incarico che durante il Sessantotto non le viene rinnovato
a seguito della pubblicazione di un documento intitolato “Per
una scelta marxista”. Dopo essere uscita dalla Democrazia
cristiana, simpatizza per il Partito comunista e nel 1969 viene
chiamata dai fondatori nel primo nucleo de Il Manifesto cui
offre per anni il suo fondamentale contributo. Membro di
Rifondazione comunista fin dalla fondazione, nelle elezioni
politiche del 2006 viene eletta al Senato.
Da vera insegnante, Lidia Menapace ci ha
educato con l’esempio della sua vita: la Resistenza partigiana, la
voglia di ricostruire dopo le macerie civili e umane della guerra,
l’impegno culturale e sociale. Le sue parole sagge, ironiche,
leggere ma pesanti allo stesso tempo, la sua stessa fisicità, il suo
profilo inconfondibile ci hanno fatto negli anni innamorare di lei.
“Buonasera a tutte e a tutti - diceva nel marzo
del 2017 a Milano - sempre tutte e tutti, cioè sempre il
linguaggio inclusivo. E sempre prima tutte e poi tutti, non solo per
cortesia che quando c’è si ringrazia e quando non c’è non si
può protestare, ma per diritto, perciò si può protestare: perché
noi donne siamo di più. Quindi: contano i numeri, contano i voti.
Non so se sapete di quanto siamo di più. All’ultimo censimento,
quello del 2011, le donne risultarono essere due milioni e
trecentomila circa più degli uomini. Quando lo dico, c’è sempre
qualche patriarca gentile che mi dice: adesso vedrai che ci mettiamo
subito in riga. Guardate che ci fu un milione di voti di donne più
che di uomini al referendum 'monarchia-repubblica'; quindi non
metteteci sempre così tanto tempo insomma… cercate di sveltirvi un
po’… perché altrimenti nel 3003 siamo ancora qui che contiamo
quanti dovremmo essere”. C’è in queste parole tutta Lidia,
con la sua ironia, la sua schiettezza, il suo femminismo. Una
anticipatrice: questa forse è stata la caratteristica più nitida ed
esclusiva del suo lavoro.
Scriveva già nel 1993 nella prefazione al
volume “Parole per giovani donne”: “Poiché ho ribattuto
che possiamo cominciare a sessuare il linguaggio nei miliardi di
volte in cui si può fare senza nemmeno modificare la lingua, e poi
ci occuperemo dei casi difficili, ecco subito di nuovo a chiedermi
perché mai mi sarei accontentata di così poco. Se è tanto poco,
dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere,
esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria,
degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità,
trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla
propria. Questo è infatti il potere simbolico del nome,
dell’esercizio della parola. Trasmettere oggi nella nostra società
è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di
genere”.
Ci ha regalato la definizione più suggestiva
del movimento delle donne definendolo ‘carsico’, come un fiume
che talvolta sprofonda nelle viscere della terra per riapparire in
luoghi e tempi imprevisti con rinnovata potenza. Suo è lo slogan
“Fuori la guerra dalla storia”, sua la proposta di una
Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre.
“Cosa
rimane oggi della Resistenza?- diceva nell’aprile 2009 - È
rimasto un gran buco da colmare. Siamo davanti a un fenomeno che ho
iniziato a chiamare di 'alzheimer organizzato' (…) Tutti noi
temiamo l’alzheimer, perché è la perdita della memoria di te
stesso (…) ma un intero popolo che viene indotto all’alzheimer è
un popolo che tu puoi portare dove vuoi. Senza un passato con cui
confrontarsi non ha un futuro. Cosa ho imparato dalla
Resistenza? A convivere con la paura e a superarla”.
Oggi siamo noi ad avere paura, Lidia. Senza di te ci
sentiamo tutte e tutti (sempre prima tutte e poi tutti, ce lo hai
insegnato tu!) un po’ più tristi, un po’ più soli. Qualche mese
fa , così diceva Lidia Menapace: “Non vedo l’ora di uscire e
andare nel piccolo giardino sotto casa Ma non vorrei che la
liberazione dopo il virus, si riducesse solo a uscire di casa. (…)
Immagino gruppi di persone che pensino a cambiare le cose dentro un
grande movimento di cambiamento. Una vita politica in cui ciascuno
vede cose che non funzionano e si impegni per trasformarle, in cui le
cose sbagliate siano raddrizzate”.
Ci proveremo a raddrizzarle
queste cose, Lidia, ma senza di te sarà più difficile. Già ci
manchi. Ciao, Lidia, ciao Bruna.
Giacché “non siamo marionette”, torniamo ad occuparci di gestione del
territorio poiché, a nostro parere, questo può rappresentare un indicatore
utile ad individuare gli scopi, gli indirizzi, il “progetto generale” che guida
e determina non solo il carattere di una amministrazione locale ma anche della
sua comunità.
Ci preoccupa pertanto quel che sta avvenendo in Val Pellice dove la querelle" sul tratto ferroviario Pinerolo-Torre Pellice
pare contraddica “le buone pratiche” che mai come oggi sarebbero necessarie e che tante volte sentiamo sbandierare da
più parti ("sbandierare" è ben differente che "attuare") soprattutto in merito alla tutela dell'Ambiente.
"Niente dovrà essere come prima" sentiamo spesso proclamare. Eppure l'evidenza dei fatti mostra altrettanto evidenti contraddizioni: nelle nostre
valli, amministratori e altri soggetti si ostinano nella contrapposizione fra linea
ferroviaria e pista ciclabile, come se le due cose fossero paragonabili e
confrontabili visto il servizio che una linea ferroviaria (ed una pista ciclabile) è chiamata a
svolgere. Non solo: "il treno" è il mezzo di trasporto
universalmente riconosciuto come il più ecologico, sicuro e sostenibile, ancor più se inserito in un sistema sinergico (con il trasporto su ruote e la bicicletta) e all'interno di un sistema strutturato ed efficiente. A queste valutazioni oggi, nel tempo della pandemia,si aggiunge pure il tema della maggior "sicurezza da contagio" negli spostamenti, visto che il treno consente il necessario “distanziamento” pur con la
conseguente riduzione dei posti a sedere dei vettori.
Sul tema della linea ferroviaria Pinerolo-Torre Pellice avevamo già scritto a seguito di un incontro avvenuto con gli amministratori locali i quali, paradossalmente, in quella occasione "(...) erano però all’oscuro di quanto previsto dagli atti della gara d’appalto vinta da Trenitalia che prevedono la riattivazione della tratta ferroviaria, e del fatto che la Regione ha già impegnato le somme necessarie a tale scopo.(...)"(puoi leggere qui)
una fermata dei bus a Pinerolo
Legambiente Val Pellice, che insieme ad altre associazioni sta conducendo la
battaglia per il ripristino della ferrovia Pinerolo-Torre Pellice (ripristino
addirittura previsto da un contratto di servizio in essere, come già scritto, a completamento di
una più estesa tratta), scrive ora una lettera inviata al Presidente dell’Unione Montana
del Pinerolese e ai Sindaci dei Comuni della Val Pellice e di Pinerolo nella
quale si sollecitano chiarimenti in merito al futuro della tratta ferroviaria
Pinerolo-Torre Pellice, ancora in bilico tra il ripristino
delle linea ferroviaria e la realizzazione di una “ciclovia”.
Lettera inviata al Presidente dell’Unione Montana del Pinerolese
ai Sindaci dei Comuni della Val Pellice e di Pinerolo
Con la presente siamo a chiedervi chiarimenti su di un aspetto relativo al
ripristino della tratta ferroviaria Pinerolo-Torre Pellice.
In particolare, sia nell’incontro avuto con voi il 10 giugno 2020, ma anche
prima e dopo, agli organi d’informazione avete sempre ribadito l’intenzione di
dotarvi di uno studio comparativo tra la ferrovia ed altre soluzioni. Quale
esempio citiamo l’ultima dichiarazione del Sindaco di Luserna San Giovanni,
nonché Presidente dell’Unione Montana, fatta a Piazza Pinerolese il 17 ottobre
2020 “La Regione ci ha chiesto di portare una proposta e noi abbiamo incaricato
il Politecnico di fare uno studio. Se ci dirà che il treno è la soluzione
migliore, chiederemo quello, altrimenti faremo una proposta alternativa”.
Siamo però venuti a conoscenza che il 9 ottobreil Politecnico di Torino ha
pubblicato un bando per una borsa di studio per un’attività di ricerca dal
titolo “Studio di fattibilità tecnica ed economica per una ciclovia e di una
sede per bus elettrico lungo il sedime della linea ferroviaria Pinerolo – Torre
Pellice nel quadro delle reti di mobilità ciclo-pedonale di livello regionale”,
a cui è seguito, il 27 ottobre, l’incarico per la realizzazione di tale studio
a un neolaureato, per un periodo di 3 mesi prorogabili. Notiamo con
preoccupazione che le vostre dichiarazioni non corrispondono a quanto previsto
dalla borsa di studio del Politecnico di Torino.
Vi chiediamo inoltre se negli scorsi mesi il Politecnico e/o il CPE hanno
già avviato gli studi per cui la Regione, l’Unione montana e il Comune di
Pinerolo hanno stanziato 15.000 euro, o se, come temiamo, nulla è accaduto fino
all’affidamento di tale borsa di studio.
Ci chiediamo quale possa essere il vantaggio di continuare a rinviare il
ripristino della linea ferroviaria nell’attesa di uno studio di fattibilità
che, ad oggi, non ha ancora portato alcun risultato.Non sarebbe stato più
utile richiedere intanto il ripristino del treno, già previsto, e che
garantisce anche maggior distanziamento rispetto ai bus? Ci sembra che sia
stato perso tempo prezioso per via di una mancata presa di posizione forte e
chiara delle amministrazioni locali verso la Regione Piemonte.
Siamo quindi a chiedervi un incontro urgente, ovviamente in
videoconferenza, per confrontarci, a quasi sei mesi dal precedente incontro, su
come intendete procedere relativamente al contratto di affidamento del TPL a
Trenitalia.
Con l’occasione e per vostra informazione,
vi trasmettiamo in allegato l’ordine del giorno, approvato all’unanimità dal
Consiglio Comunale di Alba, avente come oggetto: ”Impegno per la riattivazione della linea ferroviaria Alba-Asti, per la
difesa delle linee ferroviarie e il trasporto pubblico”.
Ci permettiamo di evidenziarvi il quarto punto delle premesse dove si dice “(Per)
I costi della riattivazione … nessun onere sarebbe a carico dei Comuni, al contrario
di quel che sarebbe in caso di trasformazione in pista ciclabile, in quanto le
opere di ammodernamento e ripristino sono di competenza di Rete ferroviaria
italiana”, stessa condizione valida per tutte le tratte ferroviarie,
compresa la Pinerolo-Torre Pellice.
Vi alleghiamo anche la richiesta
presentata ieri dalla Provincia di Vercelli alla Regione per chiedere il
ripristino del servizio ferroviario sulla tratta Novara-Varallo, attualmente
sospesa come la Pinerolo-Torre Pellice.
LEGAMBIENTE Circolo Val Pellice, Circolo
Pinerolo, Circolo Barge, Circolo GreenTo, Legambiente Piemonte-VdA
COMITATO TRENOVIVO
ASSOCIAZIONE FERROVIE PIEMONTESI
PROGETTO TRATTOXTRATTO
SALVAICICLISTI PINEROLO
ASSOCIAZIONE RITA ATRIA PINEROLO
OSSERVATORIO 0121-SALVIAMO IL PAESAGGIO
ASSOCIAZIONE INVALPELLICE
FRIDAYS FOR FUTURE Val Pellice e Pinerolo
L'associazione
Direfarecosolidale, in collaborazione con la fondazione Nuto Revelli e con il
patrocinio ed il contributo del Comune di Pinerolo,propone un incontro su
piattaforma on line sul tema "L'Economia del Bene Comune". L'incontro è previsto per mercoledì 18 novembre alle ore 21 e vedrà la partecipazione di
Lidia Di Vece presidente della Federazione del Bene Comune in Italia, un movimento internazionale che propone un modello socio-economico etico, in cui l'economia mette al centro il benessere delle persone e del pianeta ed è basato su cinque valori: Dignità umana, Solidarietà-giustizia sociale, Eco-sostenibilità, Trasparenza, Condivisione democratica.
L’incontro si svolgerà nella “Resi-stanza” della Fondazione Nuto Revelli su Google Meet, luogo “virtuale” ma non neutro dal punto di vista dei valori.Link per la partecipazione: https://meet.google.com/phs-xdpf-gjb
Lidia Di Vece, presidente della Federazione italiana: ”Il
movimento internazionale per l’Economia del Bene Comune, prende le mosse da
alcune imprese pioniere in Austria che, grazie alla visione di Christian
Felber, intrapresero il processo complesso dell’economia del bene Comune fin
dal 2008, dando poi origine ad una contaminazione che dall’Austria si estese alla
Germania al Nord Italia e alla Svizzera. L’Italia già in quegli anni, con
alcune imprese del Sud Tirolo, aderì al movimento, ma è nel 2014 che si
costituisce formalmente la Federazione Italiana. Al momento attuale l’adesione
alla Federazione tra soci persone fisiche e aziende è di 80 unità, mentre sono
circa una cinquantina le realtà imprenditoriali e organizzazioni che hanno
redatto il loro Bilancio del Bene Comune”.
Riportiamo il testo
dell'articolo pubblicato da Vita Diocesana, autori Lucy e
Francesco Pagani del Centro Missionario Dicesano:
Luigino Bruni, economista e direttore scientifico del progetto Economy of
Francesco promosso da Papa Francesco (progetto che si chiuderà con un convegno
ad Assisi dal 19 al 21 novembre 2020) descrive con parole molto interessanti il
bene comune, cuore della dottrina sociale della Chiesa: la dimensione più
importante della nostra felicità è un qualcosa di pubblico, di condiviso, da
cui dipendono anche i suoi aspetti individuali. (...) Se ciascuno degli
utilizzatori di un bene comune (un pascolo in montagna, un parco, l'ozono
nell'atmosfera, un'impresa...) è animato soltanto dalla ricerca del proprio
interesse privato, il bene comune viene distrutto, sebbene nessuno dei soggetti
lo voglia. Per conservare e custodire un bene comune, invece, tra le persone
deve scattare una logica diversa, che qualcuno chiama "logica del
noi", e così far diventare quel "bene di nessuno" un bene di
tutti.”
A Pinerolo l'Associazione Direfarecosolidale, da diversi anni, pone
all'attenzione della cittadinanza la necessità di cambiare passo per conservare
e difendere l'ambiente, evitare sprechi, limitare l'inquinamento del pianeta e
promuovere il queste finalità è bene comune. Con queste finalità è stato
progettato un programma che prevede la proiezione sull'ambiente (rimandati alla
prossima primavera per le restrizioni dovute Covid-19) e incontri on-line sul
tema "Diverse Economie”. Si inizia mercoledi 18 novembre alle ore 21 con
il seminario "L'economia del bene comune" di Lidia Di Vece, Presidente
della il Bene Italiana per il Federazione Comune. L'Economia del bene comune (EBC) è un movimento internazionale che
propone un modello socio-economico etico, in cui l'economia mette al centro il
benessere delle persone e del pianeta ed è basato su cinque valori: Dignità umana, Solidarietà-giustizia
sociale, Eco-sostenibilità, Trasparenza, Condivisione democratica.
"Perché siamo tutti in pericolo.(...)Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. (...)"
Il dovere della Memoria. Pier Paolo Pasolini, ucciso la notte del 2 novembre 1975 sulla spiaggia dell'Idroscalo di Ostia. "Una storia sbagliata", come canterà Fabrizio De André nella canzone a Lui dedicata: l'ennesimo delitto italiano di cui ,ancora oggi, è negata-nascosta la Verità.
Pier Paolo Pasolini è "intellettuale scomodo", "Io so ma non ho le prove" uomo dalle mille contraddizioni, ma pure colui che in maniera "eretica" analizza e predice la condizione di degrado -civile e morale- a cui la società italiana si andava incamminando. Ancora oggi appaiono drammaticamente profetiche le sue analisisui falsi miti della modernità; sul nascente fenomeno del "consumismo"; sul decadimento dei valori e dei legami affettivi e culturali delle comunità; sulla "trasformazione antropologica” che gli italiani parevano subire, aderendo a modelli di cui oggi avvertiamo -con colpevole ritardo- la vacuità e la insostenibilità; sulla "speculazione edilizia" che avrebbe deturpato per sempre luoghi e paesaggi italiani.
Riproponiamo il ricordo per immagini che Nanni Moretti dedicò a Pier Paolo Pasolini, la riflessione di pasolini su "La forma della città",l'ultima intervista rilasciata a Furio Colombo.
Fra le tante cose su cui Pasolini riflette in quella intervista colpisce un passaggio: "(...) Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. (...)". Ancora una volta, per l'ultima volta, Pasolini appare "profetico" quando vediamo coloro che hanno costruito, e continuano a costruire, carriere e privilegi personali (o di casta) fingendosi difensori dei deboli, paladini di legalità o di buona politica.
Ancora una volta, per l'ultima volta, Pasolini appare "profetico" anche con se stesso: "(...) Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo".
il ricordo di Nanni Moretti
"La forma della città"
La
riflessione di Pasolini sul Fascismo e sul paesaggio contenuta nel
documentario "La forma della città". Riflettendo
sulla forma della città di Orte, Pasolini offre una analisi
impietosa e profonda del nascente fenomeno della "speculazione
edilizia" alimentata dal "boom economico che l'Italia conobbe
negli anni del secondo dopoguerra. Secondo Pasolini, mentre il fascismo non era riuscito a modificare la
realtà e la cultura dell’Italia se non per alcuni caratteri
esteriori, più pericoloso per il patrimonio
culturale italiano appare il processo di omologazione condotto
dalla cosiddetta "civiltà dei consumi" (di cui strumento
principe è "la televisione" (!) con la
sua pervasività e capacità di suggestione e
indottrinamento), capace di distruggere e disgregare le realtà
locali, il "genius loci", le peculiarità dei territori italiani, appiattendoli e
snaturandoli per mezzo di una
infinita lottizzazione speculativa. Pasolini si erge
così a primo difensore di quello che lui chiama "il passato
senza nome", ovvero la forma della città, il paesaggio
italiano, ponendo l'attenzione sulla necessità di avere cura del
territorio e rispetto verso quel patrimonio "anonimo" frutto della storia di una comunità, fondamento di uno sviluppo meditato e sostenibile.
Furio Colombo:"Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre (1975), fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista. Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”».
"Perché siamo tutti in pericolo"
- Furio Colombo: "Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò «la situazione», e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La «situazione» con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della «situazione». Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo…"
- Pier Paolo Pasolini: "Sì, ho capito.Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo» non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici, a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava, una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, «la situazione», e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo.
- Furio Colombo: Ecco, descrivi allora la «situazione». Tu sai benissimo che i tuoi interventi e il tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella ma si può anche vedere (o capire) poco.
- Pier Paolo Pasolini:Grazie per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione Parigi brucia tutti sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita (un frutto del tempo è che «lava» le cose, come la facciata delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per «scegliere». Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia).
Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e «collabora»(mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal «potere»?
- Furio Colombo: Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?
- Pier Paolo Pasolini:Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri.Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.
- Furio Colombo:Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.
- Pier Paolo Pasolini:Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo… È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.
- Furio Colombo: E qual è la verità?
- Pier Paolo Pasolini: Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire «evidenza». Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è «stare con i deboli». Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere.L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.
- Furio Colombo: Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai in genere molto successo popolare, cioè sei «consumato» avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta?
- Pier Paolo Pasolini: A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma.
- Furio Colombo: Come dire che hai nostalgia di quel mondo.
- Pier Paolo Pasolini: No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere «di che segno sei». Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse – se ha ancora un soffio di vita – in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa effetto, prima loro, prima lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la «situazione». È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. l’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del «cantando sotto la pioggia». Ma sale e ti annega? Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.
- Furio Colombo: E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici.
- Pier Paolo Pasolini: Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato «la vita violenta».Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra, delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.
- Furio Colombo: Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta) e se non vogliamo usare la repressione «più avanzata»…
- Pier Paolo Pasolini: Che mi fa rabbrividire.
- Furio Colombo: Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio?
- Pier Paolo Pasolini: Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non solo quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.
- Furio Colombo: Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?
- Pier Paolo Pasolini: Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.
- Furio Colombo: Pasolini, se tu vedi la vita così – non so se accetti questa domanda – come pensi di evitare il pericolo e il rischio?
- Pier Paolo Pasolini: È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande. «Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina».
Il giorno dopo, domenica 2 novembre 1975, il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini era all’obitorio della polizia.
Paolo
Borsellino (giudice): “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul
controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono
d’accordo”.(P.Borsellino)
Carlo Alberto
Dalla Chiesa (carabiniere): "(...)Ho capito una cosa, molto semplice ma forse
decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi
certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari
diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia,
facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati(...)"
Cittadino Anonimo: "Le
mafie ve le ricordate solo quando provano a infiltrarsi nelle
proteste. Non quando sfruttano la gente che vi fa comprare le arance
a pochi euro! Non quando pilotano gli appalti nelle vostre città e
si spartiscono assessorati e poltrone. Non quando rubano il presente
e il futuro a gente costretta ad attraversare le frontiere
clandestinamente. Non quando i professionisti delle vostre città le
assistono, le curano, le difendono ingrassando l'economia malata che
le nutre. Non quando taglieggiano, violentano, sfruttano i territori.
Delle mafie vi ricordate solo quando secondo voi pilotano quelle
piazze dove non scendete più da decenni!"
Alessia Candido (giornalista, calabrese): La semplificazione di situazioni complesse è peccato
mortale, in epoche complesse irredimibile. Partiamo da un presupposto
a scanso di equivoci: la pandemia c'è, morde, la curva dei contagi è
grave e seria e non si sta parlando di influenza, né sono
accettabili le politiche socio-sanitarie ispirate a Mengele o alla
rupe Tarpea secondo cui "tanto muoiono vecchi e malati"(e
neanche è vero). Però la rabbia sociale c'è e ricondurla a giro
solo alla camorra, ai fascisti, agli ultras è pericoloso perché
queste varie sfumature di fogna interlocutori di un disagio vero. E
non è neanche un conflitto generazionale "nipoti contro nonni".
Il problema non
è "si chiude o no", il problema è "chi paga il conto
di una stagione in cui non si è fatto abbastanza perchè c'erano
interessi di pochi da tutelare a discapito del benessere di molti".
Un amico ieri diceva "stanno trasformando l'Italia in una grande
Ilva". Per molti aspetti, appare un paragone calzante.
E allora magari
è ora che a pagare il costo sociale della pandemia non siano sempre
i soliti stronzi, ultimo anello della catena, gli invisibili, i
precari, quelli che vanno avanti a contrattini di un mese, dove c'è
scritto part-time ma significa full time, dove 18 ore diventano 40, a
cui basta non rinnovare il contratto per metterli di fronte a un
gigantesco "e mo?", quelli affittati dalle grandi agenzie
interinali, quelli invisibili, quelli che aspettano stipendi
arretrati con il padroncino di turno che è passato dal macchinone
uno al macchinone due che ti dice "è un momento difficile,
dobbiamo fare sacrifici e ne usciremo insieme". E
inevitabilmente ti chiedi se sul piatto della bilancia pesino uguale
lui che rinuncia alla settimana bianca e tu che conti gli spicci al
supermercato. Non spuntano dal nulla come funghi, ma sono il
risultato di decenni di controriforme del lavoro, di miopia
istituzionale, di inerzia nel combattere il lavoro nero, di buffonate
su quanto è bella la flessibilità.
Questi sono gli ingredienti
della rabbia sociale, sono queste le categorie invisibili che non
devono sparire dai sussidi. Si faccia una patrimoniale, si approfitti
della crisi per dare diritti e non toglierne ancora, si faccia
emergere la grande sacca di lavoro nero e informale che c'è ed è
terreno fertile per fasci, mafie e dementi in grado di dare risposte
sbagliate a un disagio vero. E si smetta di semplificare tutto in un
derby demenziale che è solo un utile alibi per continuare a
nascondere la testa sotto la sabbia. I cocci ci sono e prima o poi
tocca raccoglierli lo stesso."
L'ultimo Dpcm promulgato ieri ,domenica 25 ottobre 2020, ha nuovamente imposto, fra altre cose, la chiusura di cinematografi e teatri.
Ci uniamo al giudizio negativo sul provvedimento, già espresso dalle categorie interessate, dal momento che artisti , maestranze e gestori, hanno già subito pesanti ripercussioni dai provvedimenti precedenti nonostante che l'adesione ai protocolli sanitari avesse di fatto reso quei luoghi sicuri e di fatto liberi dal pericolo di contagio da "coronavirus".
Chiudere i luoghi che contribuiscono a formare e diffondere cultura, conoscenza, confronto, è un fatto grave che mina uno dei fondamenti stessi della Democrazia: l'agorà, la piazza, il teatro, i luoghi simbolo della antica civiltà greca, sono all'origine di quella forma politica che chiamiamo Democrazia perché proprio in quei luoghi, attraverso la conoscenza ed il confronto, si formava il pensiero, la cultura e la politica che guidava la comunità.
Facendo memoria dell'insegnamento che ci deriva dall'opera di George Orwell sappiamo e ricordiamo a noi stessi che "l'ignoranza ( di una comunità) è forza ( per coloro che detengono il potere). Chiudere i luoghi della cultura significa annichilire la voce della comunità, tanto più necessaria nel momento storico che viviamo.
L'associazione Direfaecosolidale è pertanto costretta a dover sospendere la programmazione dei film di Cinemambiente e gli incontri previsti , rinviati a data da destinarsi.
Lino Aldrovandi, papà di Federico Aldrovandi: "Non dimentichiamolo"
"Federico
Aldrovandi nato a Ferrara il 17 luglio 1987, terminò forzatamente la
sua breve vita ad appena diciotto anni, alle ore 06:04 di un assurdo
25 settembre 2005, sull’asfalto grigio e freddo di via Ippodromo,
di fronte all’entrata dell’ippodromo, in Ferrara, in un luogo
forse troppo silenzioso, ucciso senza una ragione all’alba di una
domenica mattina da 4 persone con una divisa addosso.
I loro nomi:
Monica Segatto, Paolo Forlani, Luca Pollastri ed Enzo Pontani.
il 25 settembre
di ogni anno, giunta l’alba, si ripete quello che per me rimarrà
per sempre un incubo, o peggio, il ricordo orribile dell’uccisione
di un figlio da parte di chi avrebbe dovuto proteggergli la vita.
Quello che non mi darà mai pace sono le urla di Federico con quelle
sue parole di basta e aiuto sentite anche a centinaia di metri, ma
non da quegli agenti (atti processuali). Anzi, il quarto, quello
proteso in piedi a telefonare col cellulare di un collega, mentre
Federico è a terra bloccato, a tempestarlo di calci (testimonianza
in incidente probatorio del 16 giugno 2006). Un’immagine ai miei
occhi di padre non diversa, anzi peggiore, considerandone gli autori
di quel massacro (54 lesioni Federico aveva addosso, la distruzione
dello scroto, buchi sulla testa e per finire il suo cuore compresso o
colpito da un forte colpo gli si spezzò o meglio gli fu spezzato)
rispetto ad altri casi orribili in cui la violenza l’ha fatta da
padrona. Perchè?
Gli atti
processuali dei tre ordini di giudizio portarono si alla condanna
definitiva degli agenti (eccesso colposo in omicidio colposo con pena
a 3 anni e 6 mesi, ridotta a 6 mesi per via dell’indulto), ma sono
le parole “scritte dai giudici nei tre gradi di giudizio” che
rimarranno lì come un macigno a rendere un poco di giustizia a “un
ragazzo ucciso”, e che faranno sempre la differenza, i cui risvolti
avrebbero potuto avere un epilogo di pena ben più grave nei
confronti dei responsabili di un omicidio tanto assurdo quanto
ingiustificato. Ricordiamocelo sempre quando si abbia a parlare di
questa orribile storia, per non correre il rischio di sminuire,
annullare o resettare una verità che oltre a produrre
inevitabilmente tanto dolore lacerante, sopratutto in chi l’ha
subita, ha comunque aperto una strada anche se difficile da
percorrere, verso quei luoghi chiamati rispetto, dignità, civiltà,
democrazia, legalità, umanità, partecipazione, impunità. Maggior
ragione oggi non perdere di vista quelle mete. Non a caso, a volte
penso volutamente, si rischia a tutti i livelli, di perdere la
bussola del buon senso e della normalità. Non perdiamola."
Il processo a coloro che provocarono la morte di Federico Aldrovandi non sarebbe stato possibile senza la testimonianza decisiva diAnne Marie Tsegue,
l’unica testimone oculare che ebbe il coraggio di presentarsi in
procura per riferire quanto aveva visto dalla sua finestra la notte
del 25 settembre 2005 quando Federico Aldrovandi moriva, ucciso mentre chiedeva aiuto. . Fu lei l’unica testimone oculare che decise di presentarsi
in aula, rivivendo quegli attimi della colluttazione tra i quattro
poliziotti e Federico, gli ultimi attimi di vita per il 18enne.
Anne Marie Tzegue volle testimoniare nonostante la paura che le sue parole potessero
avere in qualche maniera ripercussioni sul suo permesso di soggiorno all'epoca in scadenza: “L’ho fatto perché sono mamma anch’io. Federico per me è diventato come
un figlio, aveva pochi anni in più del mio bambino. Ancora oggi
quando ripenso a quella notte non riesco a dormire; è difficile
svegliarsi e pensare che al suo posto ci poteva essere mio figlio.
Solo dopo aver parlato mi si è liberata l’anima. Da questa via non ci passo più; non posso
immaginare di essere stata l’unica a vedere. Perché via Ippodromo
non è una strada deserta, è viva. Solo molto tempo dopo ho saputo
di essere stata l’unica ad avere il coraggio di testimoniare. Io
credo che nessuna madre può tacere a vita. Se quella mattina non
avessi avuto paura, se solo avessi pensato che poteva essere la fine
per lui.. ma lui era lì con degli adulti che stavano facendo il loro
lavoro, la polizia era già lì… . Spero almeno di aver dato una
mano alla giustizia italiana e ai bambini, italiani e stranieri, i
bambini non hanno colore”.
Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi: “Sono molto felice che venga riconosciuto il coraggio di Anne Marie. Devo a lei l’esito del processo. È un esempio di coscienza civile per tutti”.
Filippo Vendemmiati, giornalista di Rai 3 è autore del documentario “È stato morto un ragazzo”.
Nel 2010 l'associazione Articolo 21 assegna un premio speciale ad Anne Marie Tzegue: “una straordinaria signora”: “Questi ospiti, le loro storie, le loro battaglie
– afferma una nota di Articolo 21 -, sono il nostro orizzonte
ideale, rappresentano i nostri punti di riferimento etici e politici,
il comune sentire della nostra associazione che ha la sola ambizione
di sostenere e valorizzare chi davvero si batte per la libertà, la
dignità, la legalità e molto spesso lo fa rischiando di persona,
circondato dalla diffidenza di chi ha ormai alzato bandiera bianca di
fronte agli squadristi della volgarità, della intolleranza, del
razzismo, della esclusione sociale”.
Riportiamo il testo integrale del comunicato col quale Piera Aiello, la cognata di Rita Atria, manifesta la decisione di lasciare il partito per il quale aveva accettato la candidatura al Senato della Repubblica.
Ci permettiamo due brevissime considerazione. La prima: le parole di Piera Aiello confermano ancora una volta il giudizio espresso più volte da alcuni dei magistrati più esposti e impegnati nella lotta contro le mafie, fra questi Nino Di Matteo, Nicolò Gratteri, Giuseppe Lombardo: la lotta contro le mafie, da decenni, non è priorità dei governi e delle forze politiche italiane, aldilà di vuoti e sterili proclami.
La seconda considerazione. Piera Aiello sottolinea l'altro problema che affligge la classe politica italiana: la carenza, culturale-etica-morale, di una classe politica che accetta e consente la presenza e la inadeguatezza di molti soggetti, "eletti-nominati" in qualsivoglia partito, che vedono "la politica come mero strumento per il raggiungimento di fini che sono ben lontani dallo spirito di servizio e di impegno per il "bene comune", come dimostrano anche gli scandali che quotidianamente si susseguono, non per ultimo il cosiddetto "bonus-covid".
Pertanto , ancora una volta si dimostra che "la politica (partitica) non è mai all'altezza", come ebbe a dichiarare anni orsono il nostro illustre concittadino, il senatore Elvio Fassone (puoi leggere qui)
"Sono stata eletta il 4 marzo 2018 nel collegio uninominale in provincia di Trapani-Marsala con quasi 80 mila voti, di cui 25mila nominali. Ho deciso così di rimettere in discussione la mia vita, tenuta segreta dal lontano 30 luglio 1991, in quanto testimone di giustizia. Quando mi è stata chiesta la disponibilità alla mia candidatura, ho intravisto la possibilità di portare la mia esperienza di testimone in un’aula parlamentare dove poter esporre le problematiche dei testimoni, dei collaboratori di giustizia e degli imprenditori vittima di racket e di usura.
Dopo la mia elezione sono entrata a far parte della Commissione Giustizia e della Commissione Parlamentare Antimafia, dove ho messo in chiaro di non volermi candidare per nessun posto apicale, ma di voler portare un sano contributo in difesa delle suddette categorie, spesso, per non dire sempre, abbandonate negli anni dai Governi di turno. Affermo ciò perché nella mia trentennale lotta alla mafia tante promesse sono state fatte, e non mantenute, il che ha peggiorato sempre più la condizione di testimoni, collaboratori e imprenditori, quindi dell'intero popolo italiano, cui è stata soffocata la voce per aver avuto voglia affermare la verità e la giustizia.
Negli anni mi ero appassionata a Gianroberto Casaleggio, uno dei padri del Movimento 5 Stelle, per le sue idee innovative, in cui era palese la voglia di un cambiamento concreto nell’ambito politico. Uno dei pensieri che ho fatto mio è il seguente: “Per raggiungere un obiettivo bisogna crederci, talvolta in modo irrazionale. In questo modo la possibilità di successo aumenta’’ poiché lo ritengo rappresentativo del mio percorso di lotta alla mafia e alla criminalità organizzata. Egli stesso si definiva un semplice cittadino che, con i pochi mezzi a sua disposizione, provava ad affermare quelle idee che a suo dire non sono né di destra né di sinistra poiché si tratta unicamente di idee buone o cattive. Tante sono le cose dette da Gianroberto Casaleggio, che condivido appieno e che hanno contribuito alla mia decisione di entrare in questa grande famiglia.
Ho ritenuto opportuno fare questa premessa perché chiunque avesse deciso di candidarsi in nome di questi ideali avrebbe dovuto essere un cittadino modello, giusto e osservante delle regole e delle leggi e con una fedina penale limpida. Solo in questo caso il Movimento mi avrebbe rappresentata, anche perché negli anni si era battuto in nome della verità, della giustizia e della legalità affiancando i testimoni di giustizia e addirittura accompagnandoli e ascoltandoli in commissione parlamentare antimafia. Ma se ad oggi mi trovo a scrivere tutto ciò è perché, in due anni, di questi ideali non ho visto attuare neanche l’ombra.
Per cominciare, in commissione giustizia i deputati sono incaricati di proporre emendamenti o modifiche su qualsiasi proposta di legge avallata o scritta dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal suo ufficio legislativo. Ma dopo mesi di sedicenti confronti, di tutto il lavoro parlamentare non rimane nulla. È sempre il ministro a decidere tutto e sicuramente non in autonomia, poiché il 90% degli emendamenti portati in commissione e poi in aula vengono bocciati e spesso senza alcuna motivazione valida.
Sicuramente sono state fatte leggi importanti come lo “Spazza corrotti’’, il “416-ter”, la “riforma della prescrizione’’, l’inserimento del “Troyan’’ come strumento per le intercettazioni, ma di fatto rese vane nel momento in cui vengono mandati agli arresti domiciliari ergastolani del 41bis tramite una semplice circolare concordata con gli organi del Dap e il ministro Bonafede. La suddetta circolare manda infatti agli arresti domiciliari pericolosi criminali ,che hanno ucciso anche bambini, solo perché ammalati e ultra settantenni. Non nego il diritto sacrosanto alla salute, ma così come è stata applicata la legge riguardo l’ormai defunto Boss Corleonese Totò Riina, curato fino all’ultimo giorno in carcere, così doveva e deve avvenire per tutti gli altri boss mafiosi, altrimenti dov’è il diritto dell’essere uguali di fronte alla legge che tanto viene evidenziato nelle aule dei tribunali? Come può un cittadino fidarsi dello Stato se viene messa in pericolo in primis la propria sicurezza? I testimoni e i collaboratori che hanno contribuito al loro arresto come possono avere certezze di sicurezza? E chi vuole iniziare questo percorso di legalità come può davvero affidarsi allo Stato, se quest’ultimo non dimostra stabilità rendendo effettiva la pena di persone che hanno ancora le mani sporche di sangue?
Possiamo fare le leggi migliori di questo mondo, possiamo anche modificare la Costituzione, ma se poi non rendiamo reali questi cambiamenti come possiamo professare ideali giusti se siamo noi stessi a tradirli?
Nella stessa commissione Giustizia alcuni dei componenti sono stati “inseriti” e con incarichi importanti e di responsabilità, non per meriti o per competenze, tanto meno perché addetti ai lavori, ma solo perché uomini del ministro o affini.
Sono anch'io un membro della commissione antimafia dove coordino il comitato sui testimoni e collaboratori di giustizia e imprenditori vittime di racket e usura. Ho coordinato diverse audizioni, circa 45, dalle quali è emerso tutto il loro disagio. Per quanto riguarda "testimoni" e "collaboratori", anche se sono due figure ben distinte, ascoltandoli è apparso evidente che queste persone vivono da anni in un sistema di protezione che tutto fa fuorché proteggerli (si veda il caso Bruzzese, familiare di collaboratore di giustizia ucciso il 25 dicembre 2018 in regime di protezione in località protetta). Tutti lamentano l’impossibilità di cominciare una nuova vita, dopo anni di spostamenti da una località protetta all’altra, chiedendo cambio di generalità e reinserimento socio-lavorativo per loro e per i loro familiari. Alcuni, dopo più di 10 anni in un programma di protezione oppressivo e limitante, si ritrovano senza la possibilità di un futuro. Puntualmente, ad ogni cambio di governo, entrambe le figure sopracitate chiedono di essere ascoltate per risolvere queste problematiche, e puntualmente i testimoni vengono auditi senza alcuna risposta certa e concreta. Per i collaboratori invece non è prevista audizione, potendo loro illustrare, solo per iscritto e tramite i Nop, le proprie esigenze, per la maggior parte disattese e senza alcuna risposta. Dico questo perché dal 1991 a oggi ho visto avvicendarsi numerosi Sottosegretari e Vice ministri dell'Interno, che hanno avuto questa delega speciale ma che di fatto, non dando risposte certe, hanno procurato tantissimi ricorsi al TAR da parte di queste categorie per difendere i loro diritti, vanificati da un sistema incancrenito di falsa burocrazia e gestito con circolari interne che disattendono le leggi vigenti.
Il nostro sistema di protezione, sulla carta, è uno dei migliori esistenti al mondo, ribadisco sulla carta, perché molto spesso viene disatteso modificando e subordinando la vita dei protetti e dei familiari agli interessi economici dello Stato.
I testimoni e i collaboratori sono delle semplici pedine lasciate allo sbando senza alcun supporto psicologico.
Riguardo gli imprenditori, si possono dividere in due categorie: la prima comprende i soggetti inseriti in un programma di protezione i quali, allontanati dalle proprie aziende che necessariamente falliscono in quanto abbandonate a loro stesse, dopo anni si trovano alle prese con assurde richieste da parte del fisco.
La seconda categoria include gli imprenditori che denunciano, non sono inseriti in un programma di protezione, non vengono ricevuti dalle prefetture locali, sono abbandonati senza alcuna tutela e nel migliore dei casi usufruiscono della legge 44/99 che concede loro un riconoscimento di danni estorsivi, che puntualmente arriva dopo anni, quando l’azienda è ormai chiusa o addirittura fallita.
Tutte le problematiche che ho elencato sono state puntualmente da me portate a conoscenza degli organi competenti, che ad oggi hanno audito alcuni di questi soggetti, senza risolvere nulla.
Non nascondo l’amarezza per tutto il lavoro che ho fatto, non solo in questi due anni da deputato ma anche negli anni quale semplice "testimone di giustizia", lavoro vanificato da persone che non solo non si sono mai occupate di antimafia con la formazione adeguata, ma che non hanno ascoltato il mio urlo di dolore che non è altro che la voce di migliaia di persone che non hanno modo di farsi ascoltare e che io mi pregio di rappresentare. Sono stata additata come, e scusate il termine, ‘’rompicoglioni’’, solo perché difendo a spada tratta i diritti di chi come me è stato ‘’spremuto come un limone’’ da organi dello Stato e abbandonato. Sono fiera di essere così come vengo definita, specialmente da colui che per primo mi ha chiamata così, perché ho avuto la certezza che in questa specifica commissione, dove si decide della vita e della morte delle persone, vengono nominati personaggi che non avrebbero mai avuto il coraggio denunciare neanche un semplice furto di galline e nonostante ciò hanno l’arroganza di non ascoltare chi per anni ha vissuto in un sistema di protezione a dir poco surreale.
Negli anni, non solo io ma anche altri testimoni di giustizia abbiamo offerto la nostra collaborazione per migliorare il sistema, ma tutto ciò è rimasto inascoltato. Ad oggi pochissime persone hanno ancora la forza di denunciare, molti scappano dal programma di protezione ritornando nella terra di origine, preferendo farsi ammazzare che morire succubi di un sistema inesistente, inadeguato che ormai è imploso, gestito da persone quantomeno incompetenti.
A livello locale si sono commessi errori analoghi,avendo selezionato candidati sindaco privi delle competenze necessarie in una realtà così complessa qual è la Sicilia, certificandoli attraverso la piattaforma Rousseau, ma dopo avere scartato a tavolino candidature senza motivazioni valide.
Alla luce di tutto ciò non voglio essere considerata complice di quanto è accaduto nonché chiudere gli occhi su quanto sta accadendo: ribadisco che non ho mai chiesto poltrone o privilegi ma solo di essere ascoltata e di continuare a fare antimafia vera nelle istituzioni competenti.
Ho un preciso dovere verso i ragazzi delle scuole ai quali parlo di Verità, Giustizia e Legalità, ai quali dico di non scendere mai a compromessi, di non chiedere raccomandazioni, di essere se stessi e di guadagnare e raggiungere gli obiettivi prefissati in base al merito; è anche per loro che non posso restare in un Movimento che per anni ha ripetuto i concetti di: Onestà, Meritocrazia e Giustizia ma che alla prova dei fatti è sceso a compromessi, ha costruito cordate, ha attribuito incarichi delicati a individui privi della formazione necessaria per gestire attività vitali per la nostra Repubblica.
Se, come mi diceva “Zio Paolo” (Borsellino): ‘’Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo’’, ebbene ho la netta sensazione che non è la guerra quella che il Movimento ha fatto in questi due anni.
Non si dica mai che ho preso questa decisione a cuor leggero e, sono ancora parole di Paolo Borsellino: “è normale che esista la paura in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio, non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti. Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola... La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità’’.
A conclusione, faccio presente di essere in regola con le restituzioni e con la rendicontazione che il Movimento ha richiesto ai portavoce, soprattutto non sento in alcun modo di tradire i miei elettori i quali mi hanno conferito l’onore e l’onere di essere eletta alla Camera dei deputati sotto il simbolo del Movimento.
La mia lotta per la Legalità, la Giustizia e la Verità continua senza sosta, perché iniziò ben due decenni prima della nascita del Movimento e, se il Cielo mi aiuta, continuerà altri decenni a favore della mia gente, della Sicilia, dell'Italia tutta, in memoria di chi ha dato la propria vita per lo Stato senza scendere mai ad alcun compromesso.
Tutto ciò premesso mi dimetto dal Movimento 5 Stelle, che non mi rappresenta più, continuando la mia attività di parlamentare.