Nel documento col quale si dava notizia della nascita del presidio LIBERA "Rita Atria" Pinerolo, 12 novembre 2011, fra altre cose così scrivevamo: "(...) ci è parso necessaria la presenza -anche nel pinerolese- di un osservatorio che si ponga il compito di monitorare e analizzare i fenomeni presenti sul territorio. Azione che deve avvenire anche nei confronti delle amministrazioni, affinché dichiarazioni di principio e proclamazioni di intenti sul tema della Legalità e sulla necessità di una reale trasparenza nelle scelte della amministrazione della res-pubblica, il bene comune, non siano mere intenzioni verbali e principi enunciativi ma assumano concretezza e attuazione reale. Diventare ed essere “sentinelle del territorio”. (puoi leggere qui il testo integrale)Proprio seguendo quell'intento più volte in questi anni ci siamo trovati, insieme alle associazioni del "Forum", a riflettere e spesso a giudicare con preoccupazione vicende che riguardavano la gestione urbanistica del nostro territorio. Ancora una volta torniamo ad esprimerci sull'area ai piedi di Monte Oliveto ( burocraticamente definita CP7) perchè, su quell'area, a nostro parere si gioca una "partita" importante, decisiva: l'osservanza dell'art. 9 della Costituzione Italiana: "La Repubblica (...) tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione."Ci rivolgiamo quindi al sindaco Luca Salvai, agli amministratori locali e regionali, alla comunità, ponendo la domanda essenziale: le azioni che si stanno svolgendo su quell'area sono ossequiose alle determinazioni e ai principi espressi dall'art. 9 della Costituzione Italiana e ribaditi dal Consiglio di Stato? Ricordiamo a noi tutti che il Paesaggio è bene assoluto e primario, prevalente su ogni qualsivolgia interesse, sia pure “legittimo”.
Comunicato Stampa - Lettera aperta del “Forum Salviamo il Paesaggio di Pinerolo”:
“Il Paesaggio è bene primario assoluto”
Le associazioni sottoscritte, riunite nel Forum Salviamo il paesaggio di Pinerolo, ritornano sulla vicenda della CP7 reiterando la richiesta di un incontro con la presente Amministrazione, al fine di conoscere quanto si sta delineando a riguardo dell'area ai piedi di Monte Oliveto (CP7).La Regione Piemonte ed il Ministero dei Beni Culturali hanno infatti riconosciuto che l'area di Monte Oliveto presenta un elevato valore paesaggistico, meritevole di salvaguardia e tutela, tanto che buona parte di quell’area viene dichiarata inedificabile proprio dal Piano Paesaggistico Regionale (PPR) in via di approvazione. E' tuttavia noto che l'amministrazione del sindaco Buttiero aveva presentato “osservazioni” al Piano Paesaggistico Regionale, opponendosi alla dichiarzione di inedificabilità dell'area, giacchè il vigente PRGC prevederebbe invece una ampia possibilità edificatoria.A questo proposito, ribadiamo che un'ultriore offerta di edilizia residenziale in Pinerolo appare davvero “non necessaria”: palese è la quantità di case sfitte o invendute e “l'eccesso di offerta” non fa che diminuire il valore degli immmobili delle famiglie che, in passato, avevano investito buona parte dei risparmi proprio sulla “casa”. Nel luglio scorso, le sottoscritte associazioni avevano pertanto inviato alla Regione Piemonte copia delle firme dei cittadini pinerolesi che si opponevano alla devastazione di “quel che resta della bellezza di Monte Oliveto”.Date queste premesse, quanto apparso sugli organi di stampa locale e lo stesso comunicato del Movimento 5 Stelle pinerolese, non fuga le nostre preoccupazioni. Pare infatti riconfermarsi “il copione e lo scenario” già visto sinora. L'area di Monte Oliveto è metaforico “campo di battaglia” ove si scontrano interessi che afferiscono a principi ben differenti fra di loro: da un lato la difesa del bene pubblico Paesaggio; dall'altra parte gli interessi privati e speculativi, sia pure legittimi”. Questo è il cuore di tutta la vicenda!Ma di cosa parliamo quando parliamo di tutela del bene Paesaggio? L'organo supremo del Consiglio di Stato dichiara in maniera prentoria (sentenza n. 2222 del 29 aprile 2014) che il Paesaggio è bene primario e assoluto. Il Paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato, quindi prevalente anche rispetto a interessi “urbanistico-edilizi". In occasione di quella sentenza, il Consiglio di Stato si pronunciava addirittura contro lo stesso Ministro per i Beni e le Attività Culturali il quale, a detta degli alti magistrati, deve occuparsi di “curare l’interesse paesaggistico” senza operare valutazioni di “interessi pubblici di altra natura” (leggi qui).Preoccupano quindi le notizie che parlano di mediazioni, incontri, pressioni (?), che si sono addensati sulla definizione di uno strumento, il Piano Paesaggistico Regionale, il quale deve fare perno esclusivamente sul principio di tutela del Paesaggio contro ogni qualsivolgia interesse, sia pure “legittimo”. Il Piano Paesaggistico Regionale rappresenta infatti uno strumento non solo di natura urbanistica ma, ancor più, di natura culturale. Rispettando l'art. 9 della Costituzione Italiana, il Piano deve configurarsi come strumento essenziale a tutelare i luoghi del bene comune Paesaggio ed il suo “genius loci” (lo spirito del luogo): l'insieme dei valori inerenti il territorio”, l’ambiente, l’eco-sistema. Sono questi i valori nei quali una comunità riconosce i cardini della sua storia, della sua memoria collettiva, e dai quali partire per costruire “il bene lungimirante e sostenibile” della comunità, dell'intera nazione.Da tutto questo conseguono alcune domande:a) come si pronuncerebbe il Consiglio di Stato, nei confronti di un “interesse privato” rappresentato dalla “cordata di costruttori” della CP7, al fine di tutelare il bene primario del Paesaggio?b) stabilito che l'area ai piedi di Monte Oliveto presenta un elevato valore paesaggistico, le azioni dei rappresentanti politici pinerolesi e piemontesi -ai vari livelli- sono state e saranno conseguenti e ossequiose alle determinazioni e ai principi espressi dall'art. 9 della Costituzione Italiana e ribaditi dal Consiglio di Stato?Qualora vi fossero mediazioni e mercanteggiamenti sull'area di Monte Oliveto, a nostro parere, questi farebbero nuovamente rivivere il principio nefasto della cosiddetta “urbanistica contrattata”, frutto del rapporto diretto fra i “padroni della rendita fondiaria” e le amministrazioni locali e causa della devastazione di tante parti del Paesaggio Italiano e dei valori da questo rappresentati. Anche questo “mercanteggiamento” deve essere contrastato ed impedito da un Piano Paesaggistico Regionale: il Paesaggio è bene primario assoluto!Pertanto, si chiede alla nuova Amministrazione Comunale di Pinerolo, eletta anche in virtù di una dichiarata azione amministrativa che sarebbe stata volta a forme di partecipazione democratica attiva, di indire un tavolo di confronto e di lavoro con le Associazioni espressione della Società Civile del Pinerolese, portatrici di valori e di interessi generali legittimi propri di una Cittadinanza responsabile, la quale non vuole e non deve essere depauperata di valori fondamentali, etici ed identitari: il Paesaggio è bene primario assoluto!Osservatorio 0121- Salviamo il PaesaggioItalia NostraCeSMAPLegambientepresidio LIBERA “Rita Atria”- PineroloCentro studi Silvio Pellico
venerdì 30 settembre 2016
Comunicato Stampa-Lettera aperta del“Forum Salviamo il Paesaggio di Pinerolo” sulla CP7: “Il Paesaggio è bene primario assoluto”
mercoledì 21 settembre 2016
ROSARIO LIVATINO: "... NESSUNO CI VERRA' A CHIEDERE SE SIAMO STATI CREDENTI, MA CREDIBILI "
ROSARIO LIVATINO: "ALLA FINE DELLA VITA , QUANDO MORIREMO, NESSUNO CI VERRA' A CHIEDERE SE SIAMO STATI CREDENTI, MA CREDIBILI "
La vita e il lavoro di Rosario Livatino ( fonte LINKIESTA)
Rosario Livatino, "Il giudice ragazzino" secondo una definizione coniata da Francesco Cossiga, fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre '90 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre si recava in Tribunale, senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto.
Come Sostituto Procuratore della Repubblica al Tribunale di Agrigento, Rosario Livatino si occupò di delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche, nel 1985, di quella che poi negli anni '90 sarebbe scoppiata come la "Tangentopoli siciliana". Fu proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato, Calogero Mannino accusato di legami con vari boss e di aver stipulato un accordo elettorale con un esponente agrigentino di Cosa nostra, nel biennio 1980-1981. Calogero Mannino verrà poi arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa ma assolto in appello nel 2008, per mancanza di prove.
Dal 21 agosto '89 al 21 settembre '90 Rosario Livatino prestò servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione.
Paolo Borsellino ricorderà in una cerimonia pubblica Rosario Livatino. L'intervista televisiva che il giudice concederà, sarà l'occasione per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica sul problema della mafia ma anche per muovere un duro attacco ai politici che avevano preso di mira i pm anti-mafia senza curarsi di risolvere i problemi ordinari e strutturali della giustizia in Sicilia."I giudici continueranno a lavorare e a sovraesporsi ed in alcuni casi a fare la fine di Rosario Livatino, come tanti altri. I politici appariranno ai funerali proclamando unità d'intenti per risolvere questo problema e dopo pochi mesi saremo sempre punto e a capo".Le parole di Paolo Borsellino, se valevano in quei giorni del 1990 , potrebbero avere valore di denuncia anche ai giorni nostri, salvo che -nei giorni che viviamo- le mafie non hanno più bisogno di uccidere "vittime eccellenti".
Tuttavia, in questi decenni spesso la politica è stata invece attenta e metodica nel depotenziare strumenti di indagine e risorse a disposizione di magistrati ed inquirenti. Più volte, lo stesso don Lugi Ciotti ha dovuto denunciare in questi anni la inefficacia di leggi, norme e provvedimenti che risultano poco efficaci, se non inutili, in quanto frutto di mediazioni al ribasso, frutto di "accordi "sottobanco" tra i partiti".
La vita e il lavoro di Rosario Livatino ( fonte LINKIESTA)
Livatino era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952 da padre avvocato e madre casalinga. Dopo il liceo classico si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo. A 22 anni era arrivata la laurea cum laude, poi il servizio come vicedirettore in prova all’Ufficio del Registro di Agrigento, per due anni tra il ‘77 e il ‘78. Infine l’ingresso in magistratura nel tribunale di Caltanissetta. Ad Agrigento era approdato nel ‘79, prima come sostituto procuratore e poi, dieci anni dopo, come giudice a latere o sostituto procuratore della Repubblica.
Nella sua carriera si è occupato di criminalità e ha indagato la presenza delle mafie e della corruzione nell’Agrigentino. È famoso il suo interrogatorio all’allora ministro Calogero Mannino, accusato di legami con vari boss e di aver stipulato un accordo elettorale con un esponente agrigentino di Cosa nostra, Antonio Vella, nel biennio 1980-1981. Per la cronaca, Mannino verrà poi arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa ma assolto in appello nel 2008, per mancanza di prove.
Il “giudice ragazzino”, appellativo con cui Livatino è spesso ricordato, si deve al sociologo Nando dalla Chiesa che gli ha dedicato un libro. «A 28 anni, molto giovane, Livatino si era occupato Inchiesta sui Cavalieri del Lavoro di Catania – spiega l’autore –, un gruppo di quattro imprenditori potentissimi nell’edilizia e non solo, che allora sembravano costituire il potere economico più forte nel Sud. Quando ho sentito quello che Cossiga aveva detto di quei giovani giudici siciliani, cioè che "non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre un’indagine complessa", e ho ripensato a quello che Livatino aveva avuto il coraggio di fare, ho deciso di titolare così il libro. Ho pensato che giovani così sono necessari alla magistratura, e che il capo del Csm avrebbe dovuto difenderli anziché attaccarli».
La morte del “giudice ragazzino” fu attribuita a un conflitto di mafia: la Stidda l’avrebbe ucciso per punire un magistrato severo e «per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa nostra». Nel 2001 una sentenza della Cassazione condanna all’ergastolo i quattro sicari – Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro –, incastrati dalla testimonianza di un uomo che passava sulla strada il giorno dell’esecuzione, Pietro Nava.
Le vere cause della sua morte, per altri, sono invece da attribuirsi alle sue indagini sui legami tra mafia e politica. Di certo la politica non l’ha aiutato: «Non ci sono stati quegli interventi che mettono la giustizia in condizioni di lavorare», dirà Borsellino a proposito della sua morte.
Nella sua carriera si è occupato di criminalità e ha indagato la presenza delle mafie e della corruzione nell’Agrigentino. È famoso il suo interrogatorio all’allora ministro Calogero Mannino, accusato di legami con vari boss e di aver stipulato un accordo elettorale con un esponente agrigentino di Cosa nostra, Antonio Vella, nel biennio 1980-1981. Per la cronaca, Mannino verrà poi arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa ma assolto in appello nel 2008, per mancanza di prove.
Il “giudice ragazzino”, appellativo con cui Livatino è spesso ricordato, si deve al sociologo Nando dalla Chiesa che gli ha dedicato un libro. «A 28 anni, molto giovane, Livatino si era occupato Inchiesta sui Cavalieri del Lavoro di Catania – spiega l’autore –, un gruppo di quattro imprenditori potentissimi nell’edilizia e non solo, che allora sembravano costituire il potere economico più forte nel Sud. Quando ho sentito quello che Cossiga aveva detto di quei giovani giudici siciliani, cioè che "non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre un’indagine complessa", e ho ripensato a quello che Livatino aveva avuto il coraggio di fare, ho deciso di titolare così il libro. Ho pensato che giovani così sono necessari alla magistratura, e che il capo del Csm avrebbe dovuto difenderli anziché attaccarli».
La morte del “giudice ragazzino” fu attribuita a un conflitto di mafia: la Stidda l’avrebbe ucciso per punire un magistrato severo e «per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa nostra». Nel 2001 una sentenza della Cassazione condanna all’ergastolo i quattro sicari – Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro –, incastrati dalla testimonianza di un uomo che passava sulla strada il giorno dell’esecuzione, Pietro Nava.
Le vere cause della sua morte, per altri, sono invece da attribuirsi alle sue indagini sui legami tra mafia e politica. Di certo la politica non l’ha aiutato: «Non ci sono stati quegli interventi che mettono la giustizia in condizioni di lavorare», dirà Borsellino a proposito della sua morte.
Uno dei primi ad accorrere sulla scena del delitto fu Paolo Borsellino, che rimase molto colpito dall'uccisione del "giudice ragazzino". Così ricorderà quella uccisione: «Lo hanno braccato come un coniglio, povero Rosario, (...)».
La vita, la morte e la memoria di Rosario Livatino sono l'occasione per sottolineare la responsabilità civile a cui noi cittadini siamo chiamati: solo grazie alla testimonianza Pietro Ivano Nava, il tranquillo rappresentante di commercio che assistette casualmente all'omicidio, è stato possibile rendere giustizia a Rosario Livatino, individuando l'esecutore e i mandanti dell'assassinio del "giudice ragazzino". Tutti condannati all'ergastolo, in tre diversi processi e nei vari gradi di giudizio, con pene ridotte per i "collaboranti".
La storia di Pietro Ivano Nava, il testimone dell'omicidio di Rosario Livatino.
"COSI' PAGA CHI AIUTA LO STATO".
fonte La Repubblica 08 aprile 1992
Di Giuseppe D’Avanzo
(…) Era un venerdì caldo e senza afa. Erano le nove del mattino. Pietro Ivano Nava, agente di commercio, era a bordo della sua Lancia Thema a quattro chilometri da Agrigento.
Vide sul lato della strada una Ford Fiesta rosso-amaranto con la portiera aperta sul lato destro. Accanto un ragazzotto con il volto coperto dal casco. Più in là, un altro uomo. Sta scavalcando il guard-rail. Ha il volto scoperto, stringe nella destra una pistola. Insegue Rosario Livatino. Il "giudice ragazzino" di Agrigento è stato già colpito ad una spalla. Sta tentando la fuga in un vallone di erba bruciata e sterpi. Il killer della mafia lo braccherà come una bestia. Lo colpirà da lontano e, una volta abbattuto, sparerà ancora - quattro volte - per finirlo. Pietro Ivano Nava dalla sua Lancia Thema fa in tempo a vedere bene l' assassino in faccia. Raggiunge Agrigento. Chiama la polizia. Dice: "Ho visto l' assassino. Se lo trovate, saprei riconoscerlo". E lo ha riconosciuto davvero Domenico Pace, l' assassino.
"Non mi sento un eroe, non mi sento una mosca bianca. Non sono né l' uno né l' altro. Sono un cittadino che crede nello Stato né più né meno come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato non è un' entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono...". Pietro Ivano Nava è oggi un fantasma. Ha lasciato la casa di Monte Marenzo, un paesino della Bergamasca dove ha vissuto per dieci anni. E' stato cancellato dai registri dell' anagrafe, dall' elenco telefonico, dal ricordo dei suoi familiari. Ha vissuto in un anonimo condominio della periferia romana, si è rifugiato su un' isola del golfo di Napoli e ancora in un paesino dell' Irpinia. E' emigrato in Olanda.
Per sfuggire alla vendetta della mafia, vive ora in un' altro Paese europeo.
Dice: "La mia vita è stata stravolta, sì. Ho 42 anni. Avevo degli amici che mi erano cari come fratelli. Non li vedo più, non ci si telefona nemmeno. Ho una famiglia. Posso vederla soltanto di tanto in tanto. Sempre all' improvviso, sempre in fretta. Ho una compagna e due bambini di nove e quattro anni. Trascorriamo del tempo insieme. Quando è possibile, se le condizioni di sicurezza lo permettono.
Avevo un lavoro. Ero il rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate della ' Dierre' di Villanova d' Asti. Mi hanno licenziato che non era passato neanche un mese dal quel 21 settembre ancora prima di sapere che inferno sarebbe diventata la mia vita. Semplicemnte non volevano guai". La lentezza dello Stato "Avevo una società in nome collettivo in Campania, la ' Delli Cicchi-Nava' . E' stata sciolta due mesi dopo. Ero socio di un' altra società. Anche questa finita. Guadagnavo molto bene. Avevo davanti un futuro senza nubi. Ora vivo di quel che mi passa lo Stato. Non può essere questo il mio futuro. Allo Stato non chiedo nulla, chiedo che non abbandoni la mia famiglia. La mia famiglia, in questa storia, non deve entrarci. Non deve correre nessun pericolo. Mai. Né oggi né domani. Finora non ho nulla da recriminare. Chi mi sta accanto ha fatto il suo dovere. A volte con efficienza, a volte con un' esasperante lentezza burocratica. Io non sono un ' pentito' della mafia o della camorra. A volte ho la sensazione che, per la macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un ' pentito' e un testimone con un' immacolata fedina penale". ( N.d.r.: all'epoca dell'articolo era ancora da venire la Legge 41/2001 che introduce la figura del "testimone di giustizia" nella giurisdizione italiana)
E il futuro? Pietro Ivano Nava tace per un un attimo. Poi, dice: "Io ho perso le piccole cose, gli affetti, le consuetudini, i luoghi cari che fanno, di un uomo, un uomo. Ora voglio essere soltanto dimenticato. Chiedo di poter ricostruire la mia normalità, la mia anonima vita normale lontano da scorte e bunker. E non voglio passare da un tribunale ad un altro per ripetere la stessa dichiarazione già letta, sottoscritta, registrata, filmata. Un cruccio? Sì, non potrò più tornare in Sicilia. Mi piacevano i siciliani. Gente geniale, operosa, allegra, viva. Vivono in un contesto terribile. Hanno solo bisogno di un po' di fiducia...".
giovedì 15 settembre 2016
Don Pino Puglisi: "...E se ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto".
Don Pino Puglisi per i suoi parrocchiani era
"3P" e ai suoi parrocchiani soleva dire: "...E se
ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto".
Le parole
di Gaspare Spatuzza e di Giovanni Drago, mafiosi divenuti
collaboratori di giustizia, basterebbero a spiegare, nella loro rozza
schiettezza, perché don Pino Puglisi è stato ucciso.«Era uno che
non si era incanalato, che faceva di testa sua». «Predicava,
predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada...
Martellava e rompeva le scatole...Un
capomafia non poteva tollerare che un prete si
muovesse per conto suo e doveva dimostrare chi comandava a Brancaccio». Era l'estate del 1993 e l'attacco di cosa nostra allo Stato prende di mira chi, da sacerdote, contendeva la comuinità di Brancaccio al dominio di "cosa nostra" ( avvallata dalla palese assenza delle istituzioni locali) con lo strumento dei valori quali giustizia e dignità, valori richiesti per la sua comunità e praticati quotidianamente da don Puglisi.
Anche per don Puglisi
vale quindi la differenza fondamentale tra Lui ed altri, altri sacerdoti,
altri uomini e donne: lui vedeva ma non taceva! Don Puglisi era differente: "(...) si sapeva che faceva delle messe non proprio a favore della mafia". Fu ucciso dalla mafia la sera del suo compleanno, il 15 settembre 1993: erano passate da poco le otto della sera. A Salvatore Grigoli, il killer che lo aspettava, don Pino sorrise dicendo "Me l' aspettavo".
Vengono invece alla mente i tanti nostri silenzi
di cui quotidianamente ci rendiamo colpevoli nel tempo che viviamo: il silenzio di una intera comunità
-quella di Melito Porto Salvo, in Calabria- dinanzi alla
violenza perpetrata - per tre anni- ai danni di una ragazzina che
aveva solo tredici anni quando fu violentata per la prima volta; il
silenzio dei "buoni" dinanzi al degrado fisico e morale nal
quale sono costretti i migranti in alcune strutture di prima
accoglienza; il silenzio dei cuori, anzi "le risate divertite",
di giovani ragazze dinanzi alla violenza subita da una loro "amica"
nel bagno di una discoteca di Rimini; il silenzio di chi potrebbe denunciare ingiustizia e corruzione..
Lo scorso anno, il quotidiano La
Repubblica, pubblica un articolo di salvo Palazzolo nel quale si dava notizia del ritrovamento di un nastro
registrato nel quale Don Puglisi, mostra la consapevolezza di essere
in grave pericolo: "Il testimone deve rischiare...io sto
rischiando grosso forse, non lo so, però credo
nell'amicizia". Don Puglisi credeva nell'amicizia della sua
comunità. Rimase al suo posto, non andò via da Brancaccio. ( leggi qui l'articolo)
Il sogno di don Puglisi: "Pochi giorni fa,
prima di tornare qui come parroco, io ho sognato il futuro di questo
quartiere ed è stato proprio bello. Bello perché ho sognato un
posto dove erano spariti i furti, era sparita la droga, dove non
c'erano più violenze, prepotenze, dove la gente non aveva paura,
dove non c'era più la fame perché c'era lavoro per tutti, dove
c'erano delle scuole bellissime, dove i bambini giocavano... Io ho
sognato il futuro di questo quartiere ed è stato proprio bello!"
Riproponiamo un estratto dell'articolo La Stampa pubblicato nel
maggio 2014 in occasione della beatificacazione di Don Puglisi.,qui il testo integrale,
Fonte: LA STAMPA
Decine di migliaia a Palermo per don Puglisi proclamato beato.
Il martire della fede don Puglisi è il
patrono della Chiesa anti-mafia. Il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero, «D’ora in poi nessuno potrà più
usurpare il nome di Dio per giustificare la mentalità criminale di
quei clan che per decenni si sono ammantati di falsa e blasfema
religiosità (...) L’autentica fede
in Cristo è incompatibile con qualunque appartenenza ad
organizzazioni che avvelenano la società e la privano del suo
futuro».(...) Benedetto XVI aveva riconosciuto il fatto che
l’esecuzione ordinata dai boss e avvenuta davanti alla parrocchia
di San Gaetano, retta dal sacerdote, nel quartiere Brancaccio, fu
«martirio», commesso «in odio alla fede».
E Papa Francesco, appena lunedì scorso,
durante la visita «ad limina» della Conferenza episcopale siciliana, ha esortato la Chiesa locale a dare contro la mafia, una
testimonianza più chiara e più evangelica. Nei quasi 20 anni
che separano dall’assassinio di padre Pino, «la verità è infine
emersa», ha a suo tempo spiegato il postulatore della causa di
beatificazione, l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, legando la verità
del martirio di Puglisi a «quella giudiziaria, vergata con
inchiostro indelebile dalla Cassazione» secondo cui «l’omicidio
fu deciso dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano per mettere a
tacere un sacerdote scomodo, socialmente impegnato, che col suo
ministero di pastore di anime, di formatore di coscienze cristiane,
soprattutto di quelle dei fanciulli, li ridicolizzava sottraendo loro
manovalanza, prestigio e potere, come del resto sprezzantemente li
rimproverava uno dei capi indiscussi di Cosa Nostra, Leoluca
Bagarella». (...)
La figura di don Puglisi riveste un ruolo di «grande
importanza per la società civile, per la Chiesa universale, in
particolare per la Chiesa palermitana e siciliana e per tutte quelle
che si confrontano sul proprio territorio con le organizzazioni
criminali, perché il suo sacrificio ha svelato il grande inganno
della mafia, sedicente portatrice di religiosità. Il suo esempio è
stato ed è così forte da aver attraversato il tempo: nei 19 anni
trascorsi, Brancaccio, Palermo, la Sicilia, l’Italia, il mondo non
lo hanno dimenticato».
«La mafia è intrinsecamente anticristiana», ha
poi ribadito il prefetto della Congregazione per le cause dei santi,
cardinale Angelo Amato. Quello di don Puglisi, spiega, è stato un
«martirio, perché è stato ucciso in odium fidei». «Ovviamente -
ha sottolineato il cardinale salesiano - qui bisogna chiarire cosa
significa in odium fidei, dal momento che la mafia viene descritta
spesso come una realtà “religiosa”, una realtà i cui membri
sembrano apparentemente molto devoti (... la mafia, più che “religiosa”, è
essenzialmente “idolatrica”». Anche il paganesimo antico,
ricorda Amato, era “religioso”, ma la sua religiosità era
rivolta agli idoli. Nella mafia gli idoli sono il potere, il
denaro e la prevaricazione. È quindi una società che, con un
involucro pseudo religioso, veicola un’etica antievangelica, che va
contro i dieci comandamenti e il Vangelo. La Scrittura dice: non
uccidere, non dire falsa testimonianza. Nella ideologia mafiosa,
invece, si fa esattamente l’opposto. Gesù ha detto di perdonare ai
nemici e qui troviamo il contrario: la vendetta. Per la Chiesa
Cattolica, dunque, «la mafia è intrinsecamente anticristiana». Per
di più, l’odio verso don Puglisi era determinato
«semplicemente dal fatto che si trattava di un sacerdote che educava
i giovani alla vita buona del Vangelo». Dunque «sottraeva le nuove
generazioni alla nefasta influenza della malavita». (...)
Morì per strada, ha sottolineato don
Luigi Ciotti, fondatore di Libera, «dove viveva, dove incontrava i
`piccoli´, gli adulti, gli anziani, quanti avevano bisogno di aiuto
e quanti, con la propria condotta, si rendevano responsabili di
illegalità, soprusi e violenze. Probabilmente per questo lo hanno
ucciso: perché un modo così radicale di abitare la strada e di
esercitare il ministero del parroco è scomodo. Lo hanno ucciso
nell’illusione di spegnere una presenza fatta di ascolto, di
denuncia, di condivisione». Per don Ciotti, il sacerdote palermitano
«ha incarnato pienamente la povertà, la fatica, la libertà e la
gioia del vivere, come preti, in parrocchia». Con la sua
testimonianza, dunque, don Pino «ci sprona a sostenere quanti vivono
questa stessa realtà con impegno e silenzio».
Don Puglisi, “figura bellissima”, è stato
ucciso “in odium fidei”, per odio della fede da parte di chi lo
ha assassinato, ottolinea il cardinale Angelo Bagnasco, presidente
della Cei: ”E’ stato ucciso in quanto sacerdote che faceva il suo
dovere, specialmente sul piano educativo delle giovani generazioni. E
dunque è un martire».
Fonte: LA STAMPA
Decine di migliaia a Palermo per don Puglisi proclamato beato.
E Papa Francesco, appena lunedì scorso, durante la visita «ad limina» della Conferenza episcopale siciliana, ha esortato la Chiesa locale a dare contro la mafia, una testimonianza più chiara e più evangelica. Nei quasi 20 anni che separano dall’assassinio di padre Pino, «la verità è infine emersa», ha a suo tempo spiegato il postulatore della causa di beatificazione, l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, legando la verità del martirio di Puglisi a «quella giudiziaria, vergata con inchiostro indelebile dalla Cassazione» secondo cui «l’omicidio fu deciso dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano per mettere a tacere un sacerdote scomodo, socialmente impegnato, che col suo ministero di pastore di anime, di formatore di coscienze cristiane, soprattutto di quelle dei fanciulli, li ridicolizzava sottraendo loro manovalanza, prestigio e potere, come del resto sprezzantemente li rimproverava uno dei capi indiscussi di Cosa Nostra, Leoluca Bagarella». (...)
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martedì 13 settembre 2016
Ma abbiamo idea di quanto continuano a guadagnarci sui migranti? Sette giorni in un inferno ce lo farebbero sapere!
Ecco cosa accade in un ghetto di Stato: "(...) il Cara di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, il Centro d’accoglienza per richiedenti asilo, il terzo per dimensioni in Italia. Ce ne sono molti altri di stanzoni ricoperti di corpi. I ragazzi africani vengono sfruttati anche quando dormono. Per trattarli così, il consorzio “Sisifo” della Lega delle cooperative rosse, e la sua consorziata bianca “Senis Hospes”, amministrata da manager cresciuti sotto l’ombrello di Comunione e liberazione, incassano dal governo una fortuna: ventidue euro al giorno a persona, quattordicimila euro ogni ventiquattro ore, oltre quindici milioni d’appalto in tre anni".
Lo denuncia di Fabrizio Gatti, giornalista de L'Espresso,nell'articolo "Sette giorni all'inferno: diario di un
finto rifugiato nel ghetto di Stato"
Ci è voluta Mafia
Capitale, l'inchiesta che ha portato alla luce gli intrecci criminali
che a Roma e dintorni si erano stabiliti fra “pezzi” del mondo
della politica amministrativa, della cooperazione sociale e la
malavita organizzata, per svelare uno dei tasselli che spiegano, a
cosa sono servite in Italia ( e a cosa servono ancora oggi) le
cosiddette “emergenze”. In Italia, lo ripetiamo ancora una volta,
la regola “numero uno” è quella che recita: le emergenze si
gestiscono non si risolvono! E dalla gestione delle emergenze
derivano arricchimenti illeciti, immorali, dei soliti noti la cui
schiera si è oramai allargata a dismisura.
In una delle
intercettazioni scaturite dall'inchiesta Mafia Capitale, Salvatore
Buzzi, numero uno della cooperativa “29 giugno” e braccio
operativo dell’organizzazione gestore di una rete di
cooperative che spaziano dalla raccolta dei rifiuti, alla
manutenzione del verde pubblico, fino all’accoglienza di profughi e
rifugiati. , mentre parla al telefono telefono con Pierina
Chiaravalle, gli rivolge la frase rivelatrice: “Tu c’hai
idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende
meno”. ( leggi qui l'articolo de Il Fatto Quotidiano)
Ma chi sono coloro che ci
guadagnano sugli immigrati? La filiera è lunga, etereogenea, tanto
che molti di noi preferiscono fingere di non conoscerne “le
stazioni” di quel calvario laico e umanissimo a cui sono sottoposti
molti di coloro che sfuggono a miseria e morte certa. E' una filiera
che parte dalle figure più laide, i trafficanti di morte, gli
scafististi che portano i migranti anche sulle nostre coste, e
finisce ripulita e quasi rirriconoscibile, rivestita com'è dalle
vesti della legalità in luoghi che a volta assumono dimensioni
tragiche tali da minare e mettere in dubbio , a chi abbia la forza di
accostasri a quei luoghi, la stessa considerazione del fondamento
morale di questo paese e dei suoi rappresentanti istituzionali.
La denuncia di Fabrizio
Gatti, giornalista de L'Espresso, è netta: un luogo istituzionale,
uno dei C.a.r.a. ( acronimo che sta per "Centro di accoglienza per richiedenti asilo"...è da notare l'uso perverso delle parole!) presenti
sul territorio italiano è in realtà un “lager”, gestito da
compiacenti cooperative rosse e bianche (quando si tratta di denaro le ideologie si superano d'un fiato!) che lucrano su
qugli esseri umani ( per ognuno dei quali ricevono € 22,00 al
giorno) permettendo che criminali e organizzazioni malavitose
arrivino addirittura a sfruttare quelle donne e quegli uomini costringendoli alla prostituzione oppure obbligandoli a diventare manodopera
schiavizzata nella mani di “caporali”, usata in tante delle aziende agricole locali.
E noi? Ai “buoni” (
ovviamente è così che ci pensiamo!) basterà sapere che continua
“la gestione dell'emergenza” o sapremo, vorremo?, chiedere giustizia e
dignità per coloro che sono fra i più deboli?
Fonte : L'Espresso
"Sette giorni all'inferno: diario di un finto rifugiato nel ghetto di Stato
gli spazi esterni del C.A.R.A. di Foggia |
"La
quinta notte apro la porta sull’inferno. Dal buio dello stanzone
esce un alito di aria intensa e arroventata che impasta la gola. Si
accende un lumino e rischiara una distesa di decine di persone,
ammassate come stracci su tranci di gommapiuma. Niente lenzuola, a
volte solo un asciugamano fradicio di sudore sotto le coperte di
lana. Nemmeno un armadietto hanno messo a disposizione: ciabatte e
scarpe sono sparse sul pavimento, i vestiti di ricambio dentro
sacchetti di carta. Rischio di calpestare una serpentina
incandescente, collegata alla presa elettrica da due fili volanti.
Qualcuno sta preparando la colazione per poi andare a lavorare nei
campi. Cucinano per terra. Se scoppia un incendio, è una strage...". Continua a leggre qui l'articolo-denuncia di Fabrizio Gatti
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