giovedì 9 maggio 2024

Aldo Moro e Peppino Impastato uccisi nella stessa "notte buia dello stato italiano"

Una data lega l'assassinio di due uomini: Aldo Moro e Peppino Impastato: il primo ucciso per mano delle Brigate Rosse, il secondo ucciso da Cosa Nostra. 

Aldo Moro e Peppino Impastato uccisi nella stessa "notte buia dello stato italiano", alle prime ore del 9 maggio 1978.

E da tempo ripetiamo che In Italia la ragnatela del potere lega vicende  e trame di cui ancora oggi non siamo stati capaci di definire pienamente i contorni: morti innocenti, delitti oscuri, perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. Delitti e stragi commessi pensando che, in Italia, potesse servire spargere sangue innocente: per seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee e valori, per impedire o indirizzare cambiamenti. 
Oggi il "potere" ha imparato ad usare metodi differenti, più adatti al momento storico che viviamo, tanto che quotidianamente scopriamo che mafie e "pensiero mafioso", corruzione e mala-politica, sono fattori potenti e presenti come non mai, tanto da essere diventati "il cancro" che mina presente e futuro di questo Paese. 
Facciamo nostre le parole di Alessia Candido: "Peppino Impastato era un rivoluzionario, un militante, un comunista senza "se, ma, forse". Uno che aveva capito che combattere le mafie significa combattere il sistema economico, politico e di potere di cui sono architrave. Significa lottare contro le speculazioni edilizie, gli ostinati latifondi, contro le mega-opere inutili che a forza di varianti diventano sempiterni bancomat (...)"



"La mafia è una montagna di merda"
Non siamo in grado di parlare della figura di Aldo Moro e ce ne scusiamo. Quale potesse essere il contributo che come uomo, prima ancora che come statista, avrebbe potuto lasciare all'Italia, lo mostra la sua ultima lettera indirizzata alla moglie Noretta:
«Mia dolcissima Noretta, credo di essere giunto all’estremo delle mie possibilità e di essere sul punto di chiudere questa mia esperienza umana. Ho tentato di tutto.
Credo di tornare a voi in un’altra forma. Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo.
A Te devo dire grazie, infinite grazie, per tutto l’amore che mi hai dato.
Ricordati che sei stata la cosa più importante della mia vita.
Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. 
A ciascuno la mia immensa tenerezza che passa per le tue mani.
Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile.
Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo.
Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».

Qualcosa vorremmo dire invece di Peppino Impastato ."La mafia è una montagna di merda!" Sarebbe necessario trovare ancora oggi il coraggio di gridarlo a certe "facce", a chi si è abituato a quelle facce e al puzzo della "montagna di merda", al puzzo del compromesso morale, della convenienza , ai tanti misteri che soffocano la Giustizia di questo paese, misteri custoditi dal sigillo del Potere.
O ci basterà la vuota retorica della commemorazione, del ricordo? Ce la faremo bastare, quella retorica vuota, per giustificare la "legalità sostenibileche abbiamo costruita a nostra misura affinchè non ci faccia troppo male e non ci costringa troppo? Oppure cominceremo davvero a "fare memoria", ad avere il coraggio e la coerenza necessarie affinché le cose accadute non abbiano più a ripetersi, affinché si metta in atto l'insegnamento di coloro che, come in un triste rosario, continuiamo a snocciolarne nomi, date di nascita e di morte prematura?
Che non siano state morti inutili.

Due testimoniane a memoria di Peppino Impastato

Salvo Vitale, amico fraterno di Peppino Impastato (fonte Antimafiaduemila)"(...)sembra ieri. Che cosa rende Peppino sempre attuale e degno di interesse? Indubbiamente la sua giovane età: è morto a 30 anni e quindi non ha avuto il tempo di invecchiare o di lasciare invecchiare le sue idee e tutto ciò in cui credeva. Altro elemento che lo rende vivo e presente è la radicalità delle sue scelte, il rifiuto del compromesso, la scelta senza discussioni delle proprie idee come base per costruire una società nuova e quindi la contestazione delle strutture autoritarie della società borghese, dalla chiesa, alla famiglia, alla scuola, alle istituzioni in genere. E poi la sua attualità è nella scelta degli strumenti di comunicazione, ultimo dei quali la Radio. Peppino progettava un’informazione veramente libera, non soggetta a censure, formativa e informativa dove la notizia era la narrazione del vissuto che ci circonda, dei drammi quotidiani dell’esistenza e non le vicende dei personaggi importanti, l’ufficialità dell’avvenimento, l’informazione istituzionalizzata. Peppino era un giornalista purosangue, anche se non ha mai avuto il tesserino, anzi gli è stato dato ad honorem nel 1996, così come, sempre, nello stesso anno, la laurea. In questo contesto assume particolare importanza la satira e il dileggio di atteggiamenti, di idee, di manovre, di speculazioni, che “le persone che contano” ritengono intoccabili e sacrosante e di cui giornalmente si nutrono. In prima fila, tra queste persone, mafiosi e politici, ma anche preti, medici, avvocati, affaristi, in pratica quella che una volta si definiva “classe dominante”.
Una delle canzoni da lui preferite era “Vecchia piccola borghesia”, di Claudio Lolli, “Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia, non so dirti se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia”. Dall’altro lato della barricata c’erano le persone più deboli e indifese, i lavoratori, gli edili, i contadini di Punta Raisi, gli stagionali di Città del mare, i disoccupati, i pescatori di Terrasini, coloro a cui Peppino aveva dedicato la vita e per i quali sognava di costruire una società diversa, dove tutti fossero uguali e senza privilegi. 
E’ chiaro che una persona del genere che voleva cambiare il contesto sociale in cui era nato e che tutti invece accettavano, non poteva che essere considerata scomoda e, alla fine, la sua morte ha rappresentato una sorta di liberazione. Ma naturalmente resta il fascino delle sue idee, ed è per questo che ogni anno ci si ricorda del suo barbaro omicidio, del tentativo di depistaggio che voleva farlo passare per un attentato terroristico, dell’impegno della famiglia e dei compagni per ottenere giustizia e verità e della lunga strada durata 22 anni, prima di riuscirci. 
Nel vuoto culturale che ci circonda Peppino è sempre un punto di riferimento".

Alessia Candito, giornalista de La Repubblica: "Peppino Impastato era un rivoluzionario, un militante, un comunista senza "se, ma, forse". Uno che aveva capito che combattere le mafie significa combattere il sistema economico, politico e di potere di cui sono architrave. Significa lottare contro le speculazioni edilizie, gli ostinati latifondi, contro le mega-opere inutili che a forza di varianti diventano sempiterni bancomat come la terza pista dell’aeroporto di Cinisi, contro gli impasti massonico-mafiosi che permettono il perpetuarsi del sistema. Peppino era uno che aveva capito che la lotta alla mafia è lotta per i diritti di tutti contro i privilegi di pochi, per questo organizzava le lotte dei manovali contro i caporali, quelle dei braccianti e dei coloni contro il barone e padrone di turno.
Oggi i latifondi ci sono ancora, l'A3 è diventata A2 ma continua a far mangiare i clan, si torna a parlare di ponte sullo Stretto e Peppino Impastato è diventato "quello di Radio Aut".
La memoria o è vera, reale e completa o rimane esercizio buono per comodissime passerelle. "Cuntra mafia e putiri, c'è sulu rivoluzioni"

mercoledì 1 maggio 2024

Primo Maggio: Festa del Lavoro - Primo maggio 1947: Strage di Portella delle Ginestre.

Primo Maggio: Festa del Lavoro,  Primo maggio 1947: Strage di Portella delle Ginestre. 

Un filo rosso-sangue fa sì che in Italia ancora oggi sia forte il "ricatto del lavoro", tanto che c'è davvero poco da festeggiare e ancora tanto per cui dover lottare: per coloro che hanno perso il lavoro; per coloro che un lavoro non l'hanno mai avuto; per coloro che lavorano senza diritti; per coloro che sul lavoro perdono la vita. 


la stele che ricorda la strage di Portella delle Ginestre avvenuta il 1 maggio 1947
 


Il presidente Mattarella: "Mille morti sul lavoro in un anno rappresentano una tragedia inimmaginabile. Ciascuna di esse è inaccettabile.E' ben noto che il lavoro è una delle leve più importanti di progresso, di coesione sociale. Per le famiglie italiane ha c ostituito il vettore principale del miglioramento sociale nei decenni trascorsi". 

Nei primi quattro mesi del 2024 sono stati già più di 350 le vittime del Lavoro in Italia: uno scandalo che non provoca indignazione



La Strage di Portella della Ginestra, Primo maggio 1947, viene considerata la prima "strage di stato", l'inizio di quella che negli anni successivi verrà detta "strategia della tensione": spargere sangue innocente per impedire che le cose cambino, oppure per indirizzare il cambiamento nella direzione voluta da un potere oscuro e "mafioso". La connivenza, la complicità, fra mala-politica e mafie è poi un corollario drammatico, scandaloso, inequivocabile, provato. 
Scandaloso è vedere come alcuni comportamenti del "potere" sembrano ricalcare i principi del potere mafioso: così come i capi-mafia siciliani distribuivano  le terre ai contadini (non per merito bensì per "appartenenza,fedeltà o contiguità", per ricatto!) così il "potere" concede spesso il Lavoro: incarichi, nomine, accreditamenti, distribuiti secondo "familismi amorali" oppure a  premiare "indicibili meriti".  
Da principio fondamentale di una nazione, il Lavoro è diventato merce di scambio, regalia per compensare e premiare amici e servi del potere, costruendo nel contempo regole-norme a privilegiare i cosiddetti "poteri-forti": elemento chiave che ha reso possibile da un lato l'incremento delle diseguaglianze e dall'altro l'accumulazione di ricchezza nelle mani di "soliti noti": uno scambio che fortifica  "il ricatto del Lavoro".
Anche contro questo, contro il ricatto del lavoro, manifestavano i contadini di quel 1° maggio del 1947 a Portella della Ginestra.


Le parole di Serafino Pettasopravvissuto alla strage dei contadini di Portella della Ginestra, che fece 12 morti e 27 feriti.

«Ci eravamo dati appuntamento per festeggiare il Primo maggio ma anche l’avanzata della sinistra all’ultima tornata elettorale e per manifestare contro il latifondismo. Non era neanche arrivato l’oratore quando sentimmo degli spari. Avevo 16 anni, pensavo che fossero i petardi della festa, ma alla seconda raffica ho capito. Ho cominciato a cercare mio padre, non l’ho trovato. Quello che ho visto sono i corpi distesi per terra. I primi due erano di donne: la prima morta, sua figlia incinta ferita. Questa scena ce l’ho ancora oggi negli occhi, non la posso dimenticare». A sparare fu la banda di Salvatore Giuliano, «i mandanti non si conoscono ancora ma ad armare la sua mano furono la mafia, i politici e i grandi feudatari», spiega. «Volevano farci abbassare la testa perché lottavamo contro un sistema in cui poche persone possedevano migliaia di ettari di terra e vi facevano pascolare le pecore, mentre i contadini facevano la fame. Un mese dopo successe però una cosa importante: «Tornammo qua a commemorare i morti senza paura, “Non ci fermerete”, gridavamo tutti e non ci hanno fermati. Abbiamo cominciato la lotta per la riforma agraria e nel ‘52 abbiamo ottenuto 150 assegnatari di piccoli lotti. Ma neanche loro si sono fermati, e a giugno bruciarono sedi di Cgil e partito comunista, poi nel mirino finirono anche i sindacalisti».