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venerdì 9 maggio 2025

Aldo Moro e Peppino Impastato uccisi nella stessa "notte buia dello stato italiano"

Una data lega l'assassinio di due uomini: Aldo Moro e Peppino Impastato: il primo ucciso per mano delle Brigate Rosse, il secondo ucciso da Cosa Nostra. 

Aldo Moro e Peppino Impastato uccisi nella stessa "notte buia dello stato italiano", alle prime ore del 9 maggio 1978.

Da tempo ripetiamo che In Italia la ragnatela del potere lega vicende  e trame di cui ancora oggi non siamo stati capaci di definire pienamente i contorni: morti innocenti, delitti oscuri, perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. Delitti e stragi commessi pensando che, in Italia, potesse servire spargere sangue innocente: per seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee e valori, per impedire o indirizzare cambiamenti. 
Oggi il "potere" ha imparato ad usare metodi differenti, più adatti al momento storico che viviamo, tanto che quotidianamente scopriamo che mafie e "pensiero mafioso", corruzione e mala-politica, sono fattori potenti e presenti come non mai, tanto da essere diventati "il cancro" che mina presente e futuro di questo Paese. 
Facciamo nostre le parole di Alessia Candido: "Peppino Impastato era un rivoluzionario, un militante, un comunista senza "se, ma, forse". Uno che aveva capito che combattere le mafie significa combattere il sistema economico, politico e di potere di cui sono architrave. Significa lottare contro le speculazioni edilizie, gli ostinati latifondi, contro le mega-opere inutili che a forza di varianti diventano sempiterni bancomat (...)".

Ancora più grave la situazione denunciata da Attilio Bolzoni nel suo ultimo libro "IMMORTALI":  in Italia c’è sempre più mafia e ci sono sempre meno mafiosi. Non si spara più e ci dicono che lo Stato ha vinto. Catturati uno dopo l’altro i boss più importanti, sono rimasti liberi, spesso incensurati, coloro i quali li hanno sempre appoggiati dall’esterno: imprenditori, commercialisti, avvocati, notai, amministratori locali e alti burocrati, broker, negoziatori, esperti del lavaggio del denaro o di architetture finanziarie per nasconderlo. Insomma, la borghesia mafiosa. Ogni epoca ha la sua mafia e anche quella in cui viviamo ne ha una: è «la mafia degli incensurati». Attilio Bolzoni denuncia un’Italia che, ancora una volta, ha perso la memoria, con la giustizia e l’antimafia che sembrano tornate ai tempi prima del Maxiprocesso e di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino
La mafia si è ripresa il potere (economico) ed è necessario un nuovo racconto per smascherarla.


Aldo Moro"
Non siamo in grado di parlare della figura di Aldo Moro e ce ne scusiamo. Quale potesse essere il contributo che come uomo, prima ancora che come statista, avrebbe potuto lasciare all'Italia, lo mostra la sua ultima lettera indirizzata alla moglie Noretta:
«Mia dolcissima Noretta, credo di essere giunto all’estremo delle mie possibilità e di essere sul punto di chiudere questa mia esperienza umana. Ho tentato di tutto.
Credo di tornare a voi in un’altra forma. Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo.
A Te devo dire grazie, infinite grazie, per tutto l’amore che mi hai dato.
Ricordati che sei stata la cosa più importante della mia vita.
Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. 
A ciascuno la mia immensa tenerezza che passa per le tue mani.
Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile.
Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo.
Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».

Peppino Impastato: "La mafia è una montagna di merda"
Qualcosa vorremmo dire invece di Peppino Impastato ."La mafia è una montagna di merda!" Sarebbe necessario trovare ancora oggi il coraggio di gridarlo a certe "facce", a chi si è abituato a quelle facce e al puzzo della "montagna di merda", al puzzo del compromesso morale, della convenienza , ai tanti misteri che soffocano la Giustizia di questo paese, misteri custoditi dal sigillo del Potere.
O ci basterà la vuota retorica della commemorazione, del ricordo? Ce la faremo bastare, quella retorica vuota, per giustificare la "legalità sostenibileche abbiamo costruita a nostra misura affinché non ci faccia troppo male e non ci costringa troppo? Oppure cominceremo davvero a "fare memoria", ad avere il coraggio e la coerenza necessarie affinché le cose accadute non abbiano più a ripetersi, affinché si metta in atto l'insegnamento di coloro che, come in un triste rosario, continuiamo a snocciolarne nomi, date di nascita e di morte prematura?
Che non siano state morti inutili.

Due testimoniane a memoria di Peppino Impastato

Salvo Vitale, amico fraterno di Peppino Impastato (fonte Antimafiaduemila)"(...)sembra ieri. Che cosa rende Peppino sempre attuale e degno di interesse? Indubbiamente la sua giovane età: è morto a 30 anni e quindi non ha avuto il tempo di invecchiare o di lasciare invecchiare le sue idee e tutto ciò in cui credeva. Altro elemento che lo rende vivo e presente è la radicalità delle sue scelte, il rifiuto del compromesso, la scelta senza discussioni delle proprie idee come base per costruire una società nuova e quindi la contestazione delle strutture autoritarie della società borghese, dalla chiesa, alla famiglia, alla scuola, alle istituzioni in genere. E poi la sua attualità è nella scelta degli strumenti di comunicazione, ultimo dei quali la Radio. Peppino progettava un’informazione veramente libera, non soggetta a censure, formativa e informativa dove la notizia era la narrazione del vissuto che ci circonda, dei drammi quotidiani dell’esistenza e non le vicende dei personaggi importanti, l’ufficialità dell’avvenimento, l’informazione istituzionalizzata. Peppino era un giornalista purosangue, anche se non ha mai avuto il tesserino, anzi gli è stato dato ad honorem nel 1996, così come, sempre, nello stesso anno, la laurea. In questo contesto assume particolare importanza la satira e il dileggio di atteggiamenti, di idee, di manovre, di speculazioni, che “le persone che contano” ritengono intoccabili e sacrosante e di cui giornalmente si nutrono. In prima fila, tra queste persone, mafiosi e politici, ma anche preti, medici, avvocati, affaristi, in pratica quella che una volta si definiva “classe dominante”.
Una delle canzoni da lui preferite era “Vecchia piccola borghesia”, di Claudio Lolli, “Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia, non so dirti se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia”. Dall’altro lato della barricata c’erano le persone più deboli e indifese, i lavoratori, gli edili, i contadini di Punta Raisi, gli stagionali di Città del mare, i disoccupati, i pescatori di Terrasini, coloro a cui Peppino aveva dedicato la vita e per i quali sognava di costruire una società diversa, dove tutti fossero uguali e senza privilegi. 
E’ chiaro che una persona del genere che voleva cambiare il contesto sociale in cui era nato e che tutti invece accettavano, non poteva che essere considerata scomoda e, alla fine, la sua morte ha rappresentato una sorta di liberazione. Ma naturalmente resta il fascino delle sue idee, ed è per questo che ogni anno ci si ricorda del suo barbaro omicidio, del tentativo di depistaggio che voleva farlo passare per un attentato terroristico, dell’impegno della famiglia e dei compagni per ottenere giustizia e verità e della lunga strada durata 22 anni, prima di riuscirci. 
Nel vuoto culturale che ci circonda Peppino è sempre un punto di riferimento".

Alessia Candito, giornalista de La Repubblica: "Peppino Impastato era un rivoluzionario, un militante, un comunista senza "se, ma, forse". Uno che aveva capito che combattere le mafie significa combattere il sistema economico, politico e di potere di cui sono architrave. Significa lottare contro le speculazioni edilizie, gli ostinati latifondi, contro le mega-opere inutili che a forza di varianti diventano sempiterni bancomat come la terza pista dell’aeroporto di Cinisi, contro gli impasti massonico-mafiosi che permettono il perpetuarsi del sistema. Peppino era uno che aveva capito che la lotta alla mafia è lotta per i diritti di tutti contro i privilegi di pochi, per questo organizzava le lotte dei manovali contro i caporali, quelle dei braccianti e dei coloni contro il barone e padrone di turno.
Oggi i latifondi ci sono ancora, l'A3 è diventata A2 ma continua a far mangiare i clan, si torna a parlare di ponte sullo Stretto e Peppino Impastato è diventato "quello di Radio Aut".
La memoria o è vera, reale e completa o rimane esercizio buono per comodissime passerelle. "Cuntra mafia e putiri, c'è sulu rivoluzioni"


giovedì 9 maggio 2024

Aldo Moro e Peppino Impastato uccisi nella stessa "notte buia dello stato italiano"

Una data lega l'assassinio di due uomini: Aldo Moro e Peppino Impastato: il primo ucciso per mano delle Brigate Rosse, il secondo ucciso da Cosa Nostra. 

Aldo Moro e Peppino Impastato uccisi nella stessa "notte buia dello stato italiano", alle prime ore del 9 maggio 1978.

E da tempo ripetiamo che In Italia la ragnatela del potere lega vicende  e trame di cui ancora oggi non siamo stati capaci di definire pienamente i contorni: morti innocenti, delitti oscuri, perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. Delitti e stragi commessi pensando che, in Italia, potesse servire spargere sangue innocente: per seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee e valori, per impedire o indirizzare cambiamenti. 
Oggi il "potere" ha imparato ad usare metodi differenti, più adatti al momento storico che viviamo, tanto che quotidianamente scopriamo che mafie e "pensiero mafioso", corruzione e mala-politica, sono fattori potenti e presenti come non mai, tanto da essere diventati "il cancro" che mina presente e futuro di questo Paese. 
Facciamo nostre le parole di Alessia Candido: "Peppino Impastato era un rivoluzionario, un militante, un comunista senza "se, ma, forse". Uno che aveva capito che combattere le mafie significa combattere il sistema economico, politico e di potere di cui sono architrave. Significa lottare contro le speculazioni edilizie, gli ostinati latifondi, contro le mega-opere inutili che a forza di varianti diventano sempiterni bancomat (...)"



"La mafia è una montagna di merda"
Non siamo in grado di parlare della figura di Aldo Moro e ce ne scusiamo. Quale potesse essere il contributo che come uomo, prima ancora che come statista, avrebbe potuto lasciare all'Italia, lo mostra la sua ultima lettera indirizzata alla moglie Noretta:
«Mia dolcissima Noretta, credo di essere giunto all’estremo delle mie possibilità e di essere sul punto di chiudere questa mia esperienza umana. Ho tentato di tutto.
Credo di tornare a voi in un’altra forma. Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo.
A Te devo dire grazie, infinite grazie, per tutto l’amore che mi hai dato.
Ricordati che sei stata la cosa più importante della mia vita.
Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. 
A ciascuno la mia immensa tenerezza che passa per le tue mani.
Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile.
Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo.
Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».

Qualcosa vorremmo dire invece di Peppino Impastato ."La mafia è una montagna di merda!" Sarebbe necessario trovare ancora oggi il coraggio di gridarlo a certe "facce", a chi si è abituato a quelle facce e al puzzo della "montagna di merda", al puzzo del compromesso morale, della convenienza , ai tanti misteri che soffocano la Giustizia di questo paese, misteri custoditi dal sigillo del Potere.
O ci basterà la vuota retorica della commemorazione, del ricordo? Ce la faremo bastare, quella retorica vuota, per giustificare la "legalità sostenibileche abbiamo costruita a nostra misura affinchè non ci faccia troppo male e non ci costringa troppo? Oppure cominceremo davvero a "fare memoria", ad avere il coraggio e la coerenza necessarie affinché le cose accadute non abbiano più a ripetersi, affinché si metta in atto l'insegnamento di coloro che, come in un triste rosario, continuiamo a snocciolarne nomi, date di nascita e di morte prematura?
Che non siano state morti inutili.

Due testimoniane a memoria di Peppino Impastato

Salvo Vitale, amico fraterno di Peppino Impastato (fonte Antimafiaduemila)"(...)sembra ieri. Che cosa rende Peppino sempre attuale e degno di interesse? Indubbiamente la sua giovane età: è morto a 30 anni e quindi non ha avuto il tempo di invecchiare o di lasciare invecchiare le sue idee e tutto ciò in cui credeva. Altro elemento che lo rende vivo e presente è la radicalità delle sue scelte, il rifiuto del compromesso, la scelta senza discussioni delle proprie idee come base per costruire una società nuova e quindi la contestazione delle strutture autoritarie della società borghese, dalla chiesa, alla famiglia, alla scuola, alle istituzioni in genere. E poi la sua attualità è nella scelta degli strumenti di comunicazione, ultimo dei quali la Radio. Peppino progettava un’informazione veramente libera, non soggetta a censure, formativa e informativa dove la notizia era la narrazione del vissuto che ci circonda, dei drammi quotidiani dell’esistenza e non le vicende dei personaggi importanti, l’ufficialità dell’avvenimento, l’informazione istituzionalizzata. Peppino era un giornalista purosangue, anche se non ha mai avuto il tesserino, anzi gli è stato dato ad honorem nel 1996, così come, sempre, nello stesso anno, la laurea. In questo contesto assume particolare importanza la satira e il dileggio di atteggiamenti, di idee, di manovre, di speculazioni, che “le persone che contano” ritengono intoccabili e sacrosante e di cui giornalmente si nutrono. In prima fila, tra queste persone, mafiosi e politici, ma anche preti, medici, avvocati, affaristi, in pratica quella che una volta si definiva “classe dominante”.
Una delle canzoni da lui preferite era “Vecchia piccola borghesia”, di Claudio Lolli, “Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia, non so dirti se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia”. Dall’altro lato della barricata c’erano le persone più deboli e indifese, i lavoratori, gli edili, i contadini di Punta Raisi, gli stagionali di Città del mare, i disoccupati, i pescatori di Terrasini, coloro a cui Peppino aveva dedicato la vita e per i quali sognava di costruire una società diversa, dove tutti fossero uguali e senza privilegi. 
E’ chiaro che una persona del genere che voleva cambiare il contesto sociale in cui era nato e che tutti invece accettavano, non poteva che essere considerata scomoda e, alla fine, la sua morte ha rappresentato una sorta di liberazione. Ma naturalmente resta il fascino delle sue idee, ed è per questo che ogni anno ci si ricorda del suo barbaro omicidio, del tentativo di depistaggio che voleva farlo passare per un attentato terroristico, dell’impegno della famiglia e dei compagni per ottenere giustizia e verità e della lunga strada durata 22 anni, prima di riuscirci. 
Nel vuoto culturale che ci circonda Peppino è sempre un punto di riferimento".

Alessia Candito, giornalista de La Repubblica: "Peppino Impastato era un rivoluzionario, un militante, un comunista senza "se, ma, forse". Uno che aveva capito che combattere le mafie significa combattere il sistema economico, politico e di potere di cui sono architrave. Significa lottare contro le speculazioni edilizie, gli ostinati latifondi, contro le mega-opere inutili che a forza di varianti diventano sempiterni bancomat come la terza pista dell’aeroporto di Cinisi, contro gli impasti massonico-mafiosi che permettono il perpetuarsi del sistema. Peppino era uno che aveva capito che la lotta alla mafia è lotta per i diritti di tutti contro i privilegi di pochi, per questo organizzava le lotte dei manovali contro i caporali, quelle dei braccianti e dei coloni contro il barone e padrone di turno.
Oggi i latifondi ci sono ancora, l'A3 è diventata A2 ma continua a far mangiare i clan, si torna a parlare di ponte sullo Stretto e Peppino Impastato è diventato "quello di Radio Aut".
La memoria o è vera, reale e completa o rimane esercizio buono per comodissime passerelle. "Cuntra mafia e putiri, c'è sulu rivoluzioni"

domenica 2 aprile 2023

ULTIMA CHIAMATA PER SALVARE IL TURK

Come gruppo "Associazione Rita Atria Pinerolo" continuiamo ad occuparci di gestione del territorio poiché, a nostro parere, questo può rappresentare un indicatore utile ad individuare gli scopi, gli indirizzi,  il “progetto generale” che guida e determina il carattere di una amministrazione locale e, di conseguenza, quello della sua comunità. Non solo: avere cura e amore per i territori è un primo fondamentale strumento per opporsi a "mafie e pensiero mafioso". 

Cosicché, a pochi giorni dalla celebrazione della "Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie", anche a Pinerolo bisognerebbe ricordare "la lezione" attribuita a  Peppino Impastato a coloro che, con rozzezza culturale che si vorrebbe superata e cancellata, vogliono distruggere quanto resta della bellezza della città: «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un'arma contro la rassegnazione, la paura e l'omertà. All'esistenza di orrendi palazzi sorti all'improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. E per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l'abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».

Ringraziamo  pertanto Patrizio  Righero, direttore di Vita Diocesana, per aver voluto dare voce a Marco Calliero, autorevole esponente della cultura pinerolese, "una voce" ancora una volte levatasi a difesa di quel che resta della memoria storica-architettonica-urbanistica della città di Pinerolo,  dell'ex-merlettificio TURK. Nell'intervista "Ultima chiamata per il Turk", Marco Calliero ribadisce ancora una volta "di cosa stiamo parlando" quando si parla dell'ex merlettificio Turk:  "(...) un importante esempio di archeologia industriale e una testimonianza dell’antico legame tra la città di Pinerolo e l’industria tessile. L’intero stabilimento è meritevole di essere salvato, e non solo una sua parte,  rivestendo quell’interesse particolarmente importante, così come previsto dalla normativa vigente in materia di tutela storico/architettonica.".

Marco Calliero “(…) Non si può più tollerare l'arroganza di coloro che, giustificandosi con la necessità di applicare una normativa, oppure di rispettare bilanci economici, oppure ancora sventolando false urgenze igieniche, hanno deciso e decidono che un luogo giunto a noi dopo secoli non valga più nulla. Questo è un autentico crimine legalizzato ai danni dell'identità del territorio, poiché l'identità è la più preziosa delle eredità tramandate da chi ci ha preceduto(…)”.

Ultima chiamata per salvare il TURK

riportiamo il testo de "Ultima chiamata per salvare il TURK"

Le condizioni dello stabilimento Türck di Pinerolo, nella sua parte visibile, sono sotto gli occhi di tutti. Il suo destino ora sembra segnato. Ma in molti non si rassegnano a perdere per sempre questo edificio, simbolo della storia industriale della città. Tra loro Marco Calliero, autore del libro “Ruote sull’acqua. Storia e localizzazione dei siti industriali lungo il Rio Moirano a Pinerolo” e collaboratore dell’Archivio Diocesano.

Partiamo dall’inizio. Che cosa intendiamo quando parliamo dell’area Türck? Qual è la sua storia?

Il paratore di panni comunale, poi ribattezzato Follone, infine evoluto in merlettificio (noto col nome degli ultimi proprietari, i Türck), per secoli è stato l’ammiraglia della batteria di officine industriali poste lungo il rio Moirano. L’archivio storico del Comune conserva numerosi documenti che ne descrivono lo sviluppo architettonico e tecnologico, le dinamiche imprenditoriali e la produzione. Nacque nel Medioevo, per iniziativa del Comune, nel contesto dell’arte della lana. I pinerolesi andavano fieri di questo edificio, tanto da coinvolgere a inizio Settecento il famoso architetto sabaudo Buniva per i lavori del suo ampliamento; invitando successivamente i reali per celebrarne i tessuti che vi si producevano per vestire l’esercito. I Türck a fine Ottocento ne raccolsero l’eredità e la difesero, fino agli anni Settanta dello scorso secolo. Poi l’aria è cambiata, ed è iniziata l’era degli individui che gli hanno voluto male.

Dopo il fallimento, com’è stato gestito questo patrimonio immobiliare? Qual è stato il ruolo delle diverse Amministrazioni comunali nel tempo?

Complice la generale recessione industriale del tessile, i Türck erano in difficoltà. Nel 1975 il comune di Pinerolo vincolò tutta l’area fino al Lemina a verde pubblico, impedendo loro di vendere alcuni lotti di terreni al fine di risanare le loro finanze. Un vincolo durato due anni, giusto il tempo per condurre al fallimento i Türck. La vasta area fu messa all’asta e acquisita nel 1979 dalla Società Moirano intenzionata a costruirvi sopra un nuovo quartiere senza mostrare interesse nella conservazione della preesistenza. Negli anni Ottanta e Novanta furono prodotte diverse ipotesi, le quali, oltre l’equilibrio tra strutture residenziali e servizi, prospettavano il recupero dell’opificio o parte di esso. Tutte furono scartate: centro culturale, sede universitaria, nuova biblioteca civica, nuovo tribunale, sede dell’Agenzia delle Entrate. Neppure la buona volontà dell’assessore Fantone, fautore di una “Variante di qualità”, calmierante le altezze degli edifici, e di una proposta per il salvataggio dell’involucro dell’intero edificio sulle orme del progetto Eridania di Parma firmato da Renzo Piano, avranno buon fine. Già negli anni 1996-1997 la Soprintendenza aveva chiesto all’Amministrazione comunale che qualsiasi progetto presentato non compromettesse i volumi e le facciate dell’ex Merlettificio, senza tuttavia porre alcun vincolo di tutela. L’Università di Torino, rimarcando il valore assoluto di questa testimonianza della proto industria della lana, a sua volta assegnò numerose tesi di laurea, senza però ottenere alcun riscontro da parte del Comune e dei proprietari. Neanche il concorso di idee Lyda Türck, promosso da Italia Nostra in collaborazione con l’Ordine degli Architetti di Torino e finanziato dagli eredi Türck negli anni 2014-2015, riuscì a mutare gli intenti dei proprietari. Tutte queste iniziative solo nel 2021 hanno convinto la Soprintendenza a porre un vincolo su minime parti del fabbricato. Nel 2008 il Consiglio comunale ha inserito il Merlettificio in un “Piano di recupero” che ha aggirato la normativa vincolante del restauro. Il 13 ottobre 2013 un incendio interessò la porzione ovest dell’edificio. L’incendio venne imputato alla disattenzione di alcuni occupanti abusivi. L’allora sindaco Buttiero si affrettò subito dopo a dichiarare che, vista la pericolosità del sito, «è auspicabile la sua demolizione». A partire dal 2016 la nuova Amministrazione del sindaco Luca Salvai si è dimostrata in linea con le precedenti, reputando prioritario porre rimedio alle questioni di degrado, anche a discapito della conservazione del Merlettificio. Nel settembre 2018 è stato presentato pubblicamente il progetto dell’arch. Bardini di Asti, che prevede la costruzione di 869 nuovi vani. A distanza di sessant’anni siamo così di fronte al rischio che un nuovo scempio venga compiuto. Nel 1960 il sindaco di Pinerolo Bona passò alla storia (solo per questo, altrimenti nessuno lo ricorderebbe più) per aver fatto abbattere il seicentesco Hotel di Cavalleria. Un evento sconcertante, che si stentava a credere che si potesse ripetere.

Per quale motivo il Türck merita di essere tutelato? Quale il suo significato per la città di Pinerolo?

L’ex Merlettificio è il più antico opificio di pannolana, tutt’ora esistente, insediato in Piemonte, mentre gli ampliamenti settecenteschi lo hanno reso il primo lanificio modernamente inteso dello Stato sabaudo. Allo stato attuale l’edificio si presenta visivamente integro nella sua mole, comprese le strutture della parte bruciata. Conserva, in adiacenza alla porzione settecentesca del Follone, gli antichi macchinari idraulici costruiti sul Moirano, testimoni della trasformazione del sistema di produzione di energia da idroelettrico in elettrico. L’intero edificio rappresenta, nella sua integrità e totalità tutt’ora in essere, e proprio per questa sua conservazione complessiva e per la stratificazione plurisecolare derivante dalle funzioni proto-industriali ospitate, un importante esempio di archeologia industriale e una testimonianza dell’antico legame tra la città di Pinerolo e l’industria tessile. L’intero stabilimento è meritevole di essere salvato, e non solo una sua parte,  rivestendo quell’interesse particolarmente importante, così come previsto dalla normativa vigente in materia di tutela storico/architettonica.

A tuo avviso, a quali rischi va incontro quest’area paleo-industriale?

Le intenzioni dell’Amministrazione e dei proprietari si espliciteranno nella quasi totale demolizione di questo simbolo identitario, eccetto una quinta di muro, un minimo suo segmento che - c’è da scommettere - verrà buttato giù e ricostruito e che, assieme a un parco pubblico, costituiscono il “regalo” promesso alla popolazione. Tutto segue il copione tipico dell’ideologia e prassi di chi, con disinvoltura, per decenni ha distrutto l’immagine e la bellezza del nostro Paese. Anche molti cittadini hanno imparato ad argomentare che «non si può fare nulla perché si tratta di un immobile privato», mentre il basilare principio secondo cui proprio il privato deve chiedere una concessione -ossia un permesso per fare qualsiasi cosa- implica che a decidere, almeno sulla carta, sia l’istituzione pubblica. A meno che quest’ultima predisponga strumenti urbanistici fatti in modo da lasciare libertà al privato di decidere. Come è successo. E dire che l’opportunità di mettere mano al Piano regolatore, concretamente e su basi nuove, c’era. A conti fatti rimane sul campo un’Amministrazione, competente o incompetente che sia, debole nel ricoprire la funzione pubblica a cui è stata chiamata. Nel caso del Türck, l’esecutivo ha gestito talmente bene o male l’affare, a seconda del punto di vista rispetto l’incolumità del bene maneggiato, che ad averne il potere sarebbe da chiederne le dimissioni. Purtroppo si può solamente scriverlo.


lunedì 9 maggio 2022

Aldo Moro e Peppino Impastato: uccisi nella stessa "notte buia dello stato italiano"

 Lo scriviamo oramai da anni: "Una data lega l'assassinio di due uomini: Aldo Moro e Peppino Impastato. Il primo ucciso per mano delle Brigate Rosse, il secondo ucciso da Cosa Nostra. Uccisi nella stessa "notte buia dello stato italiano" alle prime ore del 9 maggio 1978.

E da tempo ripetiamo che In Italia la ragnatela del potere lega vicende  e trame di cui ancora oggi non siamo stati capaci di definire pienamente i contorni: morti innocenti, delitti oscuri, perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. Delitti e stragi commessi pensando che, in Italia, potesse servire spargere sangue innocente: per seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee e valori, per impedire o indirizzare cambiamenti. 
Oggi il "potere" ha imparato ad usare metodi differenti, più adatti al momento storico che viviamo, tanto che quotidianamente scopriamo che mafie e "pensiero mafioso", corruzione e mala-politica, sono fattori potenti e presenti come non mai, tanto da essere diventati "il cancro" che mina presente e futuro di questo Paese. 
Facciamo nostre le parole di Alessia Candido: "Peppino Impastato era un rivoluzionario, un militante, un comunista senza "se, ma, forse". Uno che aveva capito che combattere le mafie significa combattere il sistema economico, politico e di potere di cui sono architrave. Significa lottare contro le speculazioni edilizie, gli ostinati latifondi, contro le mega-opere inutili che a forza di varianti diventano sempiterni bancomat (...)"


"La mafia è una montagna di merda"
Non siamo in grado di parlare della figura di Aldo Moro e ce ne scusiamo. Quale potesse essere il contributo che come uomo, prima ancora che come statista, avrebbe potuto lasciare all'Italia, lo mostra la sua ultima lettera indirizzata alla moglie Noretta:
«Mia dolcissima Noretta, credo di essere giunto all’estremo delle mie possibilità e di essere sul punto di chiudere questa mia esperienza umana. Ho tentato di tutto.
Credo di tornare a voi in un’altra forma. Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo.
A Te devo dire grazie, infinite grazie, per tutto l’amore che mi hai dato.
Ricordati che sei stata la cosa più importante della mia vita.
Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. 
A ciascuno la mia immensa tenerezza che passa per le tue mani.
Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile.
Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo.
Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».

Qualcosa vorremmo dire invece di Peppino Impastato ."La mafia è una montagna di merda!" Sarebbe necessario trovare ancora oggi il coraggio di gridarlo a certe "facce", a chi si è abituato a quelle facce e al puzzo della "montagna di merda", al puzzo del compromesso morale, della convenienza , ai tanti misteri che soffocano la Giustizia di questo paese, misteri custoditi dal sigillo del Potere.
O ci basterà la vuota retorica della commemorazione, del ricordo? Ce la faremo bastare, quella retorica vuota, per giustificare la "legalità sostenibileche abbiamo costruita a nostra misura affinchè non ci faccia troppo male e non ci costringa troppo? Oppure cominceremo davvero a "fare memoria", ad avere il coraggio e la coerenza necessarie affinché le cose accadute non abbiano più a ripetersi, affinché si metta in atto l'insegnamento di coloro che, come in un triste rosario, continuiamo a snocciolarne nomi, date di nascita e di morte prematura?
Che non siano state morti inutili.

Due testimoniane a memoria di Peppino Impastato

Salvo Vitale, amico fraterno di Peppino Impastato (fonte Antimafiaduemila)"(...)sembra ieri. Che cosa rende Peppino sempre attuale e degno di interesse? Indubbiamente la sua giovane età: è morto a 30 anni e quindi non ha avuto il tempo di invecchiare o di lasciare invecchiare le sue idee e tutto ciò in cui credeva. Altro elemento che lo rende vivo e presente è la radicalità delle sue scelte, il rifiuto del compromesso, la scelta senza discussioni delle proprie idee come base per costruire una società nuova e quindi la contestazione delle strutture autoritarie della società borghese, dalla chiesa, alla famiglia, alla scuola, alle istituzioni in genere. E poi la sua attualità è nella scelta degli strumenti di comunicazione, ultimo dei quali la Radio. Peppino progettava un’informazione veramente libera, non soggetta a censure, formativa e informativa dove la notizia era la narrazione del vissuto che ci circonda, dei drammi quotidiani dell’esistenza e non le vicende dei personaggi importanti, l’ufficialità dell’avvenimento, l’informazione istituzionalizzata. Peppino era un giornalista purosangue, anche se non ha mai avuto il tesserino, anzi gli è stato dato ad honorem nel 1996, così come, sempre, nello stesso anno, la laurea. In questo contesto assume particolare importanza la satira e il dileggio di atteggiamenti, di idee, di manovre, di speculazioni, che “le persone che contano” ritengono intoccabili e sacrosante e di cui giornalmente si nutrono. In prima fila, tra queste persone, mafiosi e politici, ma anche preti, medici, avvocati, affaristi, in pratica quella che una volta si definiva “classe dominante”.
Una delle canzoni da lui preferite era “Vecchia piccola borghesia”, di Claudio Lolli, “Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia, non so dirti se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia”. Dall’altro lato della barricata c’erano le persone più deboli e indifese, i lavoratori, gli edili, i contadini di Punta Raisi, gli stagionali di Città del mare, i disoccupati, i pescatori di Terrasini, coloro a cui Peppino aveva dedicato la vita e per i quali sognava di costruire una società diversa, dove tutti fossero uguali e senza privilegi. 
E’ chiaro che una persona del genere che voleva cambiare il contesto sociale in cui era nato e che tutti invece accettavano, non poteva che essere considerata scomoda e, alla fine, la sua morte ha rappresentato una sorta di liberazione. Ma naturalmente resta il fascino delle sue idee, ed è per questo che ogni anno ci si ricorda del suo barbaro omicidio, del tentativo di depistaggio che voleva farlo passare per un attentato terroristico, dell’impegno della famiglia e dei compagni per ottenere giustizia e verità e della lunga strada durata 22 anni, prima di riuscirci. 
Nel vuoto culturale che ci circonda Peppino è sempre un punto di riferimento".

Alessia Candito, giornalista de La Repubblica: "Peppino Impastato era un rivoluzionario, un militante, un comunista senza "se, ma, forse". Uno che aveva capito che combattere le mafie significa combattere il sistema economico, politico e di potere di cui sono architrave. Significa lottare contro le speculazioni edilizie, gli ostinati latifondi, contro le mega-opere inutili che a forza di varianti diventano sempiterni bancomat come la terza pista dell’aeroporto di Cinisi, contro gli impasti massonico-mafiosi che permettono il perpetuarsi del sistema. Peppino era uno che aveva capito che la lotta alla mafia è lotta per i diritti di tutti contro i privilegi di pochi, per questo organizzava le lotte dei manovali contro i caporali, quelle dei braccianti e dei coloni contro il barone e padrone di turno.
Oggi i latifondi ci sono ancora, l'A3 è diventata A2 ma continua a far mangiare i clan, si torna a parlare di ponte sullo Stretto e Peppino Impastato è diventato "quello di Radio Aut".
La memoria o è vera, reale e completa o rimane esercizio buono per comodissime passerelle. "Cuntra mafia e putiri, c'è sulu rivoluzioni"

domenica 30 ottobre 2016

In Italia, i terremoti distruggono la Bellezza di vite e di opere che non siamo stati capaci di difendere

Se si insegnasse la Bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore (Peppino Impastato)“.
Norcia: la basilica di San Benedetto, patrono d'Europa.
Il terremoto di questa mattina, 30 ottobre, alle ore 7.40 distrugge la basilica

Fossimimo stati educati a riconoscere e a difendere la Bellezza di cui i padri dei padri dei nostri padri, hanno disseminato quel luogo chiamato Italia avremmo saputo, dovuto, chiedere e pretendere "grandi opere" per salvaguardare quella Bellezza che un terremoto cancella in un attimo. Invece, pietre e vite rotolano impotenti sotto la scure di uno stesso degrado, che è anzitutto un degrado etico e morale. 
Giorno dopo giorno, inchiesta dopo inchiesta, impariamo a cosa servono in Italia le cosiddette "grandi opere", i grandi appalti: corruzione, mafie, tangenti, grandi affari riservati a pochi, soliti, noti. 
Incompiute -sempre- anche le azioni, le opere, volte al "bene lungimirante delle comunità".
Il vescovo di Rieti ai funerali delle vittime del terremoto dello scorso agosto: "I terremoti non uccidono. Uccidono le opere dell'uomo".

lunedì 29 giugno 2015

La Bellezza: principio morale a fondamento di una Democrazia autentica.

L'amico Giorgio Canal mi ha chiesto di introdurre il primo incontro del “cammino” chiamato Human Factor. Si vuole provare a riflettere sul principio della Bellezza posto in relazione alla crisi che viviamo: una crisi strutturale, economica, sociale, morale. Ho accettato volentieri l’invito anche per il fatto che, in rappresentanza del presidio LIBERA “Rita Atria” Pinerolo, ci è cara la figura di Peppino Impastato, autore della frase riportata nella presentazione all'incontro stesso: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità (...) È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore ". Nella fotografia, una vista di Noto.
In questa frase Peppino Impastato pone in relazione diretta il principio della Bellezza con le condizioni di vita di una comunità. Comunità schiacciate dalla cultura mafiosa, dal pensiero mafioso, oppure comunità assuefatte -dall'ignoranza e dalla “convenienza”- ad uno degli aspetti più evidenti che avevano preso corpo in italia a partire dalla fine degli anni '50: la speculazione edilizia, la devastazione del paesaggio italiano. La Letteratura stessa ci consegna una delle domande più inquietanti sulla condizione umana facendo proprio riferimento alla Bellezza. In uno dei capolavori di Fedor Dostoevskij, “ L'Idiota”, un personaggio minore rivolge al principe Myskin ( l'Idiota) la celebre frase : “E' vero principe che un giorno avete detto che la bellezza salverà il mondo?:..” Ma neppure Dostoevskij scioglie l'enigma: nel romanzo, né il principe Myskin né altri offriranno una risposta chiara e diretta.
Se nessuno può affermare con certezza che la Bellezza salverà il mondo, tuttavia possiamo riflettere a partire dal fatto che il principio della Bellezza, il tentativo di una sua formale concretizzazione, ha guidato da sempre l'agire dell’Umanità: quella che chiamiamo Arte, nelle sue varie forme ed espressioni, è un fenomeno presente in tutte le culture e non è altro che il “tentativo umano” di creare qualcosa che sia accostabile alla Bellezza della Natura e, poiché “umano”, da quella se ne distingua. Tentativi “umani”, quelli dell’Arte, spesso ispirati dallo “spirito superiore”, la religione, altro elemento presente nelle culture di ogni tempo. Quel che ci preme anticipare è che, a nostro parere, il principio della Bellezza impone il rispetto di altri princìpi.

La Bellezza della Polis greca: Estetica-est-Etica!
Riferimento obbligato di questa riflessione diviene allora l'Età d'Oro dell'antica Grecia, Atene, considerata “culla” del mondo occidentale. In quel luogo e in quel tempo, molti dei concetti su cui si fonda la nostra cultura, e coi i quali si indagano ancor oggi il pensiero e l'agire dell'uomo, hanno trovato i primi canoni, le prime definizioni. Per alcuni filosofi dell'antica Grecia, fra i diversi princìpi quello della Bellezza, l'Estetica, era così importante da sopravanzare addirittura l'Etica, poiché “la conteneva”! Così come il concetto stesso di Principio è più importante della Regola-Legge poiché rispetto a quella ha una “eccedenza deontologica”. Esempio: il principio proclama che la Vita umana è sacra e inviolabile; la regola-legge stabilisce il prezzo da pagare se si viola quel principio.
Il riferimento all'antica Grecia è ancor più doveroso se pensiamo che in quel luogo sono nate due parole fondamentali per la storia occidentale: la parola politica ( da polis, la città) e la parola democrazia (il governo del popolo). La forma stessa della città-polis, i luoghi che costituivano l'organismo della città, scandivano poi anche i diversi momenti della vita democratica: l'Oikos ( la casa) era il luogo delle attività e dei commerci privati; l'Eklesia ( da cui deriva il termine chiesa) era l'assemblea pubblica dei cittadini nel cui ambito venivano discussi i problemi della comunità; l'Agorà ( la piazza) il luogo fisico ove la cittadinanza si riuniva e dove il consiglio degli eletti, Boulè, aveva il compito di esaminare problemi, privati e pubblici, mediando e riconducendo il tutto a regole-leggi che tendessero a soddisfare il bene della comunità intera, l'interesse pubblico; Il teatro, dove si rifletteva sui moti del'animo umano, sui miti religiosi, ma dove si mettevano anche alla berlina usi, costumi e personaggi dell'epoca.
Possiamo affermare che i luoghi della Polis realizzavano un principio di Bellezza estetica che corrispondeva alla “bellezza” etica della vita di cittadini retti da un sistema democratico. In realtà, sappiamo bene che quella era una democrazia “imperfetta”, poiché solo i cittadini maschi, maggiorenni e agiati, godevano dei diritti propri della forma democratica. Ma quella prima forma rimane, lo ripetiamo, il riferimento imprescindibile di tutta la “battaglia”, lunga, dolorosa e ancora in atto, per giungere al compimento pieno del concetto di Democrazia: il tentativo di trasferire “il potere”, il potere di decidere e di agire a favore della comunità, dalle mani del Potente alle mani del Popolo. E rimane imprescindibile la funzione dell’Agorà, il luogo ove attraverso le determinazioni del Consiglio degli eletti, giova ripeterlo, l’interesse dei privati veniva mediato e condotto ad un interesse superiore, al “bene pubblico”.

Il paese “artificiale”: dal “sogno di un principe” alla Repubblica
L'Italia viene spesso considerato erede ideale di quella cultura della Bellezza che, come detto prima, trova i suoi riferimenti nell'Età d'Oro della antica Grecia.
Vorremmo partire da un fatto fondamentale, spesso sottovalutato: anche nei secoli che precedettero la sua unificazione politica, l'Italia veniva considerata dagli altri stati europei un paese particolare e “unico”, con le sue peculiarità, ricchezze paesaggistiche, tradizioni storico-culturali che stimolavano espressioni di “arti e mestieri”. Questi elementi differenziavano il nostro paese dalle altre nazioni europee tanto che, sino all'Ottocento, il cosiddetto “viaggio in Italia” era ritenuto momento formativo indispensabile per intellettuali e artisti di tutto l'Occidente. Per i popoli europei quella terra chiamata Italia era “unica”, unitaria!, ancor prima che i suoi abitanti si sentissero tali: italiani e uniti!
Occorre sottolineare un altro elemento: il Paesaggio come oggi lo consideriamo, il territorio e i luoghi abitati, non è un elemento “naturale”! Non è “dono della Natura” il paesaggio della Toscana o quello delle nostre Langhe; non era “naturale” la campagna veneta del Palladio; non era “naturale” la Pianura Padana che accoglieva le tante popolazioni del nord Italia, spesso in lotta fra di loro; non era “naturale” la Conca d'Oro che cingeva Palermo. Meno che mai, ovviamente, erano “naturali” le nostre città, i borghi, simboli della Bellezza paesaggistica italiana e grembo di tante opere dell'arte e dell'ingegno di un popolo che da quelle cose “artificiali” traeva stimoli, conoscenza, “senso estetico”: sentimenti capaci di dare vita ad un ideale di Bellezza “unica e peculiare”. L'“artificiosità” del Paesaggio Italiano era frutto di un’opera di trasformazione durata secoli, condotta da generazioni di comunità le quali, per rendere accoglienti e abitabili i luoghi ove vivevano, per conquistare terre da coltivare strappandole a paludi e acquitrini, per tracciare strade necessarie ai commerci e alle comunicazioni, avevano dovuto incessantemente modificare, trasformare, l'habitat naturale. Ma cosa mirabile era che queste trasformazioni avvenivano quasi sempre rispettando un principio “superiore” che oggi chiameremmo “interesse pubblico”; e quelle trasformazioni sono state tanto più evidenti ed organiche in relazione proporzionale alla qualità politica del “potere dominante” dell'epoca. Il Paesaggio è pertanto il risultato del pensiero e della conseguente “azione politica” di una comunità.
Permettetemi di riprendere quanto ho avuto modo di scrivere in passato: “(...) Occorrerebbe riflettere su quanto decoro, sapienza urbanistica e valore architettonico d’insieme, esprimano tanti borghi, paesi e cittadine di ogni regione italiana, anche quelli sorti in luoghi nei quali il retaggio della povertà economica ne costituiva tratto essenziale. In quei luoghi, oscuri artigiani dell’architettura e dell’urbanistica avevano “disegnato” e costruito assecondando proprio “il genius loci”, la vocazione dei luoghi di cui parlavo prima. Borghi, paesi e cittadine che tante volte oggi ritroviamo offesi in paesaggi sviliti, oltraggiati da “cose-case” oscene o informi periferie, frutto di volontà, cultura e valori davvero diversi da quelle che -per secoli- ne avevano animato la crescita lenta, organica, meditata e “sostenibile” (come diremmo ora dall’alto della nostra presunta modernità culturale)”.
Non era solo una questione di estetica, era anche di etica: il senso di armonia e di decoro delle città e dei borghi italiani, contribuiva a costituire un elemento di riconoscimento, di appartenenza, nei confronti del luogo stesso ed erano il fondamento di quello che oggi potremmo definire il principio (etico) di cittadinanza. Da questo derivava l'assunzione di responsabilità delle comunità nei confronti del luogo-territorio nel quale si viveva. Amore e attaccamento nei confronti dei luoghi ponevano in secondo piano addirittura un fatto “paradossale”: spesso, le città e i borghi che costituiscono l'immagine-simbolo dell'Italia sono frutto del “sogno di un principe”! Ma se il “sogno del principe” aveva come scopo la costruzione di luoghi, edifici e opere d'arte che dovevano esprimere la sua magnificenza, quelle stesse opere costituivano anche la valorizzazione e l'esaltazione di peculiarità, ricchezze artistiche e culturali, proprie del territorio medesimo. Non è quindi un caso se l'Italia, unita e repubblicana, e prima nazione al mondo, introduca addirittura nei Principi fondamentali della Costituzione Italiana concetti di una modernità assoluta che altro non sono se non la “summa” della sua tradizione storica. Così si proclama all’art. 9 :La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Secondo i padri costituenti, la Bellezza dell’Italia, la sua tutela e salvaguardia diventavano fondamento, espressione, dei valori etici e morali della Repubblica.

La perdita della Bellezza e le "sentinelle" inascoltate
Il lungo e organico “modus-operandi” che aveva dato vita al Paesaggio Italiano subisce una interruzione “drammatica” nel corso del secondo dopoguerra quando, a tappe forzate e forzose, grazie anche agli ingenti aiuti del “Piano Marshall”, l'Italia si trasforma da paese prevalentemente agricolo in paese industriale. Milioni di donne e uomini provenienti dalle aree rurali si riversano nelle città della “ricostruzione”. Donne e uomini a cui viene fatto balenare il miraggio di un benessere finalmente “a portata di mano”, da conquistare e raggiungere abbandonando “la povertà secolare delle campagne”, godendo del “benessere della modernità” grazie al lavoro operoso nelle nuove fabbriche, nelle nascenti attività economiche e nel “terziario”. Sono gli anni del cosiddetto boom economico: la Lira vince l'Oscar delle monete e il PIL, la grandezza economica che tutti impareremo a conoscere, viaggia a percentuali di crescita “favolose”!
I segni del cambiamento in atto si evidenziano nella trasformazione accelerata che proprio gli organismi urbani subisco: all'abbandono dei paesi, degli antichi borghi, fa da contraltare la crescita tumultuosa delle città che, accanto ai nuclei storici, vedono sorgere rapide e spesso caotiche “addizioni” urbane che cambiano profondamente l'immagine di tanti luoghi. L'edificazione, l'abitare, muta di carattere e di significato: da naturale soddisfacimento di un bisogno abitativo si trasforma in “speculazione edilizia”, gestita e guidata da attori che troppe volte hanno disegni e ideali ben diversi dai “principi” del passato. Il sentimento di appartenenza ad un luogo-paese viene spezzato dalle migrazioni interne e diventa “spaesamento”, perdita di riferimenti fisici nei quali riconoscersi, perdita dei “luoghi” dei quali sentirsi responsabili e nei quali trovare valori, conforto e calore. La trasformazione culturale ed etica delle comunità si accompagna alla trasformazione fisica del Paesaggio.
Il secondo dopoguerra, gli anni del boom economico, sono quindi anni contraddittori per il nostro Paese; anni di cambiamento su cui pare riflettere solo l'analisi di alcuni protagonisti del mondo culturale dell'epoca, impegnati a denunciare, contrastare, la deriva a cui il Paese pareva pericolosamente avviarsi. Poche sentinelle, inascoltate! Nel campo dell'arte cinematografica, il film “Le mani sulla città” del regista Francesco Rosi descrive e spiega meglio di tanti trattati cause e fatti di quanto avveniva e le conseguenze che ne sarebbero poi derivate. Vano e sottovalutato fu anche l’allarme lanciato da Pier Paolo Pasolini nei confronti dei falsi miti della modernità e della trasformazione “antropologica” che gli italiani parevano subire, aderendo a modelli di cui oggi avvertiamo -con colpevole ritardo- la vacuità e la insostenibilità.
Conseguenza di questa deriva fu l'ascesa e l'affermazione di una classe dirigente, politica ed economica, il cui decadimento etico sarà poi denunciato da uno degli uomini-simbolo di quella che una volta chiamavamo Sinistra: Enrico Berlinguer. Nella celebre intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari, nel luglio del 1981, Berlinguer parla chiaramente: “(...) I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune(...)”.
Facile ora riconoscere nelle parole di Berlinguer il ceto politico inquietante che diede vita al cosiddetto “Sacco di Palermo” (nella fotografia a lato) e alle tante speculazioni che, dalla fine deli anni ’50 del secolo scorso, dilaniarono gran parte del tessuto urbano e del paesaggio italiano. Sono gli stessi personaggi che oggi ritroviamo protagonisti delle tante “mafie capitali”, “provinciali e cittadine”, portate quotidianamente alla luce da scandali e inchieste della magistratura. Inquietante è anche il fatto che mai una voce di denuncia si levi, prima dell'intervento della magistratura, da ambienti che appaiono spesso più “complici” che “vittime” di un sistema corruttivo che pare non avere eguali nel mondo occidentale.

Dalle “antiche consuetudini” ai Piani Regolatori Generali
Soprattutto in Italia, ben presto abbiamo scoperto che, per progettare e costruire “luoghi” accoglienti e pregni di significati etici, non basta che edifici e complessi urbani rispondano ai criteri della moderna igiene edilizia o ai paramentri delle leggi urbanisitiche. Del resto, il richiamo alla necesssità della Bellezza, sintesi di Estetica ed Etica, non compare mai negli scopi del Piano Regolatore Generale, lo strumento urbanistico che dovrebbe guidare e regolare l'organismo della città, o nei “parametri-indici” da rispettare nella progettazione architettonica.
Rinunciando al principio della Bellezza, i Piani Regolatori redatti da “moderni” urbanisti e architetti spesso hanno mostrato di assecondare più i “desiderata” della speculazione edilizia, della rendita fondiaria, che di perseguire il bene della comunità, divenendo strumento utile per operazioni e vantaggi “particolari” compiuti a volte anche a danno dell'ambiente e dei territori. Inutile negarlo: paragonati alle città e al paesaggio che i nostri padri ci hanno consegnato, la qualità e i risultati del lavoro svolto sugli organismi delle nostre città da parte di “ commissioni e professionisti del settore”, tante volte mostrano i segni di una crisi, una involuzione, che è estetica e culturale insieme. Ma cosa grave è che , nella maggior parte dei casi, tutto questo è avvenuto e continua ad avvenire complice la sostanziale “indifferenza” (o miope “convenienza”) delle comunità. E' successo quanto paventava Peppino Impastato: negli ultimi decenni abbiamo perduto la capacità di riconoscere e difendere la Bellezza.
Il degrado che attanaglia ed espande indefinitamente tante nostre periferie, la devastazione progressiva e ininterrotta delle nostre campagne e delle zone costiere, l'incuria subita dai territori, fanno sì che il cosiddetto “bel Paese”, rischia di diventare – se già non lo è diventato- un valore in parte “perduto”, lo ripetiamo, sia dal punto di vista estetico che dal punto di vista etico.

Il cerchio si chiude: la Bellezza è un principio morale!
Ecco perché il principio della Bellezza è così importante: perché saper riconoscere, difendere, creare, la Bellezza ci impone dichiedere contenutiad altri princìpi! Chiedere contenuti, ad esempio, proprio ad uno di quei principio che -al pari di altri- sembra svuotato di significato, svilito e ridotto a “maschera”: il principio della Legalità.
E' questa una riflessione che ritorna spesso nella nostra attività come presidio “Rita Atria”. Noi pensiamo che la parola Legalità sia un termine a volte svilito poiché il concetto-principio di Legalità, intesa come insieme delle regole-leggi che dovrebbero servire a governare la comunità, è stato depredato dal principio che deve nutrirlo e su cui deve trovare fondamento: il principio della Giustizia. Cosicché, tante volte ci troviamo dinanzi a regole che sono state rese “legali” (divenendo leggi) ma che non ci appaiono “giuste”; regole-leggi che non giudichiamo “belle”: le leggi “ad -personam”, ad castam...Regole-leggi che non sono volte a perseguire il bene della comunità quanto piuttosto a garantire interessi e privilegi particolari. Non tutto ciò che è (reso) legale è giusto!
Occorrono donne, uomini, nuove generazioni, che siano capaci di levare la loro voce in difesa di un principio, la Bellezza, che è anzitutto affermazione di un principio morale a fondamento di una Democrazia autentica. Un principio, la Bellezza, che necessita di fatica e impegno a favore del bene della comunità; un principio, la Bellezza, che impone il riconoscimento del merito, delle capacità di ognuno e non “fedeltà” o “appartenenza”, ad un “padrino”, ad una “tessera”, ad una “casta o ad una cricca”; un principio, la Bellezza, che nasce attraverso la creazione di una società in cui l’Armonia e la Solidarietà fra le componenti siano la meta verso cui volgere progetti, azioni, “sogni”.

E allora: auspichiamo che si incontrino donne, uomini, nuove generazioni, cittadine e cittadini responsabili, capaci di riconoscere e difendere il principio della Bellezza!



Arturo Francesco Incurato

referente presidio LIBERA “Rita Atria” Pinerolo