Oggi il Senato si
appresta ad approvare il testo dell'articolo 416-ter. Voluto e introdotto da Giovanni Falcone, l’articolo
416-bis -che punisce il “voto di scambio”- era stato in gran parte depotenziato dal
legislatore, tanto da risultare praticamente inefficace al fine di spezzare il rapporto criminale fra mafia e politica.
Preoccupazioni sulla stesura definitiva del testo erano state già espresse dal Procuratore di Torino Giancarlo Caselli in una intervista che riportiamo, e nella quale Caselli spiega la presenza e l'azione delle mafie al Nord.
Su "La Repubblica"di oggi pm e giornalisti esprimono perplessità sull’ultima versione del testo:
"(...) Un avverbio di troppo,
"consapevolmente". Una parola impropria, "procacciamento". (...) Quel "consapevolmente"
comporta che l'inchiesta giudiziaria debba dimostrare l'effettiva
"consapevolezza" dello scambio. La parola "procacciare"
sostituisce l'originaria "promessa" che rendeva assai meglio il
momento iniziale dello scambio. (...)".
Fonte: Micromega 15 luglio 2013
Caselli: “Mafie e politica, legami criminali”
Dalla sanità al commercio, dal turismo allo
smaltimento rifiuti: le mani dei clan strangolano l’Italia. L’intreccio d’interessi
della “borghesia mafiosa” è un sistema di potere oscuro, consolidato in 30 anni
di esercizio, tanto al sud quanto al nord del Paese. Il procuratore capo di
Torino interviene sulle relazioni pericolose di politici e imprenditori per
compravendita di voti, appalti e riciclaggio.
di Rossella Guadagnini
La mafia? Non esiste. “Una bestemmia dura
a morire che ha sostenuto, con diverse declinazioni, il patto di coabitazione
di tutti i successivi contesti economici e istituzionali della nostra storia”.
Parole che pesano, tanto più se a pronunciarle è il procuratore capo di Torino,
Gian Carlo Caselli, in un’aula di tribunale. “Nessuna banda di gangster al
mondo sopravvive oltre 40, 50 anni. Se le mafie infestano il nostro Paese vuol
dire che sono anche altro”.
E’ l’assunto della requisitoria al processo
“Minotauro” contro le infiltrazioni della ’ndrangheta nel torinese, in corso
nell’aula bunker del carcere delle Vallette. Le richieste di condanna sono di
oltre 730 anni di carcere per 73 imputati, con una sola assoluzione. Un
dibattimento destinato a lasciare il segno, come ha spiegato il pm Roberto
Sparagna: "Nessuna sentenza, fino a oggi, ha dimostrato la presenza della
'ndrangheta in Piemonte".
L'indagine
prima e il processo poi hanno messo in luce i confini dell'intreccio tra cosche
e quella che è chiamata “borghesia mafiosa”, soffermandosi in particolare su
affari e legami con le amministrazioni locali. Una disamina accurata di come
funzionano i rapporti tra politica e 'ndrangheta laggiù
al nord. Sono oltre 360 gli affiliati, secondo le stime della
Procura, di importanza e peso diversi e di diverso colore politico. Un'ondata
di piena, quella della malavita organizzata, che non ha incontrato resistenze. "Perché la magistratura è stata
lasciata sola? – chiede il procuratore capo di Torino – Per ignoranza, miopia,
impreparazione, sottovalutazione culturale oppure per un certo distacco
snobistico del nord?".
E prosegue il suo affondo contro quella
parte di politici "negazionisti" che hanno dimostrato “scarsissima sensibilità”
nei confronti del fenomeno mafioso, ramificato in tutta Italia. Tanto da
non poter essere nemmeno più considerato “un’emergenza, ma una realtà
consolidata in trent’anni di esercizio”, malgrado i campanelli d'allarme, a cui
“pochissimi hanno dato retta, soprattutto tra uomini di partito e
amministratori, ma anche nel mondo dell’informazione". Le cosche operano
nella Penisola mantenendo stretti legami con i clan d'origine, uno sviluppo
descritto come "gemmazione". Le organizzazioni criminali si sono
infiltrate nei diversi livelli dello Stato. L'allarme lanciato dalla Procura
torinese è difficile da ignorare: Torino come Catanzaro, il Piemonte che
assomiglia molto da vicino alla Sila e all'Aspromonte. Com’è potuto succedere?
Il
416 bis del codice penale per associazione mafiosa nel 1982: impossibile non
sapere
C’era una volta il 416 bis del codice penale. Venne introdotto nel nostro
ordinamento nel 1982 per sanzionare la mafia in quanto associazione, così da
offrire uno strumento efficace di lotta. Prima di allora, pretendere di
contrastare le cosche era – a detta di Giovanni Falcone – come “pretendere di
fermare un carro-armato con una cerbottana”. L’associazione mafiosa consiste in
un intreccio fra gangsterismo e “relazioni esterne”, spiega Caselli, un insieme
di “coperture e complicità derivanti dal reticolo di interessi che i mafiosi
sistematicamente cercano di tessere”. E’ la “vera spina dorsale del potere
mafioso, che consente alla criminalità di gestire o controllare attività
economiche, realizzare profitti o vantaggi ingiusti, influire sulle
consultazioni elettorali”.
La presenza delle mafie oltre i confini del
Mezzogiorno è nota a chiunque ne esamini anche solo superficialmente la storia. Risale sempre al 1982 l’intervista a Carlo Alberto dalla
Chiesa
di Giorgio Bocca (
la Repubblica,
10 agosto), in cui il generale – che sarebbe stato assassinato un mese dopo –
sostiene: “
La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi
investimenti edilizi o commerciali e magari industriali. A me interessa
conoscere questa ‘accumulazione primitiva’ del capitale mafioso, questa fase di
riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte, che architetti o
grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi o ristoranti à la page. Ma ancor più mi interessa la rete mafiosa
di controllo, che grazie a quelle case, imprese e commerci magari passati a
mani insospettabili e corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi,
procura le vie di riciclaggio, controlla il potere”.
“Valutazioni – commenta Caselli – che oggi vanno moltiplicate per chissà
quanto. E’ inspiegabile che ci si stupisca davanti all’espansione della mafia
nel Nord Italia. C’è solo da prenderne atto e cercare di contrastarla con gli
strumenti di cui disponiamo. Guai, insomma, a stupirsi se l’acqua bagna.
Piuttosto bisogna attrezzarsi e aprire l’ombrello”.
Proprio a Torino, esattamente 30 anni fa, il 26 giugno
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Bruno Caccia |
1983, la
‘ndrangheta uccise Bruno Caccia, procuratore capo della Repubblica.
Dal 1970 al 1983, nella provincia, ci sono
stati 44 omicidi, con 24 assassinati di origine calabrese, tutti nel segno
della criminalità organizzata. Il Piemonte, inoltre, vanta un altro primato
negativo: il primo consiglio comunale sciolto per ‘ndrangheta a Bardonecchia,
nel 1995. E’ dunque “impossibile non sapere”. Ciò malgrado, osserva il
magistrato, “le porte per l’ingresso della ‘ndrangheta al nord sono rimaste
spalancate. Di fatto, se n’è favorito l’insediamento”.
Quando la mafia agisce in territori nuovi, non
tradizionali, ha la capacità di mimetizzarsi, per non essere avvertita come pericolo presente”. Per decenni i
mafiosi sono riusciti in tal modo a estendere la loro presenza criminale in
aree ben più ampie del Mezzogiorno e per espandersi hanno usato la “forza relazionale”, ossia la “costante
ricerca di rapporti stretti con personaggi di rilievo in vari settori della
pubblica amministrazione e della politica, del mondo degli affari e della
finanza. Hanno esteso il riciclaggio (cioè l’avvelenamento sempre più profondo
dell’economia) anche a nuovi territori, ulteriormente ampliando la propria area
d’influenza”.
Le mafie nel Nord Italia rappresentano una
presenza in costante crescita. La loro struttura è “rigorosamente familiare
e presenta difficoltà di penetrazione dall’esterno, credito sociale, assenza di
pentiti: quei pochi che ci sono, sono soggetti ad attacchi d’ogni tipo”. Nessun reato che crei allarme sociale e
faccia “scendere la gente in strada”. Tanta droga, spazio per tutti:
marocchini, albanesi, slavi, sudamericani. Per non dare nell’occhio, la
violenza è usata come ultima arma; vengono prima l’intimidazione, la
suggestione, la pressione e la corruzione, metodi che consentono un’espansione
invisibile e perciò indisturbata. Una situazione che richiede “una magistratura
sempre più attrezzata professionalmente e sempre più indipendente, proprio
quello che tanti non vogliono”.
La
“zona grigia” dei fiancheggiatori rende difficile distinguere il bianco dal
nero
Punto di forza e di espansione progressiva è
la “zona grigia” delle organizzazioni, proprio perché non si vede e perciò è
particolarmente pericolosa. Diviene “sempre più difficile distinguere il bianco dal
nero”, prosegue Caselli, in quanto dilaga il grigio, formato “da
fiancheggiatori più o meno consapevoli del reale profilo criminale dei loro
interlocutori”. Per realizzare i loro
affari, i mafiosi hanno bisogno “di esperti: ragionieri, commercialisti,
immobiliaristi, operatori finanziari e bancari, notai, avvocati, politici,
amministratori, uomini delle istituzioni (magistrati compresi, purtroppo): la
cosiddetta borghesia mafiosa”. Si fanno così sempre “più fitti gli intrecci
con pezzi del mondo politico e dei ‘colletti bianchi’”. I transiti di “denaro
sporco” nell’economia legale sono più intensi. E se la competizione nel mondo dell’impresa è sempre più dura, “un aiutino per mettere un piede davanti
alla concorrenza può essere ben gradito, anche a costo di ritrovarsi qualche
socio poco raccomandabile”.
Non c’è
dunque solo la componente del “gangsterismo, fatto di estorsioni, usura, droga,
rifiuti, e caporalato. Ma anche quella delle relazioni
esterne, in cui giocano un ruolo chiave coperture, collusioni,
complicità, affari e interessi”. Tutto
ciò fa della mafia quello che è: un esteso sistema di potere. Per affrontarlo,
sottolinea il procuratore capo di Torino, “il magistrato deve indagare in tutti gli
ambienti, su tutti gli intrecci. Se risultano ‘relazioni esterne’ ha l’obbligo
di evidenziarle tutte, anche quando non presentino profili di rilevanza penale.
Proprio la presenza di rapporti, la descrizione delle ramificazioni, di tutte
le ramificazioni delle organizzazioni criminali nel territorio, sono un
elemento essenziale per riconoscere le caratteristiche specifiche della mafia
nell’estendersi all’interno di una società”.
Per questo non è accettabile “la richiesta –
rivolta spesso alle toghe – di indicare soltanto con molti omissis la rete di
relazioni intrecciate dalla criminalità nel tessuto politico e sociale della
comunità. Sarebbe un grave errore”, a detta di Caselli, in quanto “il
silenzio si trasformerebbe in omertà e non contribuirebbe a bonificare il
tessuto sociale”. Insomma, occorre uno sguardo d’insieme, capace di esplorare
anche il lato nascosto del pianeta-mafia, quello fuori scena, tenuto sommerso,
nascosto. Ricondurre “i frammenti in un
quadro organico e non parcellizzato, consentendo così di decifrarli e capirli
meglio, che è poi il metodo Falcone”.
“Il dilagare del grigio – precisa ancora
il procuratore capo – rende l’intervento della magistratura inquirente e
giudicante molto difficile. Sempre più
sfumata diventa la linea di demarcazione fra lecito ed illecito all’interno
delle attività economiche, finanziarie, produttive. Sempre più impegnativo
il compito della magistratura nel contrasto del crimine organizzato”. Per fare
questo non bastano le toghe che perseguono i delitti, non bastano gli
investigatori: “c’è bisogno che la classe politica e dirigente del Paese si
schieri, operando nella medesima direzione per togliere spazi alla criminalità”.
“La mafia c’è perché c’è mercato per i suoi
servizi, ci sono tante persone che traggono vantaggi dalla sua esistenza che
non hanno nessun interesse a denunziare nulla. Persone come politici e
amministratori che la legge penale non può punire in quanto la loro colpa è
l’opportunismo, una colpa che espone alla ricattabilità”.
Mafie
e politica: ecco come funziona
Il dato emergente dai rapporti accertati tra
esponenti della ‘ndrangheta e dell’apparato pubblico in Piemonte è che
“l’appoggio fornito dai primi a ‘uomini delle istituzioni’ è comunque
finalizzato a chiedere, in futuro, il conto di tale appoggio”. Ad esempio, a
proposito di un incontro con un personaggio in vista, un indagato dice in
un’intercettazione: “ve lo faccio incontrare... gli date una mano
poi fate quello che volete a Castellamonte... Facciamo quello vogliamo compare
... facciamo quello che vogliamo”.
“Fino
a qualche tempo fa – spiega Caselli – le mafie avvicinavano se non addirittura sottomettevano gli esponenti politici che potevano risultare preziosi per raggiungere
certi obiettivi come appalti, traffici vari, speculazioni soprattutto
immobiliari. Da qualche tempo, le mafie hanno ritenuto più conveniente inserire
loro uomini direttamente negli organismi politici e amministrativi rilevanti
per le loro attività criminali”.
Il comportamento degli ‘ndranghetisti nella fase di scelta del partito da
appoggiare in caso di votazioni, consiste di regola nel “non inserire mai nella
discussione idee politiche o programmatiche proprie di uno degli schieramenti”.
Quanto ai politici, viene invece adottato un atteggiamento di accettazione o
rifiuto, a seconda del mero calcolo di interesse e peso numerico. “Nessuna
traccia di una presa di posizione sul versante dei principi, ma uno
sconfortante contesto di tolleranza. Per
certuni può essere più semplice assicurarsi il sostegno della malavita,
piuttosto che competere lealmente con gli avversari al momento delle elezioni.
Ciò vale per qualunque confronto elettorale: europee, provinciali o comunali,
non fa differenza”.
“Quando
i collegi elettorali sono piccoli è più facile che una minoranza organizzata
riesca a controllare un numero di elettori significativo, sufficiente per
distorcere il processo democratico. L’inserimento negli organismi elettivi è già
di per sé pericoloso e inquinante, ma produce a sua volta effetti perversi”,
quali assunzioni clientelari, affidamento di lavori, forniture e servizi a
imprese collegate. L’area della presenza mafiosa si allarga via via, fino a
stravolgere il mercato del lavoro e quello degli appalti. “Così la ‘ndrangheta
ha conquistato soggettività politica e ruolo imprenditoriale. Una nuova
dimensione che bisogna essere capaci di cogliere nelle pieghe della società”.
Gli
investimenti delle cosche: sanità, turismo, distribuzione commerciale,
smaltimento rifiuti
Abbandonati i sequestri di persona, ma
non i traffici di droga, la ‘ndrangheta – pur continuando a controllare
l’intero ciclo dell’edilizia – ha investito nei settori più disparati: sanità,
turismo, distribuzione commerciale, smaltimento rifiuti, oltre ad altri più
tradizionali come gioco d’azzardo, traffico d’armi, controllo dei grandi flussi
di denaro pubblico. Per fare tutto questo “ha bisogno di appoggi, nella
politica e nell’amministrazione. Sa come cercarli e li trova. Un soggetto
moderno, insomma, inserito progressivamente nei salotti buoni. E’ in questo
modo che si fanno affari e si determinano le scelte sul territorio”.
Significativi
i termini in cui si esprime un indagato( intercettazione di Nevio Coral, ex sindaco di Leinì): “ (bisogna) far sì ché la gente dice: Ah,
con te .... ma le strade si fanno... i lavori si fanno... gli appalti vanno
avanti... l'università... le cose si fanno..; questo principio... puoi farlo su
un gruppo che è fedele. Anzitutto prendiamo uno e (lo) mettiamo in Comune,
l'altro lo mettiamo nel Consiglio, l'altro (lo) mettiamo in una Pro-loco e
l'altro lo mettiamo in un'altra cosa, magari arriviamo che di lì... ci
ritroviamo solo i nostri”.
“Facciamo
squadra e controlliamo tutto”. E’ la moderna strategia degli uomini dei
clan, un programma di occupazione del territorio, attuato grazie all’intreccio
tra forza politica e forza intimidatrice della ’ndrangheta. Il lato oscuro del
pianeta mafia è rappresentato da “un groviglio perverso di favori scambiati,
interessi comuni, collusioni, coperture complicità – rammenta Caselli – ma chi paga il prezzo? Lo pagano i cittadini e i consumatori, in
quanto abbiamo organismi elettivi disonesti, la regolarità mercati viene
stravolta, oltre a dover vivere in un ambiente pervaso di corruzione e
intimidazione fino alla violenza”.
La
presenza dello Stato è indispensabile, ora in aula la discussione sul voto di
scambio
Il
procuratore capo di Torino, infine, mette in guardia contro “il sentimento di
distacco dallo Stato come strumento di regolamentazione della vita della
Nazione”, dove trovano spazio “le mafie per sostituirsi allo Stato”. L’attuale
grande crisi della liquidità economica permette al crimine organizzato “di
entrare nei gangli della macchina economica. Manipolando e alterando la libera
concorrenza, le mafie perseguono l’obiettivo di dimostrare agli imprenditori
che stare con la mafia conviene”. Perché spesso si determina un regime di
monopolio commerciale, con l’uso della forza e grazie all’azzeramento delle
relazioni sindacali. Il ritorno “di una forte della presenza dello Stato, certo
non con delega esclusiva alle Forze dell’Ordine e alla magistratura, è dunque
auspicabile”, conclude Caselli. Auspicabile da subito e da subito necessario, si
potrebbe aggiungere con un barlume di buon senso.
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Maria Carmela Lanzetta |
Nei
giorni scorsi, il sindaco del comune di Monasterace (Reggio Calabria), Maria Carmela Lanzetta, in una lettera
alla presidente della Camera. Laura Boldrini, ha rassegnato le sue dimissioni:
“Sono
delusa dalla politica – scrive – da chi potrebbe fare molto e pensa solo alle
strategie invece che ai problemi della gente. Non si può andare avanti così,
schiacciati tra le parole vuote delle istituzioni e la ‘ndrangheta”.
Occorrono azioni, non parole. Occorrono decisioni, leggi, gesti significativi.
Intanto, in Commissione Giustizia della
Camera, ha fatto un primo passo in avanti la questione del voto di scambio tra
politica e mafia, regolamentata dal 416 ter del codice penale, reato del
’92 uscito dalla penna di Falcone, ora ripensato con l’estensione della
perseguibilità dello scambio elettorale politico-mafioso, non solo in quanto
passaggio di denaro, ma anche di favori, incarichi, appalti e informazioni. Secondo il
presidente di Libera, don Luigi Ciotti, l’accoglimento delle richieste dei 250
“braccialetti bianchi”, rappresentanti di forze politiche diverse, è una
“risposta concreta alla domanda di giustizia e d’impegno della società civile
contro la corruzione. Ma la strada è appena imboccata. Niente scherzi o
giochetti nel voto a Montecitorio, al via da lunedì 15 luglio”.
Importante, infatti, è vigilare affinché nella
discussione in aula l’impianto della norma non venga in tutti i modi
‘annacquato’ al fine di evitare che possa funzionare davvero. Sono state accolte anche le proposte riguardanti la modifica del 416
bis per disciplinare meglio il cosiddetto concorso esterno: si è approvato,
infatti, il principio che punisce chi promette denaro e altra utilità e il
mafioso in concorso con il politico, precisa il relatore Stefano Dambruoso.
Ma sul tappeto ci sono anche altri temi sensibili: come mai, ad esempio, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, non ha
ancora assegnato le deleghe al vice ministro Filippo Bubbico, in particolare
quella che dà il controllo sulla commissione pentiti di mafia e testimoni?
E, ancora, come mai rischia di non essere approvata entro agosto, secondo
quanto stabilito, la legge istitutiva della commissione Antimafia con poteri
più forti riguardo alla stragi politico-mafiose?
Le cosche
del nuovo millennio hanno cambiato aspetto: non hanno più il volto terribile
dell’assassino, ma quello più rassicurante in apparenza, talvolta perfino
‘politicamente corretto’, dell’amministratore, dell’imprenditore, del politico
di turno. “Non si può governare innocentemente” ha detto Louis Antoine de
Saint-Just, politico francese e rivoluzionario, nel processo contro Luigi
XVI. Ed è vero. Ma non si può nemmeno
governare barbaramente. A essere in gioco, a questo punto, è una questione
di civiltà, oltre che di legalità.