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mercoledì 31 luglio 2013

Difendere Nino di Matteo vuol dire anche fare memoria e onorare Rocco Chinnici

Le notizie trapelate nei giorni scorsi su di un possibile attentato contro il giudice Nino Di Matteo  hanno allarmato forze dell'ordine, magistratura e tutti coloro che si impegnano contro le mafie. Spontanee e forti, iniziative e manifestazioni in sostegno del giudice si sono svolte in molte città italiane. Manifestazioni  ispirate soprattutto grazie all'azione del Popolo delle Agende Rosse , il movimento nato dalle battaglie che Salvatore Borsellino porta avanti da anni per fare piena luce sulla morte del fratello  Paolo. Al giudice Di Matteo sono così giunte lettere e testimonianze di solidarietà  da tutta Italia. 
Quella che riportiamo è la sua Lettera Aperta di ringraziameno.
E' l'occasione anche per fare memoria e onorare la figura di un altro giudice, Rocco Chinnici di cui il 29 luglio scorso ricorreva l'anniversario dell'uccisione. Di Rocco Chinnici riportiamo un breve ritratto, dopo la Lettera di Nino Di Matteo

Fonte: Blog di Salvatore Borsellino


LETTERA APERTA da Nino Di Matteo

Quando ho appreso che tanti cittadini, da ogni parte d’Italia, stavano organizzando le manifestazioni di oggi, mi sono sinceramente commosso ed ho immediatamente provato un profondo sentimento di riconoscenza e gratitudine nei confronti di tutti Voi.

Per me e per i miei familiari il Vostro sostegno e la Vostra solidarietà sono di grande conforto e rappresentano una splendida iniezione di forza ed entusiasmo in un momento difficile.

Non solo per la fiducia e la stima che dimostrate di nutrire nei confronti del mio lavoro ma, ancor più, perché la vostra passione civile, la sete di verità e giustizia, la voglia di non cedere alla indifferenza, rappresentano il punto di riferimento più autentico per ogni cittadino che, nutrendosi dei valori della Costituzione, non si rassegna a vederne quotidianamente calpestati i sacri valori di libertà, democrazia, eguaglianza di tutti davanti alla legge.

Il Vostro entusiasmo, il Vostro impegno per l’affermazione e l’applicazione concreta dei valori costituzionali, contagerà la parte la parte sana del nostro Paese, e prevarrà sui tanti che purtroppo hanno dimenticato che l’esercizio di un ruolo politico, pubblico, istituzionale, qualunque esso sia, deve innanzitutto ispirarsi alla logica del servizio nei confronti del cittadino, specie del più debole e del più povero.
Vi ringrazio perché la Vostra solidarietà e la Vostra sacrosanta aspirazione alla giustizia, sono e saranno più forti, e per me più importanti, dei tanti ed assordanti silenzi istituzionali.
Vi ringrazio perché la tensione morale e l’attenzione con la quale seguite il nostro lavoro ci ricordano l’essenza più autentica ed entusiasmante del nostro impegno di magistrati: la ricerca della verità, l’affermazione del diritto come servizio alla collettività, garanzia di uguaglianza ed unica strada per arrivare alla vera libertà.
Porterò sempre in me il significato profondo della Vostra solidarietà.
Ciò che avete fatto oggi mi rende sempre più convinto ed orgoglioso di continuare a servire il mio Paese, cercando di indossare con dignità la stessa toga di chi ha sacrificato perfino la sua vita per amore della GIUSTIZIA.
Palermo, 29 luglio 2013
Nino Di Matteo



Rocco Chinnici viene ucciso il 29 luglio 1983
la strage provocata dall'esplosione
Un auto imbottita di esplosivo viene piazzata in via Pipitone Federico a Palermo, dinanzi all'abitazione del giudice. Nell'attentato, oltre al giudice Chinnici muoiono Stefano Li Sacchi,  il portiere dello stabile   nel quale Rocco Chinnici abitava,  il maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi e l'appuntato Salvatore Bartolotta.
Col giudice Rocco Chinnici, Procuratore Capo della Procura di Palermo, era nettamente cambia to l'atteggiamento tenuto sino ad allora da larga parte dalla magistratura siciliana nei confronti di "cosa nostra". Con l'operato di Rocco Chinnici a Palermo, sembrano lontane le dichiarazioni ufficiali nei quali si affermava che la mafia non esiste, o era manifestazione quasi  "folcloristico " della cosiddetta sicilianità, oppure era una organizzazione criminale oramai in in via di estinzione.
L'efficacia del lavoro svolto attraverso la sua direzione è testimoniata da una dichiarazione dell'epoca dello stesso Rocco Chinnici: "Un mio orgoglio particolare è la dichiarazione degli americani secondo cui l'Ufficio Istruzione di Palermo è diventato il centro pilota della lotta antimafia, un  esempio per le altre magistrature".
Ma la risposta violenta di cosa nostra aveva già provocato le prime cosiddette "vittime eccellenti". 

A tale proposito così ebbe a dire Rocco Chinnici: "(...) anche se cammino con la scorta, so che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. per un magistrato come me è normale consdiderarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non mpedisce, nè a me nè ad altri giudici, d continuare a lavorare". 
Parole che sembrano una profezia: altri giudici, allora ancora sconosciuti avevano  iniziato davvero a lavorare insieme a Rocco Chinnici e ne avrebero portato avanti l'opera avviata nel segno dell'etica e dell'onestà professionale. Fra quei giudici, due giovani figure stavano allora emergendo: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino 

lunedì 29 luglio 2013

RITA ATRIA e "I ragazzi di Partanna". Meritano di essere raccontati e non ignoranti.

RITA ATRIA. TESTIMONE DI GIUSTIZIA.
 "LA VERITA' VIVE"


" A cosa è servito il sacrificio di Rita Atria?"
La domande  ci è stata rivolta da una studentessa del Liceo di Pineorlo "M. Curie" al temine di uno degli incontri che abbiamo avuto nello scorso anno scolastico. Negli occhi della ragazza che avevamo difronte un velo di tristezza dopo aver ascoltato la storia della ragazzina siciliana, diventata uno dei simboli più belli della lotta alle mafie. Il racconto della vita, le parole, di Rita Atria hanno sempre il medesimo, struggente, effetto: si crea un silenzio rispettoso, ci si trova immersi in un uno spazio sospeso, il respiro  di chi ascolta quasi trattenutoLa domanda quel giorno è venuta fuori, timorosa: " A cosa è servito il sacrificio di Rita Atria?"
Una delle tante, possibili, risposte l'hanno data quest'anno i "ragazzi di Partanna" e l'Associazione Antimafie "Rita Atria”, nei giorni della ventunesima commemorazione dell'anniversario di Rita. 
Nel nome di Rita Atria, e anche per noi del presidio Libera "Rita Atria " Pinerolo, opporsi alle mafie significa opporsi - ovunque- a quello "(...)che limita il territorio, che lo controlla, che lo occupa, che lo stupra, che condiziona l'economia e uccide le speranze e i sogni delle nuove generazioni."

Fonte:  ritaatria.it - 29 luglio 2013

Rita Atria era una ragazzina di Partanna, si era messa in testa di denunciare la mafia e quindi la sua famiglia di provenienza. Nel suo diario scriveva cose “strane”… come “vorrei essere amata per quello che sono”… “la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci”… Si era affidata allo zio Paolo ma poi, dopo quel maledetto 19 luglio 1992, nel suo diario scriveva “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.Tutti hanno paura ma io l'unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. ...
Per 19 anni la stampa ha evidenziato il fatto che nessun giovane di Partanna aveva avuto il coraggio di ricordare Rita e che le manifestazioni le organizzavano quelli di fuori. Era una notizia!
Ma l’anno scorso, in occasione del ventennale dalla morte di Rita la NON notizia è scomparsa perché difficilmente qualcuno può oggi affermare che a Partanna ai giovani non importa niente di Rita Atria.
Era una gran bella notizia quella di un gruppo di giovani che si costituiscono in un presidio dell’associazione dedicata a Rita. Una scelta forte, coraggiosa, determinata in un paese che vede ancora la presenza di molti dei protagonisti politici e non solo di quella stagione.
Durante l’inverno i ragazzi del presidio di Partanna hanno organizzato eventi nelle scuole, faticato ritagliando spazio e tempo tra esami all’università, tra problemi di lavoro (che non si trova), e le difficoltà quotidiane. Il 26 luglio di quest’anno sempre quei ragazzi di Partanna hanno coinvolto altri ragazzi di Partanna (quelli conosciuti nelle scuole) e insieme hanno messo su una intera giornata dedicata a Rita. Persino un gruppo musicale che ha cantato e suonato con le magliette dell’associazione antimafie “Rita Atria”. Quei ragazzi di Partanna hanno poi ritenuto che le parole di Rita dovessero avere un senso e allora davanti alla sua tomba hanno portato il senso della lotta. Hanno portato le parole di Rita sulla necessità di cambiare, di non arrendersi; hanno portato sulla tomba il motto dell’associazione sintetizzato brillantemente dal nostro Mario Ciancarella: la Memoria Attiva.
I ragazzi di Partanna in piazza hanno portato i giornalisti antimafia. Quelli seri, quelli che rischiano e non hanno la scorta, quelli che scrivono senza pensare al padrone che li paga…. Perché non li paga nessuno per scrivere di mafia, di militarismo, di massonerie deviate e di Stato parallelo. Giornalisti che hanno fatto Memoria attiva ricordando cosa denunciava Rita e ricordando che la Memoria Vera non può accettare il revisionismo storico e una finta riconciliazione cristiana.
Allora, come di incanto, i ragazzi di Partanna non fanno più notizia. Perché adesso i ragazzi ci sono. Fanno una antimafia seria, documentata, senza se e senza ma. Senza cerchiobbottismi e senza opportunismi. Insomma credo di non esagerare se immagino Rita a giocare con loro a biliardino o a cantare con loro le canzoni dei giovani.
I ragazzi di Partanna il 26 luglio 2013 hanno portato Niscemi in piazza (la lotta dei ragazzi di Niscemi contro il MUOS)… hanno portato la vera lotta alla mafia. Alla mafia che limita il territorio, che lo controlla, che lo occupa, che lo stupra, che condiziona l'economia e uccide le speranze e i sogni delle nuove generazioni.
I ragazzi di Partanna meritano di essere raccontati e non ignoranti. Chi “dimentica”, chi “omette”, chi non racconta non lo fa per caso ma per calcolo… e allora mi viene da dire che i ragazzi di Partanna sono sulla buona strada... nel nome di Rita!
E allora… cara Italia, a Partanna è nata Rita Atria. 
Oggi, a Partanna ci sono ragazze e ragazzi che hanno capito cosa voleva dire Rita nel suo diario. Hanno capito cosa significa “vince chi è più bravo a truffare la vita…”. Hanno capito l’amarezza di Rita… perché, diciamocelo, se Rita fosse viva sarebbe una NON notizia e non esisterebbe per la grande stampa e forse neanche per l’antimafia… perché la vera notizia per gli scrivani del potere è quella che non si deve dare.
Cara Italia, ti comunico che a Partanna ci sono giovani che nel nome di Rita fanno antimafia. L’antimafia senza se e senza ma... a Partanna c’è l’antimafia che, nel nome di Rita, NON MOLLA!

A nome del direttivo dell'Associazione Antimafie "Rita Atria”,  Nadia Furnari

sabato 27 luglio 2013

Fare memoria. Strage di Via Palestro a Milano. 27 luglio 1993

Fare memoria. La strage di Via Palestro a Milano. La notte del 27 luglio 1993 una bomba viene fatta esplodere. 
Muoiono i vigili del fuoco Carlo Lacatena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, il vigile urbano Alessandro Ferrari e Driss Moussafir, un immigrato che dormiva su una panchina. L'ennesima strage italiana, ancora ignoti e nascosti i mandanti.
L'ennesimo scempio di vite umane, l'ennesimo scempio di giustizia.

Fonte: LA Repubblica

Via Palestro, la notte dell'orrore.
E dopo vent'anni nessuna verità

Il 27 luglio del 1993 a Milano l'attentato in cui persero la vita i vigili del fuoco Carlo Lacatena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, il vigile Alessandro Ferrari e Driss Moussafir, un immigrato che dormiva su una panchina. Dicono che su quella strage è sceso l'oblio: purtroppo no, è scesa la confusione all'italiana



Faceva caldo, quel luglio. E faceva 'caldo' in tutti i sensi. Gabriele Cagliari e Raul Gardini morti entrambi, uno in carcere, l’altro a casa sua. Cancellati i protagonisti dello scandalo Montedison, il boiardo pubblico e il 'pirata' del capitalismo privato. L’inchiesta Mani Pulite che procedeva con i suoi arresti, le confessioni a centinaia. E all’inizio dell’anno, a gennaio 1993, c’era stata la cattura, dopo una vita da latitante, di Totò Riina, grazie all’allora 'capitano Ultimo'. Il quale a Milano, anni prima, aveva messo in ginocchio un clan di Cosa Nostra con l’inchiesta Duomo connection, che era stata coordinata da Ilda Boccassini, che a sua volta era in Sicilia, a indagare sulle stragi dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulle autobombe scoppiate l’anno precedente a Capaci e in via D’Amelio.






Faceva


caldo, in tutti i sensi, quella notte di luglio, quando in molte case tremarono i vetri, gli allarmi suonarono, i telefoni squillarono, quando via Palestro diventò una torcia. Allora, a differenza di oggi, non c’era così tanto rispetto per qualsiasi luogo del crimine. Avevo lasciato la moto accanto al benzinaio dei Giardini e m’ero precipitato il più vicino possibile al riverbero, quando inciampai negli stivali di un pompiere morto. «Ma non vedi dove vai!», mi urlò un suo collega, ma no, in effetti, no: vedevo e non vedevo. Così come oggi: sono passati vent’anni, è un po’ come allora, vediamo e non vediamo, sappiamo e non sappiamo. L’hanno sottolineato anche i giudici di Firenze, che questa, di tutte le stragi di mafia di quel periodo, è la più «oscura». 



In quella sera afosa e puzzolente l’esplosione aveva trasformato la strada in un tappeto autunnale di foglie. Gli alberi spezzati e ardenti, non lontano dalla tubatura del gas che alimentava fiamme incessanti raccontavano che i morti — ci perdonino i loro familiari — avrebbero potuto essere di più, rispetto al cratere, ai muri diroccati, ai pezzi di motore dell’autobomba entrati nelle case intorno, sfondando tetti e finestre. Una strage feroce: ma l’ora dello scoppio — le 23.15 — era diventata da subito anche l’ora delle domande. Dopo la bomba di Firenze, piazzata il 27 maggio 1993 sotto la torre dei Georgofili, si diceva: «Toccherà a Milano, ci aspettiamo un attentato a Milano».



Un mese esatto, eccolo. Un’autopattuglia dei vigili, “Monza 3”, viene mandata a verificare la segnalazione di un cittadino, «fumo da una macchina». Il fumo c’è, si chiamano i vigili del fuoco da via Benedetto Marcello. Procedura standard e un camper di turisti tedeschi, genitori e tre figli, viene mandato via appena in tempo. Se i morti sono pochi, è perché quelli che sono morti si sono sacrificati per gli altri. «Via via!», «Una bomba!». Il terrorismo religioso si esercita nel nome di un molto presunto dio combattente. Il terrorismo politico quasi sempre si annuncia e si spiega con le rivendicazioni. Il terrorismo mafioso è il frutto guasto di anni guasti. C’erano le stragi mafiose (Portella della Ginestra), c’erano gli attentati mafiosi contro rappresentanti dello Stato e «nemici» vari, da Boris Giuliano a Rosario Livatino, dal procuratore Costa alla mattanza (1983) di via Federico Pipitone, in cui il vero padre del pool antimafia, Rocco Chinnici, due carabinieri e il portinaio dello stabile persero la vita. Ma sino alla stagione di Totò Riina non era dato per esistente il terrorismo mafioso. Nasce sotto Tangentopoli: non prima, e non ci sarà dopo.



Anche per questo la bomba di quel 1993 è come se non avesse mai finito di ammazzare. Quella notte, e così per gli anni successivi, quando qualche arresto c’è stato, quando gli ergastoli sono fioccati, aleggiava e resiste ancora la domanda «milanese» più ovvia: ma perché proprio davanti al padiglione d’arte contemporanea? Ma che c’entra? Chi l’ha suggerito, come obiettivo strategico? Faceva caldo anche il giorno dopo. Le fiamme erano spente, ma nell’odore di guerra e morte, era come se gli atomi di polvere non si fossero posati. Bisognava tornare a casa e cambiarsi la camicia. Bisognava lavarsi i capelli, bisognava cercare qualcuno con cui parlare della bomba mafiosa di Milano. Poi i funerali, le polemiche, le lacrime, i discorsi, nessuno memorabile. In compagnia di quei morti che non trovano pace, siamo arrivati a una piccola svolta due anni fa, appena due anni fa: Gaspare Spatuzza, ultimo pentito di mafia, ha detto che la bomba non sarebbe dovuta scoppiare in via Palestro, ma «sotto al palazzo dei giornali». Vero o falso non sappiamo, ma più logico sì: certamente più logico.



Roma, attentati ai monumenti sacri. Firenze, attentato alla città antica e turistica. Milano, attentato al mondo dei mass media. Milano fu l’ultima tappa. In effetti, lo stragismo mafioso s’è chiuso in via Palestro: quella sera afosa chissà se sono inciampato senza volerlo negli stivali di Carlo Lacatena, Stefano Picerno, Sergio Pasotto. Morti i tre pompieri, insieme con il vigile Alessandro Ferrari, il primo che ha bloccato via Palestro, che s’è sacrificato ed è stato portato via dall’onda d’urto per venticinque metri. Il corpo era finito nel parco, e là c’era pure Driss Moussafir, che aveva per letto una panchina. Molti dicono che su via Palestro «è sceso l’oblio»: magari lo fosse, non è così, è scesa la confusione. Quella confusione politica, giornalistica, mentale che tutto oscura: quella polvere italiana che non si posa mai e sa nascondere i nostri peggiori assassini.

venerdì 26 luglio 2013

RITA ATRIA. 26 LUGLIO 1992."LA VERITA' VIVE"

 RITA  ATRIA. TESTIMONE DI GIUSTIZIA

"LA VERITA' VIVE"



Rita Atria  è nata il  4 settembre 1974 a Partanna, in provincia di Trapani, figlia di Vito Atria, un boss della mafia locale. Rita ha solo 17 anni quando, dopo l’uccisione del padre e del fratello Nicola, nel novembre del 1991 decide di seguire l’esempio della cognata, Piera Aiello, denunciando i segreti che le erano stati confidati dallo stesso Nicola. 
Nasce così il particolare rapporto di fiducia col Procuratore della Repubblica di Marsala, il giudice Paolo Borsellino il quale, per Piera e Rita, diventerà lo “zio Paolo”. Sarà Paolo Borsellino a far trasferire Rita e Piera Aiello a Roma, sotto falsa identità, per meglio proteggerle dalla vendetta dalle cosche.
 Il giorno dopo la strage di via D'Amelio, Rita scrive nel suo diario nel diario le parole che costituiscono il suo testamento spirituale, parole che da allora -come abbiamo spesso detto- si impongono alla riflessione di ognuno:
  "(…)Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita …Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta.
Nonostante l'affetto e la vicinanza di Piera Aiello, con Paolo Borsellino muore anche “la speranza" del cambiamento possibile che Rita Atria aveva riposto nel giudice. "Un'altra delle mie stelle è volata via., me l'hanno strappata dal cuore". Queste sono le parole che Rita confiderà singhiozzando a Piera, dopo aver appreso della morte del giudice e degli agenti della sua scorta, le parole riportate dal Piera Aiello nel suo libro "Maledetta mafia"
Sabato 25 luglio 1992. Rita aveva deciso di restare a Roma e non seguire Piera che ha bisogno di andare in Sicilia: tornare per rivedere la madre e cercare di attenuare in qualche modo l'angoscia della morte dello "zio paolo". All'aereoporto, improvvisamente Rita dice a Piera:  "Io non parto". 
E' il pomeriggio del 26 luglio 1992, la domenica successiva alla strage di via D'Amelio. 
Rita è sola in casa, nell'appartamento di Roma,al settimo piano, nel quale vive "in segreto" insieme a Piera Aiello. Erano state rasferite là, in Via Amelia, subito dopo l'uccisione di Paolo Borsellino.
Via Amelia: quant' è simile quel nome a via Via D'Amelio
In quel pomeriggio forse Rita osserva la luce che le arriva dalla finestra; forse ascolta il silenzio e i rumori di Via Amelia in quelle calde ore d'estate. Ma quella luce e quei rumori per Rita non hanno più il colore della vita. 
Forse Rita si avvicina a piccoli passi alla finestra del suo appartamento, al settimo piano. 
E decide di lasciare a noi il ricordo della sua vita. 
E' il pomeriggio del 26 luglio 1992


Tema di maturità di Rita Atria ( 1992)

Titolo
"La morte del giudice Falcone ripropone in termini drammatici il problema della mafia. Il candidato esprima le sue idee sul fenomeno e sui possibili rimedi per eliminare tale piaga".


Svolgimento

"La morte di una qualsiasi altra persona sarebbe apparsa scontata davanti ai nostri occhi, saremmo rimasti quasi impassibili davanti a quel fenomeno naturale che è la morte del giudice Falcone, per chi aveva riposto in lui fiducia, speranza, la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto, era un esempio di grandissimo coraggio, un esempio da seguire. Con lui è morta l'immagine dell'uomo che combatteva con armi lecite contro chi ti colpisce alle spalle, ti pugnala e ne è fiero. Mi chiedo per quanto tempo ancora si parlerà della sua morte, forse un mese, un anno, ma in tutto questo tempo solo pochi avranno la forza di continuare a lottare. Giudici, magistrati, collaboratori della giustizia, pentiti di mafia, oggi più che mai hanno paura, perché sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno se parlano troppo potrà salvarli da qualcosa che chiamano mafia.
 Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un'immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare. Ascoltiamo, vediamo, facciamo ciò che ci comandano, alcuni per soldi, altri per paura, magari perché tuo padre volgarmente parlando è un boss e tu come lui sarai il capo di una grande organizzazione, il capo di uomini che basterà che tu schiocchi un dito e faranno ciò che vorrai.
Ti serviranno, ti aiuteranno a fare soldi senza tener conto di nulla e di niente, non esiste in loro cuore, e tanto meno anima. La loro vera madre è la mafia, un modo di essere comprensibile a pochi. Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c'e chi ha paura come Contorno, che accusa la giustizia di dargli poca protezione. Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per rassicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un'altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.

L'unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.
Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.
Rita Atria
Erice 5 giugno 1992

mercoledì 24 luglio 2013

Anche Don Ciotti si pronuncia sul testo dell'art. 416-ter: "Procacciamento?..."

Don Ciotti: "Procacciamento? Speriamo che ci sia al Senato lo scatto di unire le forze per modificare questa parola che aprirebbe ambiguità nell'applicazione della legge. Lotta alla mafia si fa in Parlamento". 
Altre voci si aggiungono ai timori espressi da Roberto Saviano, Raffaele Cantore, Rosaria Capacchione, Felice Casson, e provocati dalle anticipazioni del  testo di legge sull'art. 416-ter. 
Per completezza di informazione, riportiamo il commento di Giulio Cavalli, attore -ora anche consigliere regionale milanese- che vive da anni sotto-scorta per le ripetute minacce ricevute dalle  cosche.


Fonte: Blog di Giulio Cavalli

Esultare un po’ meno per il nuovo 416 ter contro il voto di scambio mafioso

Sento tutto intorno un certo fremito vittorioso per il nuovo testo sul voto di scambio politico mafioso. E’ vero che in questi anni tutti abbiamo contestato la vecchia norma del 1992 che prevedeva lo scambio di denaro per configurare il reato; consapevoli che difficilmente un politico offre denaro liquido per acquistare pacchetti di voti dalla criminalità organizzata quanto piuttosto una serie di regalìe attraverso appalti e consulenze (rimane la storica prestazione dell’Assessore della Regione Lombardia Zambetti che invece stabilì un prezzo per ogni voto, incapace com’era anche di fare il para-mafioso oltre che il buon politico).
Il superamento del solo elemento del denaro (in cambio dell’erogazione di denaro o di altra utilità, nel nuovo articolo di legge) è sicuramente un grande passo avanti ma lascerei perdere, per ora, le grandi manifestazioni di giubilo.
Hanno ragione i magistrati che si soffermano sull’avverbio “consapevolmente”:
Il perché è presto detto. Quel “consapevolmente” comporta che l’inchiesta giudiziaria debba dimostrare l’effettiva “consapevolezza” dello scambio. La parola “procacciare” sostituisce l’originaria “promessa” che rendeva assai meglio il momento iniziale dello scambio. Critico anche il riferimento alle modalità del 416-bis perché ciò comporta un’azione violenta che potrebbe non esserci. Infine la pena, quei 10 anni anziché i 12 del 416-bis, col rischio che processi in corso per reati associativi – come Cosentino, Ferraro e Fabozzi a Napoli – vedano gli avvocati chiedere la riqualificazione del reato con un ricasco negativo sulla prescrizione.
I boss non fanno mai (tranne in rarissimi casi) campagna elettorale in prima persona, ed è quasi impossibile dimostrare che un elettore si è venduto il voto o ha votato sotto pressione. I clan sanno benissimo che dimostrare un voto comprato, condizionato, scambiato è impresa quasi impossibile per gli inquirenti, i quali invece, grazie alle intercettazioni e alle dichiarazioni dei pentiti, spesso riescono a provare che un patto è stato realmente stipulato tra boss e politico. E questo è il punto attorno a cui deve fondarsi una norma antimafia sullo scambio dei voti.
Siccome si è  atteso oltre vent’anni per modificare la norma – ed è difficile che una legge approvata possa poi essere di nuovo a breve modificata – quello che tutti auspichiamo è che non un qualsiasi nuovo testo dell’art. 416 ter sia varato ma che quello che sarà scelto sia davvero in grado di bloccare il turpe mercato del voto mafioso.
Io esulterei un po’ meno, in modo più composto per un’opportunità che andrebbe colta. Mica moderata.

Davide Mattiello : " Stimati Roberto Saviano e Raffaele Cantone..."

Riportiamo quanto scrive Davide Mattiello (relatore per il PD sul 416 ter) in merito alle perplessità e preoccupazioni avanzate da Roberto Saviano e Raffaele Cantone circa il testo dell'art. 416-ter in via di approvazione al Senato. Gli  articoli di Saviano e Cantone sono riportati oggi dai quotidiani "La repubblica" e "Il Mattino".
Ci auguriamo davvero che i dubbi e le perplessità si rivelino infondati e che , come conclude Mattiello,  "(...) Il nuovo 416 ter sarà un buon grimaldello per fare del nostro Paese, un Paese libero dalle mafie...Da domani!" 
Oggi sappiamo che il nostro Paese così non è!

Fonte: Benvenuti in Italia

Davide Mattiello
Stimati Roberto Saviano e Raffaele Cantone,
La riforma del 416 ter oggi o al più tardi all'inizio della prossima settimana, dovrebbe essere approvata anche dal Senato e noi ci auguriamo che questo accada.
Ogni norma è il prodotto di un complesso negoziato politico.
La riforma del 416 ter non fa eccezione e quindi è benedetta ogni prudenza critica, che ci aiuti a precisare la volontà del legislatore.
Due sono i rilievi principali, raccolti in questi giorni.
La riformulazione del 416 ter, nella sua prima parte, rende la condotta penalmente rilevante di più difficile dimostrazione? In particolare spinge 'a valle' la condotta che integra la fattispecie, alludendo a comportamenti concreti e conseguenti, che attivano la forza intimidatrice della mafia e che come tali dovranno essere provati in processo?
No.
La condotta penalmente rilevante resta (!) l'accordo tra le parti, lo scambio di volontà tra il politico (o chi lo rappresenti) e il mafioso. Un accordo che si è voluto descrivere, rafforzando (forse anche in maniera ultronea sul piano della scienza giuridica) l'elemento della consapevolezza che deve stare nel politico (o chi per lui) di stare chiedendo alla mafia (nella persona di un suo esponente) di raccogliere i voti.
Conosco personalmente il testo di svariate intercettazioni telefoniche, che verrebbero proprio utili. Avessero anche ad oggetto quelle particolari 'elezioni' non coperte da tutela penale, perché considerate fatti privati, che sono le così dette primarie di partito...
Secondo rilievo: la riformulazione del 416 ter non coglierebbe la posta di sanzionare tra gli oggetti della 'contropartita' da parte del politico la promessa di essere nel futuro a disposizione dell'organizzazione mafiosa ovvero non colpirebbe normativamente l'origine del così detto concorso esterno. Reato fin qui di natura giurisprudenziale.
No.
La posta è invece colta.
Abbiamo voluto esplicitare nella relazione al testo che il verbo 'erogare' regge soltanto il termine 'denaro', non anche le parole 'altra utilità'. Quindi la seconda parte dell'articolo è da leggersi: 'in cambio dell'erogazione di denaro' o 'in cambio di altra utilità'. Ciò posto, abbiamo voluto precisare che in 'altra utilità' si dovrà intendere anche la disponibilità proiettata nel futuro a comportarsi in maniera funzionale agli interessi mafiosi. Per esempio portando in Giunta persona legata al clan? Si.

Ecco.
La riformulazione ha anche corretto uno storico errore di testo (relativo al riferimento al III Comma del 416 bis), ha proporzionato la pena, volutamente distinguendola da quella prevista dal 416 bis: altra traccia della volontà del legislatore di normare l'origine del concorso esterno.
Ha infine creato al secondo comma il 'reato fine' con il che il mafioso che si accordi col politico, sarà punito anche per questa specifica condotta oltre a rispondere per il 416 bis.
Insomma: tutto è migliorabile, ma non direi che il nuovo 416 ter sia inutile sul piano giuridico e che serva soltanto ad appuntare al petto di qualche politico una onorificenza vacua. Il nuovo 416 ter sarà un buon grimaldello per fare del nostro Paese, un Paese libero dalle mafie... Da domani!

 on. Davide Mattiello (relatore per il PD sul 416 ter

Caselli: “Mafie e politica, legami criminali”....e art.416-ter

Oggi il Senato si appresta ad approvare il testo dell'articolo 416-ter. Voluto e introdotto da Giovanni Falcone, l’articolo 416-bis -che punisce il “voto di scambio”- era stato in gran parte depotenziato dal legislatore, tanto da risultare praticamente inefficace al fine di spezzare il rapporto criminale fra mafia e politica.  
Preoccupazioni sulla stesura definitiva del testo erano state già espresse dal Procuratore di Torino Giancarlo Caselli in una intervista che riportiamo, e nella quale Caselli spiega la presenza e l'azione delle mafie al Nord. 
Su "La Repubblica"di oggi  pm e giornalisti esprimono perplessità sull’ultima versione del testo:  
"(...) Un avverbio di troppo, "consapevolmente". Una parola impropria, "procacciamento". (...) Quel "consapevolmente" comporta che l'inchiesta giudiziaria debba dimostrare l'effettiva "consapevolezza" dello scambio. La parola "procacciare" sostituisce l'originaria "promessa" che rendeva assai meglio il momento iniziale dello scambio. (...)".


Fonte: Micromega 15 luglio 2013

Caselli: “Mafie e politica, legami criminali”

Dalla sanità al commercio, dal turismo allo smaltimento rifiuti: le mani dei clan strangolano l’Italia. L’intreccio d’interessi della “borghesia mafiosa” è un sistema di potere oscuro, consolidato in 30 anni di esercizio, tanto al sud quanto al nord del Paese. Il procuratore capo di Torino interviene sulle relazioni pericolose di politici e imprenditori per compravendita di voti, appalti e riciclaggio.


di Rossella Guadagnini
La mafia? Non esiste. “Una bestemmia dura a morire che ha sostenuto, con diverse declinazioni, il patto di coabitazione di tutti i successivi contesti economici e istituzionali della nostra storia”. Parole che pesano, tanto più se a pronunciarle è il procuratore capo di Torino, Gian Carlo Caselli, in un’aula di tribunale. “Nessuna banda di gangster al mondo sopravvive oltre 40, 50 anni. Se le mafie infestano il nostro Paese vuol dire che sono anche altro”. 
E’ l’assunto della requisitoria al processo “Minotauro” contro le infiltrazioni della ’ndrangheta nel torinese, in corso nell’aula bunker del carcere delle Vallette. Le richieste di condanna sono di oltre 730 anni di carcere per 73 imputati, con una sola assoluzione. Un dibattimento destinato a lasciare il segno, come ha spiegato il pm Roberto Sparagna: "Nessuna sentenza, fino a oggi, ha dimostrato la presenza della 'ndrangheta in Piemonte".

L'indagine prima e il processo poi hanno messo in luce i confini dell'intreccio tra cosche e quella che è chiamata “borghesia mafiosa”, soffermandosi in particolare su affari e legami con le amministrazioni locali. Una disamina accurata di come funzionano i rapporti tra politica e 'ndrangheta laggiù al nord. Sono oltre 360 gli affiliati, secondo le stime della Procura, di importanza e peso diversi e di diverso colore politico. Un'ondata di piena, quella della malavita organizzata, che non ha incontrato resistenze. "Perché la magistratura è stata lasciata sola? – chiede il procuratore capo di Torino – Per ignoranza, miopia, impreparazione, sottovalutazione culturale oppure per un certo distacco snobistico del nord?". 

E prosegue il suo affondo contro quella parte di politici "negazionisti" che hanno dimostrato “scarsissima sensibilità” nei confronti del fenomeno mafioso, ramificato in tutta Italia. Tanto da non poter essere nemmeno più considerato “un’emergenza, ma una realtà consolidata in trent’anni di esercizio”, malgrado i campanelli d'allarme, a cui “pochissimi hanno dato retta, soprattutto tra uomini di partito e amministratori, ma anche nel mondo dell’informazione". Le cosche operano nella Penisola mantenendo stretti legami con i clan d'origine, uno sviluppo descritto come "gemmazione". Le organizzazioni criminali si sono infiltrate nei diversi livelli dello Stato. L'allarme lanciato dalla Procura torinese è difficile da ignorare: Torino come Catanzaro, il Piemonte che assomiglia molto da vicino alla Sila e all'Aspromonte. Com’è potuto succedere? 

Il 416 bis del codice penale per associazione mafiosa nel 1982: impossibile non sapere
C’era una volta il 416 bis del codice penale. Venne introdotto nel nostro ordinamento nel 1982 per sanzionare la mafia in quanto associazione, così da offrire uno strumento efficace di lotta. Prima di allora, pretendere di contrastare le cosche era – a detta di Giovanni Falcone – come “pretendere di fermare un carro-armato con una cerbottana”. L’associazione mafiosa consiste in un intreccio fra gangsterismo e “relazioni esterne”, spiega Caselli, un insieme di “coperture e complicità derivanti dal reticolo di interessi che i mafiosi sistematicamente cercano di tessere”. E’ la “vera spina dorsale del potere mafioso, che consente alla criminalità di gestire o controllare attività economiche, realizzare profitti o vantaggi ingiusti, influire sulle consultazioni elettorali”.

La presenza delle mafie oltre i confini del Mezzogiorno è nota a chiunque ne esamini anche solo superficialmente la storia. Risale sempre al 1982 l’intervista a Carlo Alberto dalla
Chiesa di Giorgio Bocca (la Repubblica, 10 agosto), in cui il generale – che sarebbe stato assassinato un mese dopo – sostiene: “La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi o commerciali e magari industriali. A me interessa conoscere questa ‘accumulazione primitiva’ del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte, che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi o ristoranti à la page. Ma ancor più mi interessa la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, imprese e commerci magari passati a mani insospettabili e corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere”. 

“Valutazioni – commenta Caselli – che oggi vanno moltiplicate per chissà quanto. E’ inspiegabile che ci si stupisca davanti all’espansione della mafia nel Nord Italia. C’è solo da prenderne atto e cercare di contrastarla con gli strumenti di cui disponiamo. Guai, insomma, a stupirsi se l’acqua bagna. Piuttosto bisogna attrezzarsi e aprire l’ombrello”. Proprio a Torino, esattamente 30 anni fa, il 26 giugno
Bruno Caccia
1983, la ‘ndrangheta uccise Bruno Caccia, procuratore capo della Repubblica
. Dal 1970 al 1983, nella provincia, ci sono stati 44 omicidi, con 24 assassinati di origine calabrese, tutti nel segno della criminalità organizzata. Il Piemonte, inoltre, vanta un altro primato negativo: il primo consiglio comunale sciolto per ‘ndrangheta a Bardonecchia, nel 1995. E’ dunque “impossibile non sapere”. Ciò malgrado, osserva il magistrato, “le porte per l’ingresso della ‘ndrangheta al nord sono rimaste spalancate. Di fatto, se n’è favorito l’insediamento”. 

Quando la mafia agisce in territori nuovi, non tradizionali, ha la capacità di mimetizzarsi, per non essere avvertita come pericolo presente”. Per decenni i mafiosi sono riusciti in tal modo a estendere la loro presenza criminale in aree ben più ampie del Mezzogiorno e per espandersi hanno usato laforza relazionale”, ossia la “costante ricerca di rapporti stretti con personaggi di rilievo in vari settori della pubblica amministrazione e della politica, del mondo degli affari e della finanza. Hanno esteso il riciclaggio (cioè l’avvelenamento sempre più profondo dell’economia) anche a nuovi territori, ulteriormente ampliando la propria area d’influenza”.

Le mafie nel Nord Italia rappresentano una presenza in costante crescita. La loro struttura è rigorosamente familiare e presenta difficoltà di penetrazione dall’esterno, credito sociale, assenza di pentiti: quei pochi che ci sono, sono soggetti ad attacchi d’ogni tipo”. Nessun reato che crei allarme sociale e faccia “scendere la gente in strada”. Tanta droga, spazio per tutti: marocchini, albanesi, slavi, sudamericani. Per non dare nell’occhio, la violenza è usata come ultima arma; vengono prima l’intimidazione, la suggestione, la pressione e la corruzione, metodi che consentono un’espansione invisibile e perciò indisturbata. Una situazione che richiede “una magistratura sempre più attrezzata professionalmente e sempre più indipendente, proprio quello che tanti non vogliono”.

La “zona grigia” dei fiancheggiatori rende difficile distinguere il bianco dal nero

Punto di forza e di espansione progressiva è la “zona grigia” delle organizzazioni, proprio perché non si vede e perciò è particolarmente pericolosa. Diviene “sempre più difficile distinguere il bianco dal nero”, prosegue Caselli, in quanto dilaga il grigio, formato “da fiancheggiatori più o meno consapevoli del reale profilo criminale dei loro interlocutori”. Per realizzare i loro affari, i mafiosi hanno bisogno “di esperti: ragionieri, commercialisti, immobiliaristi, operatori finanziari e bancari, notai, avvocati, politici, amministratori, uomini delle istituzioni (magistrati compresi, purtroppo): la cosiddetta borghesia mafiosa”. Si fanno così sempre “più fitti gli intrecci con pezzi del mondo politico e dei ‘colletti bianchi’”. I transiti di “denaro sporco” nell’economia legale sono più intensi. E se la competizione nel mondo dell’impresa è sempre più dura, “un aiutino per mettere un piede davanti alla concorrenza può essere ben gradito, anche a costo di ritrovarsi qualche socio poco raccomandabile”.
Non c’è dunque solo la componente del “gangsterismo, fatto di estorsioni, usura, droga, rifiuti, e caporalato. Ma anche quella delle relazioni esterne, in cui giocano un ruolo chiave coperture, collusioni, complicità, affari e interessi”. Tutto ciò fa della mafia quello che è: un esteso sistema di potere. Per affrontarlo, sottolinea il procuratore capo di Torino, “il magistrato deve indagare in tutti gli ambienti, su tutti gli intrecci. Se risultano ‘relazioni esterne’ ha l’obbligo di evidenziarle tutte, anche quando non presentino profili di rilevanza penale. Proprio la presenza di rapporti, la descrizione delle ramificazioni, di tutte le ramificazioni delle organizzazioni criminali nel territorio, sono un elemento essenziale per riconoscere le caratteristiche specifiche della mafia nell’estendersi all’interno di una società”. 

Per questo non è accettabile “la richiesta – rivolta spesso alle toghe – di indicare soltanto con molti omissis la rete di relazioni intrecciate dalla criminalità nel tessuto politico e sociale della comunità. Sarebbe un grave errore”, a detta di Caselli, in quanto “il silenzio si trasformerebbe in omertà e non contribuirebbe a bonificare il tessuto sociale”. Insomma, occorre uno sguardo d’insieme, capace di esplorare anche il lato nascosto del pianeta-mafia, quello fuori scena, tenuto sommerso, nascosto. Ricondurre “i frammenti in un quadro organico e non parcellizzato, consentendo così di decifrarli e capirli meglio, che è poi il metodo Falcone”.
Il dilagare del grigio – precisa ancora il procuratore capo – rende l’intervento della magistratura inquirente e giudicante molto difficile. Sempre più sfumata diventa la linea di demarcazione fra lecito ed illecito all’interno delle attività economiche, finanziarie, produttive. Sempre più impegnativo il compito della magistratura nel contrasto del crimine organizzato”. Per fare questo non bastano le toghe che perseguono i delitti, non bastano gli investigatori: “c’è bisogno che la classe politica e dirigente del Paese si schieri, operando nella medesima direzione per togliere spazi alla criminalità. 
La mafia c’è perché c’è mercato per i suoi servizi, ci sono tante persone che traggono vantaggi dalla sua esistenza che non hanno nessun interesse a denunziare nulla. Persone come politici e amministratori che la legge penale non può punire in quanto la loro colpa è l’opportunismo, una colpa che espone alla ricattabilità”.

Mafie e politica: ecco come funziona
Il dato emergente dai rapporti accertati tra esponenti della ‘ndrangheta e dell’apparato pubblico in Piemonte è che “l’appoggio fornito dai primi a ‘uomini delle istituzioni’ è comunque finalizzato a chiedere, in futuro, il conto di tale appoggio”. Ad esempio, a proposito di un incontro con un personaggio in vista, un indagato dice in un’intercettazione: “ve lo faccio incontrare... gli date una mano poi fate quello che volete a Castellamonte... Facciamo quello vogliamo compare ... facciamo quello che vogliamo”. 

Fino a qualche tempo fa – spiega Caselli – le mafie avvicinavano se non addirittura sottomettevano gli esponenti politici che potevano risultare preziosi per raggiungere certi obiettivi come appalti, traffici vari, speculazioni soprattutto immobiliari. Da qualche tempo, le mafie hanno ritenuto più conveniente inserire loro uomini direttamente negli organismi politici e amministrativi rilevanti per le loro attività criminali”. 
Il comportamento degli ‘ndranghetisti nella fase di scelta del partito da appoggiare in caso di votazioni, consiste di regola nel “non inserire mai nella discussione idee politiche o programmatiche proprie di uno degli schieramenti”. Quanto ai politici, viene invece adottato un atteggiamento di accettazione o rifiuto, a seconda del mero calcolo di interesse e peso numerico. “Nessuna traccia di una presa di posizione sul versante dei principi, ma uno sconfortante contesto di tolleranza. Per certuni può essere più semplice assicurarsi il sostegno della malavita, piuttosto che competere lealmente con gli avversari al momento delle elezioni. Ciò vale per qualunque confronto elettorale: europee, provinciali o comunali, non fa differenza”. 
Quando i collegi elettorali sono piccoli è più facile che una minoranza organizzata riesca a controllare un numero di elettori significativo, sufficiente per distorcere il processo democratico. L’inserimento negli organismi elettivi è già di per sé pericoloso e inquinante, ma produce a sua volta effetti perversi”, quali assunzioni clientelari, affidamento di lavori, forniture e servizi a imprese collegate. L’area della presenza mafiosa si allarga via via, fino a stravolgere il mercato del lavoro e quello degli appalti. “Così la ‘ndrangheta ha conquistato soggettività politica e ruolo imprenditoriale. Una nuova dimensione che bisogna essere capaci di cogliere nelle pieghe della società”. 

Gli investimenti delle cosche: sanità, turismo, distribuzione commerciale, smaltimento rifiuti 

Abbandonati i sequestri di persona, ma non i traffici di droga, la ‘ndrangheta – pur continuando a controllare l’intero ciclo dell’edilizia – ha investito nei settori più disparati: sanità, turismo, distribuzione commerciale, smaltimento rifiuti, oltre ad altri più tradizionali come gioco d’azzardo, traffico d’armi, controllo dei grandi flussi di denaro pubblico. Per fare tutto questo “ha bisogno di appoggi, nella politica e nell’amministrazione. Sa come cercarli e li trova. Un soggetto moderno, insomma, inserito progressivamente nei salotti buoni. E’ in questo modo che si fanno affari e si determinano le scelte sul territorio”. 
Significativi i termini in cui si esprime un indagato( intercettazione di Nevio Coral, ex sindaco di Leinì): “ (bisogna) far sì ché la gente dice: Ah, con te .... ma le strade si fanno... i lavori si fanno... gli appalti vanno avanti... l'università... le cose si fanno..; questo principio... puoi farlo su un gruppo che è fedele. Anzitutto prendiamo uno e (lo) mettiamo in Comune, l'altro lo mettiamo nel Consiglio, l'altro (lo) mettiamo in una Pro-loco e l'altro lo mettiamo in un'altra cosa, magari arriviamo che di lì... ci ritroviamo solo i nostri”. 
Facciamo squadra e controlliamo tutto”. E’ la moderna strategia degli uomini dei clan, un programma di occupazione del territorio, attuato grazie all’intreccio tra forza politica e forza intimidatrice della ’ndrangheta. Il lato oscuro del pianeta mafia è rappresentato da “un groviglio perverso di favori scambiati, interessi comuni, collusioni, coperture complicità – rammenta Caselli – ma chi paga il prezzo? Lo pagano i cittadini e i consumatori, in quanto abbiamo organismi elettivi disonesti, la regolarità mercati viene stravolta, oltre a dover vivere in un ambiente pervaso di corruzione e intimidazione fino alla violenza”.

La presenza dello Stato è indispensabile, ora in aula la discussione sul voto di scambio 

Il procuratore capo di Torino, infine, mette in guardia contro “il sentimento di distacco dallo Stato come strumento di regolamentazione della vita della Nazione”, dove trovano spazio “le mafie per sostituirsi allo Stato”. L’attuale grande crisi della liquidità economica permette al crimine organizzato “di entrare nei gangli della macchina economica. Manipolando e alterando la libera concorrenza, le mafie perseguono l’obiettivo di dimostrare agli imprenditori che stare con la mafia conviene”. Perché spesso si determina un regime di monopolio commerciale, con l’uso della forza e grazie all’azzeramento delle relazioni sindacali. Il ritorno “di una forte della presenza dello Stato, certo non con delega esclusiva alle Forze dell’Ordine e alla magistratura, è dunque auspicabile”, conclude Caselli. Auspicabile da subito e da subito necessario, si potrebbe aggiungere con un barlume di buon senso. 
Maria Carmela Lanzetta
Nei giorni scorsi, il sindaco del comune di Monasterace (Reggio Calabria), Maria Carmela Lanzetta, in una lettera alla presidente della Camera. Laura Boldrini, ha rassegnato le sue dimissioni: “Sono delusa dalla politica – scrive – da chi potrebbe fare molto e pensa solo alle strategie invece che ai problemi della gente. Non si può andare avanti così, schiacciati tra le parole vuote delle istituzioni e la ‘ndrangheta”. Occorrono azioni, non parole. Occorrono decisioni, leggi, gesti significativi.
Intanto, in Commissione Giustizia della Camera, ha fatto un primo passo in avanti la questione del voto di scambio tra politica e mafia, regolamentata dal 416 ter del codice penale, reato del ’92 uscito dalla penna di Falcone, ora ripensato con l’estensione della perseguibilità dello scambio elettorale politico-mafioso, non solo in quanto passaggio di denaro, ma anche di favori, incarichi, appalti e informazioni. Secondo il presidente di Libera, don Luigi Ciotti, l’accoglimento delle richieste dei 250 “braccialetti bianchi”, rappresentanti di forze politiche diverse, è una “risposta concreta alla domanda di giustizia e d’impegno della società civile contro la corruzione. Ma la strada è appena imboccata. Niente scherzi o giochetti nel voto a Montecitorio, al via da lunedì 15 luglio”.
Importante, infatti, è vigilare affinché nella discussione in aula l’impianto della norma non venga in tutti i modi ‘annacquato’ al fine di evitare che possa funzionare davvero. Sono state accolte anche le proposte riguardanti la modifica del 416 bis per disciplinare meglio il cosiddetto concorso esterno: si è approvato, infatti, il principio che punisce chi promette denaro e altra utilità e il mafioso in concorso con il politico, precisa il relatore Stefano Dambruoso. Ma sul tappeto ci sono anche altri temi sensibili: come mai, ad esempio, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, non ha ancora assegnato le deleghe al vice ministro Filippo Bubbico, in particolare quella che dà il controllo sulla commissione pentiti di mafia e testimoni? E, ancora, come mai rischia di non essere approvata entro agosto, secondo quanto stabilito, la legge istitutiva della commissione Antimafia con poteri più forti riguardo alla stragi politico-mafiose? 

Le cosche del nuovo millennio hanno cambiato aspetto: non hanno più il volto terribile dell’assassino, ma quello più rassicurante in apparenza, talvolta perfino ‘politicamente corretto’, dell’amministratore, dell’imprenditore, del politico di turno.Non si può governare innocentemente” ha detto Louis Antoine de Saint-Just, politico francese e rivoluzionario, nel processo contro Luigi XVI. Ed è vero. Ma non si può nemmeno governare barbaramente. A essere in gioco, a questo punto, è una questione di civiltà, oltre che di legalità.