giovedì 9 maggio 2024

Aldo Moro e Peppino Impastato uccisi nella stessa "notte buia dello stato italiano"

Una data lega l'assassinio di due uomini: Aldo Moro e Peppino Impastato: il primo ucciso per mano delle Brigate Rosse, il secondo ucciso da Cosa Nostra. 

Aldo Moro e Peppino Impastato uccisi nella stessa "notte buia dello stato italiano", alle prime ore del 9 maggio 1978.

E da tempo ripetiamo che In Italia la ragnatela del potere lega vicende  e trame di cui ancora oggi non siamo stati capaci di definire pienamente i contorni: morti innocenti, delitti oscuri, perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. Delitti e stragi commessi pensando che, in Italia, potesse servire spargere sangue innocente: per seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee e valori, per impedire o indirizzare cambiamenti. 
Oggi il "potere" ha imparato ad usare metodi differenti, più adatti al momento storico che viviamo, tanto che quotidianamente scopriamo che mafie e "pensiero mafioso", corruzione e mala-politica, sono fattori potenti e presenti come non mai, tanto da essere diventati "il cancro" che mina presente e futuro di questo Paese. 
Facciamo nostre le parole di Alessia Candido: "Peppino Impastato era un rivoluzionario, un militante, un comunista senza "se, ma, forse". Uno che aveva capito che combattere le mafie significa combattere il sistema economico, politico e di potere di cui sono architrave. Significa lottare contro le speculazioni edilizie, gli ostinati latifondi, contro le mega-opere inutili che a forza di varianti diventano sempiterni bancomat (...)"



"La mafia è una montagna di merda"
Non siamo in grado di parlare della figura di Aldo Moro e ce ne scusiamo. Quale potesse essere il contributo che come uomo, prima ancora che come statista, avrebbe potuto lasciare all'Italia, lo mostra la sua ultima lettera indirizzata alla moglie Noretta:
«Mia dolcissima Noretta, credo di essere giunto all’estremo delle mie possibilità e di essere sul punto di chiudere questa mia esperienza umana. Ho tentato di tutto.
Credo di tornare a voi in un’altra forma. Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo.
A Te devo dire grazie, infinite grazie, per tutto l’amore che mi hai dato.
Ricordati che sei stata la cosa più importante della mia vita.
Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. 
A ciascuno la mia immensa tenerezza che passa per le tue mani.
Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile.
Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo.
Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».

Qualcosa vorremmo dire invece di Peppino Impastato ."La mafia è una montagna di merda!" Sarebbe necessario trovare ancora oggi il coraggio di gridarlo a certe "facce", a chi si è abituato a quelle facce e al puzzo della "montagna di merda", al puzzo del compromesso morale, della convenienza , ai tanti misteri che soffocano la Giustizia di questo paese, misteri custoditi dal sigillo del Potere.
O ci basterà la vuota retorica della commemorazione, del ricordo? Ce la faremo bastare, quella retorica vuota, per giustificare la "legalità sostenibileche abbiamo costruita a nostra misura affinchè non ci faccia troppo male e non ci costringa troppo? Oppure cominceremo davvero a "fare memoria", ad avere il coraggio e la coerenza necessarie affinché le cose accadute non abbiano più a ripetersi, affinché si metta in atto l'insegnamento di coloro che, come in un triste rosario, continuiamo a snocciolarne nomi, date di nascita e di morte prematura?
Che non siano state morti inutili.

Due testimoniane a memoria di Peppino Impastato

Salvo Vitale, amico fraterno di Peppino Impastato (fonte Antimafiaduemila)"(...)sembra ieri. Che cosa rende Peppino sempre attuale e degno di interesse? Indubbiamente la sua giovane età: è morto a 30 anni e quindi non ha avuto il tempo di invecchiare o di lasciare invecchiare le sue idee e tutto ciò in cui credeva. Altro elemento che lo rende vivo e presente è la radicalità delle sue scelte, il rifiuto del compromesso, la scelta senza discussioni delle proprie idee come base per costruire una società nuova e quindi la contestazione delle strutture autoritarie della società borghese, dalla chiesa, alla famiglia, alla scuola, alle istituzioni in genere. E poi la sua attualità è nella scelta degli strumenti di comunicazione, ultimo dei quali la Radio. Peppino progettava un’informazione veramente libera, non soggetta a censure, formativa e informativa dove la notizia era la narrazione del vissuto che ci circonda, dei drammi quotidiani dell’esistenza e non le vicende dei personaggi importanti, l’ufficialità dell’avvenimento, l’informazione istituzionalizzata. Peppino era un giornalista purosangue, anche se non ha mai avuto il tesserino, anzi gli è stato dato ad honorem nel 1996, così come, sempre, nello stesso anno, la laurea. In questo contesto assume particolare importanza la satira e il dileggio di atteggiamenti, di idee, di manovre, di speculazioni, che “le persone che contano” ritengono intoccabili e sacrosante e di cui giornalmente si nutrono. In prima fila, tra queste persone, mafiosi e politici, ma anche preti, medici, avvocati, affaristi, in pratica quella che una volta si definiva “classe dominante”.
Una delle canzoni da lui preferite era “Vecchia piccola borghesia”, di Claudio Lolli, “Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia, non so dirti se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia”. Dall’altro lato della barricata c’erano le persone più deboli e indifese, i lavoratori, gli edili, i contadini di Punta Raisi, gli stagionali di Città del mare, i disoccupati, i pescatori di Terrasini, coloro a cui Peppino aveva dedicato la vita e per i quali sognava di costruire una società diversa, dove tutti fossero uguali e senza privilegi. 
E’ chiaro che una persona del genere che voleva cambiare il contesto sociale in cui era nato e che tutti invece accettavano, non poteva che essere considerata scomoda e, alla fine, la sua morte ha rappresentato una sorta di liberazione. Ma naturalmente resta il fascino delle sue idee, ed è per questo che ogni anno ci si ricorda del suo barbaro omicidio, del tentativo di depistaggio che voleva farlo passare per un attentato terroristico, dell’impegno della famiglia e dei compagni per ottenere giustizia e verità e della lunga strada durata 22 anni, prima di riuscirci. 
Nel vuoto culturale che ci circonda Peppino è sempre un punto di riferimento".

Alessia Candito, giornalista de La Repubblica: "Peppino Impastato era un rivoluzionario, un militante, un comunista senza "se, ma, forse". Uno che aveva capito che combattere le mafie significa combattere il sistema economico, politico e di potere di cui sono architrave. Significa lottare contro le speculazioni edilizie, gli ostinati latifondi, contro le mega-opere inutili che a forza di varianti diventano sempiterni bancomat come la terza pista dell’aeroporto di Cinisi, contro gli impasti massonico-mafiosi che permettono il perpetuarsi del sistema. Peppino era uno che aveva capito che la lotta alla mafia è lotta per i diritti di tutti contro i privilegi di pochi, per questo organizzava le lotte dei manovali contro i caporali, quelle dei braccianti e dei coloni contro il barone e padrone di turno.
Oggi i latifondi ci sono ancora, l'A3 è diventata A2 ma continua a far mangiare i clan, si torna a parlare di ponte sullo Stretto e Peppino Impastato è diventato "quello di Radio Aut".
La memoria o è vera, reale e completa o rimane esercizio buono per comodissime passerelle. "Cuntra mafia e putiri, c'è sulu rivoluzioni"

mercoledì 1 maggio 2024

Primo Maggio: Festa del Lavoro - Primo maggio 1947: Strage di Portella delle Ginestre.

Primo Maggio: Festa del Lavoro,  Primo maggio 1947: Strage di Portella delle Ginestre. 

Un filo rosso-sangue fa sì che in Italia ancora oggi sia forte il "ricatto del lavoro", tanto che c'è davvero poco da festeggiare e ancora tanto per cui dover lottare: per coloro che hanno perso il lavoro; per coloro che un lavoro non l'hanno mai avuto; per coloro che lavorano senza diritti; per coloro che sul lavoro perdono la vita. 


la stele che ricorda la strage di Portella delle Ginestre avvenuta il 1 maggio 1947
 


Il presidente Mattarella: "Mille morti sul lavoro in un anno rappresentano una tragedia inimmaginabile. Ciascuna di esse è inaccettabile.E' ben noto che il lavoro è una delle leve più importanti di progresso, di coesione sociale. Per le famiglie italiane ha c ostituito il vettore principale del miglioramento sociale nei decenni trascorsi". 

Nei primi quattro mesi del 2024 sono stati già più di 350 le vittime del Lavoro in Italia: uno scandalo che non provoca indignazione



La Strage di Portella della Ginestra, Primo maggio 1947, viene considerata la prima "strage di stato", l'inizio di quella che negli anni successivi verrà detta "strategia della tensione": spargere sangue innocente per impedire che le cose cambino, oppure per indirizzare il cambiamento nella direzione voluta da un potere oscuro e "mafioso". La connivenza, la complicità, fra mala-politica e mafie è poi un corollario drammatico, scandaloso, inequivocabile, provato. 
Scandaloso è vedere come alcuni comportamenti del "potere" sembrano ricalcare i principi del potere mafioso: così come i capi-mafia siciliani distribuivano  le terre ai contadini (non per merito bensì per "appartenenza,fedeltà o contiguità", per ricatto!) così il "potere" concede spesso il Lavoro: incarichi, nomine, accreditamenti, distribuiti secondo "familismi amorali" oppure a  premiare "indicibili meriti".  
Da principio fondamentale di una nazione, il Lavoro è diventato merce di scambio, regalia per compensare e premiare amici e servi del potere, costruendo nel contempo regole-norme a privilegiare i cosiddetti "poteri-forti": elemento chiave che ha reso possibile da un lato l'incremento delle diseguaglianze e dall'altro l'accumulazione di ricchezza nelle mani di "soliti noti": uno scambio che fortifica  "il ricatto del Lavoro".
Anche contro questo, contro il ricatto del lavoro, manifestavano i contadini di quel 1° maggio del 1947 a Portella della Ginestra.


Le parole di Serafino Pettasopravvissuto alla strage dei contadini di Portella della Ginestra, che fece 12 morti e 27 feriti.

«Ci eravamo dati appuntamento per festeggiare il Primo maggio ma anche l’avanzata della sinistra all’ultima tornata elettorale e per manifestare contro il latifondismo. Non era neanche arrivato l’oratore quando sentimmo degli spari. Avevo 16 anni, pensavo che fossero i petardi della festa, ma alla seconda raffica ho capito. Ho cominciato a cercare mio padre, non l’ho trovato. Quello che ho visto sono i corpi distesi per terra. I primi due erano di donne: la prima morta, sua figlia incinta ferita. Questa scena ce l’ho ancora oggi negli occhi, non la posso dimenticare». A sparare fu la banda di Salvatore Giuliano, «i mandanti non si conoscono ancora ma ad armare la sua mano furono la mafia, i politici e i grandi feudatari», spiega. «Volevano farci abbassare la testa perché lottavamo contro un sistema in cui poche persone possedevano migliaia di ettari di terra e vi facevano pascolare le pecore, mentre i contadini facevano la fame. Un mese dopo successe però una cosa importante: «Tornammo qua a commemorare i morti senza paura, “Non ci fermerete”, gridavamo tutti e non ci hanno fermati. Abbiamo cominciato la lotta per la riforma agraria e nel ‘52 abbiamo ottenuto 150 assegnatari di piccoli lotti. Ma neanche loro si sono fermati, e a giugno bruciarono sedi di Cgil e partito comunista, poi nel mirino finirono anche i sindacalisti».

mercoledì 24 aprile 2024

LIBERAZIONE è FRUTTO della RESISTENZA - "PER DIGNITA' NON PER ODIO"

  LIBERAZIONE è FRUTTO della RESISTENZA 

"PER DIGNITA' NON PER ODIO"

Piero Calamandrei: "(...) Vittoria contro noi stessi: aver ritrovato dentro noi stessi la dignità dell’uomo. Questo fu il significato morale della Resistenza: questa fu la fiamma miracolosa della Resistenza. Aver riscoperto la dignità dell’uomo, e la universale indivisibilità di essa: questa scoperta della indivisibilità della libertà e della pace, per cui la lotta di un popolo per la sua liberazione è insieme lotta per la liberazione di tutti i popoli dalla schiavitù del denaro e del terrore, questo sentimento della uguaglianza morale di ogni creatura umana, qualunque sia la sua nazione o la sua religione o il colore della sua pelle, questo è l’apporto più prezioso e più fecondo di cui ci ha arricchito la Resistenza. (...)".
(Ibrano è tratto da Passato e avvenire della Resistenza, discorso tenuto da Piero Calamandrei il 28 febbraio 1954 al Teatro Lirico di Milano, alla presenza di Ferruccio Parri.) 


Riportiamo il testo integrale del monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile che lo scrittore avrebbe dovuto leggere  nella trasmissione  “Che sarà” e censurato dai dirigenti Rai:

Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924.

Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.

Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.

In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.

Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati. Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. 

Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?

Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via. Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).

Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola, Antifascismo, non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana.”

Antonio Scurati


martedì 3 ottobre 2023

3 ottobe 2013 - la Strage e la "VERGOGNA": (...) Il mare era pieno, di ragazzi, di gente: le teste uscivano come se uscissero i pesci a mare...".

Fonte: AVVENIRE 3 ottobre 2023:  ll  3 ottobre 2013 morirono 368 persone. Oggi le commemorazioni, con studenti e rifugiati. Polemiche per l'assenza del governo. L'ex sindaca Nicolini: "Ha vinto l'indifferenza". L'ennesima vergogna!

"In tanti sono arrivati, questa mattina, alla Porta d'Europa, il luogo simbolo dell'isola di Lampedusa, nel decennale del drammatico naufragio che costò la vita a 368 persone. Ci sono centinaia di studenti giunti da tutta Italia e da vari Paesi, che ieri hanno dialogato con i sopravvissuti di quella tragedia. Molti di loro portano dei cartelli con impressi i numeri delle vittime del mare per ciascun giorno: 28mila circa in 10 anni secondo quanto affermano le organizzazioni internazionali. "Basta morti invisibili", si legge nello striscione che ha aperto il corteo. "Dieci anni di indifferenza", è scritto in alcuni striscioni. Due bambine hanno attraversato la Porta affacciata sul Mediterraneo e sull'Africa, con dei fiori in mano da gettare in acqua per le loro sorelline: sono le figlie di un medico sopravvissuto al naufragio avvenuto una settimana dopo quel 3 ottobre del 2013 e nel quale perse le sue quattro figlie. "Dopo dieci anni non è cambiato nulla ed è calata una coltre di indifferenza. Lo dimostra anche la circostanza che oggi, per la prima volta, a questa Giornata nazionale della memoria, non ci sia nessuno del governo" ha affermato l'ex sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini, alla guida del centro isolano nei giorni del naufragio(...)".

Puoi continuare a leggere qui l'articolo di AVVENIRE

Tratto da "COMITATO 3 OTTOBRE": "Il 3 ottobre 2013 un’imbarcazione carica di rifugiati in maggioranza eritrei affonda a mezzo miglio dalle coste di Lampedusa. La conta, alla fine è di 368 morti tra bambini, donne e uomini. I corpi delle vittime vengono recuperati tutti e per la prima volta nella storia dei naufragi del Mediterraneo, si mostrano al mondo in un drammatico grido di aiuto collettivo."

La testimonianza di coloro che quella notte sono stati i primi, improvvisati e casuali soccorritori di quelle persone, i naufraghi, di cui quella notte in cui era pieno: " (...) Il mare era pieno, di ragazzi, di gente: le teste uscivano come se uscissero i pesci a mare...". Con la loro barca, quella notte loro ne salveranno 47; 47 persone che erano come "pesci ammare", "pesci ammare" che non volevano morire inseguendo il sogno di poter costruire una nuova vita.

Nelle ore immediatamente successive al naufragio, i telegiornali italiani e mondiali saranno mostreranno immagini del recupero dei corpi dei naufraghi. Bambine e bambini, ragazze e ragazzi, uomini e donne a cui qualcuno appiccicherà l'etichetta di "clandestini" per cancellare la vergogna di popoli incapaci di cambiare situazioni, drammi, spesso provocate da fredde e squallide "politiche di conquista", culturale ed economica dell'Occidente.

Papa Francesco avrà il coraggio di pronunciare la parola VERGOGNA!: "Una sola parola: VERGOGNA!". Una vergogna indirizzata a tutti coloro che sono causa di questo dramma, un dramma che, lo sappiamo bene, continua e si perpetua giorno dopo giorno. VERGOGNIAMOCI!
Nei giorni successivi al naufragio le istituzioni italiane promisero che le vittime sarebbero state recuperate tutte e tutte avrebbero avuto funerali solenni. Anche questo non avvenne. E tanti di quei poveri corpi furono poi allontani da Lampedusa, anonimi e irriconosciuti, accolti da tanti cimiteri siciliani.
Il 16 marzo 2016 il Senato italiano ha approvato in via definitiva la legge che istituisce la Giornata della Memoria e dell’accoglienza, da celebrarsi il 3 ottobre. Durante questo giorno si ricorderanno tutti i migranti morti nel tentativo di fuggire da persecuzioni, guerre e miseria. Ma, soprattutto nelle scuole, in quel giorno si svolgeranno attività didattiche per approfondire e capire chi sono le persone che vengono dal mare. 


la Porta d'Europa
Oggi a Lampedusa si  svolgerà la celebrazione in memoria della strage del  3 ottobre 2013.  Aprendo la marcia che portava i partecipanti al monumento "Porta d'Europa",  l'allora presidente del Senato Piero Grasso nel 2017 ebbe a dire : "Forse non tutti in Italia ricordano l'articolo 10 della nostra Costituzione, quello che sancisce un diritto universale, il diritto d'asilo allo straniero al quale, nel suo paese, sia impedito l'esercizio della libertà. E allora non solo chi fugge dalla guerra, ma anche chi scappa dalla povertà, dalla fame, dalla violenza ha diritto d'asilo. Io oggi sono qui per ribadire la volontà delle istituzioni tutte ad andare avanti su questa strada. Per realizzare questo sogno dei nostri padri costituenti si deve camminare molto, sulle nostre e sulle vostre gambe".

Questo avevamo scritto nelle ore che seguirono quella strage di innocenti:


Viaggiano nel buio delle coscienze dell'occidente: "Vergogna"

Oggi -quando indosseranno le facce "pittate a lutto"- abbiano il coraggio di parlare di bambini, ragazzi, donne e uomini!...non di clandestini! 
Parlate  i bambini, ragazzi, donne e uomini che raccolgono le loro speranze per deporle su una barca che viaggia nel buio delle coscienze dell'occidente.
Vergogna!

alcune fotografie delle vittime della strage

domenica 3 settembre 2023

Il dovere della memoria: Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emmanuela Setti Carraro, Domenico Russo - 3 settembre 1982 - Palermo, Via Carini

"Cento giorni di solitudine". Cento giorni di solitudine bastarono ai poteri mafiosi ( e non solo mafiosi) per spegnere "la speranza" dei palermitani e degli italiani onesti. Cosi' venne ucciso il generale Dalla Chiesa, nominato prefetto di Palermo per sconfiggere la mafia. Carlo Alberto Dalla Chiesa fu in realtà la "vittima sacrificale": lasciato solo "...a Palermo, con i poteri del prefetto di Forlì". Così ebbe a dire lui stesso, con triste ironia, nella ultima intervista rilasciata a Giorgio Bocca il 10 agosto 1982 e che riportiamo qui

Fra altre cose, in quella intervista il generale dimostra di aver compreso già moltissime cose dell'evoluzione delle mafie e dei suoi legami col mondo imprenditoriale, oltreché politico:«(...) La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa "accumulazione primitiva" del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti à la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci, magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere (...)».

Per triste e oscena consuetudine nelle vicende di mafia, soprattutto quando riguardano "vittime eccellenti", a quarant'anni dalla strage ancora non conosciamo ufficialmente le "menti raffinatissime" che lasciarono morire il generale Dalla Chiesa, vittima predestinata di interessi concomitanti fra mala-politica e mafia

Dell'omicidio del generale Dalla Chiesa se ne occupò anche Giovanni Falcone nell'ambito delle vicende trattatenel Maxi-Processo. Riportiamo uno stralcio dall'ordinanza sentenza di rinvio a giudizio del maxi processo, CAPITOLO IV, L'OMICIDIO DEL PREFETTO DI PALERMO, CARLO ALBERTO DALLA CHIESA.
Il dott. Falcone e al punto 4. scrisse:
"(...) CARLO ALBERTO DALLA CHIESAdunque, aveva accettato la nomina a Prefetto di Palermo quasi a malincuore, solo per il suo straordinario "senso dello Stato" e ben consapevole delle difficolta' che lo attendevano. Aveva accettato anche per rimuovere "situazioni di stallo" da lui ritenute lesive dello stesso prestigio dell'Arma, senza nutrire illusioni sul consenso delle istituzioni alla sua futura attivita' antimafiaprevedendo anzi che sarebbe stato "buttato al vento" non appena "determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compressi". Ciononostante, si era buttato nella mischia con l'entusiasmo ed il coraggio di sempre e, soprattutto, con le idee ben chiare. Egli, infatti, sapeva benissimo che, per rimuovere le cause profonde del potere mafioso, occorreva recidere i legami fra la mafia ed alcuni membri di partiti politici che in Palermo convivevano "con l'espressione peggiore del suo attivismo mafioso". E, senza mezzi termini, aveva informato di questa sua intenzione autorevoli esponenti di partiti governativi e lo stesso Ministro dell'Interno."

Riproponiamo anche l'articolo scritto nel settembre 2012 da Francesco Licata per commemorare il trentennale della strage nella quale furono uccisi Carlo Alberto dalla Chiesa, Emmanuela Setti Carraro, e l’agente Domenico Russo. Sottolineiamo la conclusione dell'articolo:"(...) Fu solo mafia?(...) una coincidenza va sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le indagini: Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da una non frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo. La mafia siciliana ha ucciso (chissà perché?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale. Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri."

fonte: La Stampa

Carlo Alberto Dalla Chiesa,

quei cento giorni di solitudine


Il 3 settembre 1982 in via Isidoro Carini a Palermo vengono uccisi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emmanuela Setti Carraro. La loro A112 bianca venne crivellata di colpi di kalashnikov Ak-47

Trent’anni fa lo Stato lo lasciò solo, la mafia uccise lui e la moglie e l'agente di scorta

FRANCESCO LA LICATA
PALERMO
Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa venne assassinato in una calda serata sciroccosa. Erano passate da poco le 21 del 3 settembre 1982 e la A112 color crema, guidata dalla giovane moglie, Emmanuela Setti Carraro, imboccava la via Isidoro Carini, lasciandosi alle spalle Villa Whitaker - sede della Prefettura - diretta verso il refrigerio di un ristorante all’aperto del golfo di Mondello. Seguiva l’utilitaria l’agente Domenico Russo, alla guida dell’Alfa blu che il generale-prefetto non utilizzava, convinto che l’anonimato di una «normale macchinetta» offrisse maggiori garanzie di sicurezza dell’auto blu, immediatamente identificabile.
Precauzione inutile, perché la task-force messa in campo da Cosa nostra monitorava da diverse ore i movimenti del bersaglio e forse aveva potuto disporre anche della soffiata partita da Villa Whitaker, da qualcuno che controllava strettamente il generale.
Due macchine e due moto rasero al suolo la A112, senza risparmio di violenza e a nulla valse la protezione offerta ad Emmanuela dall’abbraccio coraggioso del marito. L’agente Russo fu finito dal killer più sanguinario di quel momento: Giuseppe Pino Greco, detto «Scarpuzzedda».
il cartello che qualcuno scrisse sul luogo della strage
I palermitani stavano a cena, davanti ai televisori. La notizia, tuttavia, non l’ebbero dai telegiornali perché arrivò prima il passaparola. Esplose così rapida da richiamare in pochi minuti una folla di gente in piedi, impietrita in un silenzio irreale, con gli occhi rossi di rabbia. Quando, ormai a notte fatta, fu smontata la scena e i fari, i lampeggiatori delle volanti, si spensero, rimase solo la fragile disperazione di una città, sintetizzata in un cartello che sentenziava: «Qui muore la speranza dei palermitani onesti».
Così fu spenta una luce che si era accesa appena cento giorni prima, sull’onda dell’ennesimo eccidio mafioso che aveva colpito il segretario regionale del Pci, Pio La Torre, abbattuto dalla mafia insieme con l’amico, compagno e scorta volontaria, il militante Rosario Di Salvo.
La speranza, per la verità, non era nata sotto i migliori auspici. Il generale era stato inviato a Palermo come un’arma spuntata: Roma non aveva voluto dargli gli stessi poteri che gli erano stati dati nella lotta al terrorismoPrefetto senza poteri speciali: un messaggio rassicurante per la palude palermitana, preoccupata per la presenza di un uomo deciso, carabiniere nel Dna, poco incline alle pantomime sicule dell’indignazione senza conseguenze.
E infatti la città gli dimostrò immediatamente tutta la propria avversione. La città del potere, ovviamente. Perché i cittadini, invece, riponevano molte aspettative sulle capacità del prefetto. Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo in incognito. Ignorò l’auto che l’aspettava in aeroporto, montò su un taxi ed arrivò in Prefettura «pieno» delle notizie e degli umori strappati al tassista loquace. Non si fidava, il generale, e con quella «presentazione» intendeva mettere subito le cose in chiaro.
Fu criticato, ovviamente, per quella scelta. Non gli furono risparmiate ironie e commenti, pesanti allusioni sulla differenza di età con la giovane seconda moglie: insomma tutto il repertorio della maldicenza e della mafiosità locale. Persino il sindaco, l’avvocato Nello Martellucci, uomo del gruppo di potere dominante (Lima, Ciancimino, Gioia), si rifiutò di portargli il saluto con la pretestuosa motivazione che doveva essere il generale a «presentarsi» al padrone di casa. E come lo sbeffeggiavano quando andava nelle scuole a parlare di legalità coi ragazzi o quando faceva sequestrare agli angoli delle strade il pane prodotto e venduto abusivamente
Solo Leonardo Sciascia capì il valore di quel gesto e spiegò che non si poteva battere la mafia fino a quando i mercati di Palermo sarebbero rimasti repubbliche indipendentiCome a dire c’è Cosa nostra ma anche qualcosa di più subdolo, per esempio la mafiosità.
La solitudine del generale, in quei cento giorni palermitani, è stata ricordata più volte dal figlio, Nando, che non ha mai modificato il suo giudizio duro sulla politica che isolò il padre (giudizio riproposto oggi a Luciano Mirone, autore di «A Palermo per morire»). E quando si parla dell’isolamento di Dalla Chiesa il discorso non può non cadere sul rapporto con Giulio Andreotti, a cui il generale, in partenza - «disarmato» per Palermo - anticipa che non avrà «nessun riguardo per la corrente Dc più inquinata» (quella di Salvo Lima, di Gioia, di Ciancimino e dei cugini Ignazio e Nino Salvo). Li conosceva bene, il prefetto, quei personaggi. Aveva redatto un rapporto destinato alla Commissione antimafia, quando era comandante della Legione a Palermo. Ma quell’analisi - ricorda il figlio Nando - era arrivata in Parlamento molto manipolata, addirittura coi nomi «sbianchettati».
Qual era lo stato d’animo del generale e della giovane moglie, pochi giorni prima dell’eccidio? Bastano le parole dette al telefono alla madre da Emmanuela: «Non posso venire a Milano, non voglio lasciare Carlo nemmeno per un momento, chi lo salverebbe? Siamo dimenticati, mamma, da chi ci dovrebbe tutelare». 
l'immagine dell'auto e dei corpi del  prefetto e di sua moglie
Gli assassini del generale, della moglie e dell’agente sono stati condannati. Ma si tratta dei macellai. Mancano le menti raffinatissime, per dirla con le parole di Giovanni Falcone
Chi ha tradito Dalla Chiesa? Quale conto hanno fatto pagare al generale sabaudo mandato nella terra degli infedeli? 
Persino la Chiesa siciliana, solitamente cauta, nel giorno dei funerali usò parole di fuoco e puntò il dito sul potere ignavo: «Mentre a Roma si discute sul da farsi, Sagunto viene espugnata», gridò il cardinal Pappalardo dal sagrato della basilica di San Domenico.
Fu solo mafia? Oppure il «conto» inglobava anche i segreti del sequestro Moro e di quel grumo conseguente, conosciuto alle cronache come l’affaire del giornalista Mino Pecorelli? Certo, dopo trent’anni è difficile andare a rovistare nei pozzi neri, forse andava fatto subito. Ma una coincidenza va sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le indagini: Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da una non frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo. La mafia siciliana ha ucciso (chissà perché?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale. 
Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri.

mercoledì 2 agosto 2023

2 AGOSTO 1980 - BOLOGNA - LA STRAGE (non solo) FASCISTA

 2 AGOSTO 1980. Il dovere della memoria. Ripetiamo quello che abbiamo già detto più volte: "Morti innocenti, delitti oscuri perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. E’ successo e forse potrebbe succedere ancora: delitti commessi pensando che, in Italia, potesse servire “a qualcosa e a qualcuno” spargere sangue innocente, seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee, valori".

Il presidente Mattarella ribadisce che si tratta di una «ferita indelebile e che la verità è un dovere che non si estingue. Sono venute alla luce coperture, una matrice neofascista accertata nei processi e ignobili depistaggi e la verità completa è un dovere, in gioco credibilità delle istituzioni."

 Il premier Meloni non ha partecipato alla commemorazione.



Anche per i morti, i feriti, gli offesi della strage di Bologna ancora si deve chiedere Giustizia e Verità
Anni fa Emiliano Liuzzi , il giornalista del Fatto Quotidiano scomparso nell' aprile 2016, aveva scritto parole dure (leggi qui), gettando una luce su coloro che, anch'esse vittime della Strage, sono stati dimenticati: I feriti, i feriti a morte: "(...) che sono rimasti nell’illusione che il sacrificio sotto a quelle macerie servisse come sacrificio, appunto. Come vergogna".
Purtroppo, se possibile, gli anniversari delle stragi che hanno insanguinato l'Italia diventano ogni anno ancora più dolorosi se pensiamo a quanto emerso, ad esempio,  dal processo "Borsellino Quater", processo nel quale si acclara la verità denunciata sin dall'inizio dalla famiglia Borsellino: anche Via d'Amelio fu una "strage di stato", commessa con la complicità e la collusione di "pezzi" dello Stato impegnati ad eliminare qualunque ostacolo si frapponesse alla "trattativa". Tanto da agire, quei pezzi dello Stato, affinché si mettesse in atto il più grande depistaggio della storia italiana. A nulla sono valsi sinora gli appelli "inusuali" a parlare, a rivelare quel che si sa, appelli rivolti non già a pentiti criminali, mafiosi, ma a uomini e donne delle istituzione che, pure a conoscenza di brandelli di verità, continuano a tacere, a non ricordare.
Non c'è il sentimento della vergogna in quei "pezzi" dello Stato Italiano che, a distanza di 41 anni, consente che anche la strage di Bologna rimanga ancora senza i colpevoli maggiori, i mandanti. Anche per la Strage di Bologna valgono le parole di Roberto Scarpinato"(...)La storia insegna che quando un segreto dura nel tempo, sebbene condiviso da decine e decine di persone,  è il segno che su quel segreto è imposto il sigillo del Potere”.
Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione dei famigliari delle vittimedal palco di piazza Medaglie d'Oro davanti alla stazione così si è espresso oggi: "C'è un filo nero che parte da Portella della Ginestra fino alle stragi del '92. Gli apparati dello Stato entrano in campo ogni volta a coprire le trame eversive e ci sono sentenze per ogni strage che lo confermano. E' un fatto appurato che l'estrema destra fu protetta dai servizi segreti. Fiumi di sangue in cambio di fiumi di denaro. Giuseppe Falcone lo aveva capito e il terrorista Valerio Fioravanti ha infangato la sua memoria anche nel corso del recente processo Cavallini. Il processo ai mandanti procede nell'indifferenza della stampa nazionale, come se fosse solo un fatto bolognese. Nel manifesto abbiamo scritto: svelare mandanti e depistatori,  le implicazioni che emergono dal processo ai mandanti sconvolgono, conoscere i retroscena di Bologna permetterà di capire altri fatti come.l'uccisione di Aldo Moro e di Piersanti Mattarella. Ancora oggi sono in tanti a fare di tutto per nascondere la verità. Se almeno la metà degli italiani conoscesse un quarto di quello che già è stato accertato saremmo una democrazia più vigile e matura".
Anche la strage di Bologna è strage che colpisce l'intera nazione: le vittime provenivano da cinquanta città diverse, trentatré vittime avevano tra i 18 e i 30 anni, sette vittime avevano un'età compresa tra i 3 e i 14 anni: La vittima più giovane è Angela Fresu, tre anni: la mamma, Maria Fresu si trovava nella sala della bomba con la figlioletti in braccio. Stavano partendo con due amiche per una breve vacanza sul lago di Garda. Il corpicino della piccola, la più giovane delle vittime, venne ritrovato subito. I resti del corpo della mamma non sono stati ancora riconosciuti.
Anche per la Strage di Bologna valgono le parole di Roberto Scarpinato: "(...) La storia insegna che quando un segreto dura nel tempo, sebbene condiviso da decine e decine di persone, è il segno che su quel segreto è imposto il sigillo del Potere”.






i familiari delle vittime  passano vicino all'autobus 37, 
simbolo della strage perché fu utilizzato per trasportare feriti in ospedale e poi i morti

fonte del testo
ASSOCIAZIONE TRA I FAMIGLIARI DELLE VITTIME DELLA STRAGE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA 2 AGOSTO 1980

Il 2 agosto 1980, alle ore 10,25una bomba esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. 
Lo scoppio fu violentissimo, provocò il crollo delle strutture sovrastanti le sale d'aspetto di prima e seconda classe dove si trovavano gli uffici dell'azienda di ristorazione Cigar e di circa 30 metri di pensilina. L'esplosione investì anche il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario.
Il soffio arroventato prodotto da una miscela di tritolo e T4 tranciò i destini di persone provenienti da 50 città diverse italiane e straniere.
Il bilancio finale fu di 85 morti e 200 feriti.(testimonianze di Biacchesi e da "Il giorno")
La violenza colpì alla cieca cancellando a casaccio vite, sogni, speranze.
 , 16 anni, venne ricoverata all'ospedale Maggiore, il corpo devastato dalle ustioni. Con la sorella Chiara, 15 anni, era in partenza per l'Inghilterra. Le avevano accompagnate il fratello Andrea e la madre Anna Maria Salvagnini. Il corpo di quest'ultima venne ritrovato dopo ore di scavo tra le macerie. Andrea e Chiara portano ancora sul corpo e nell'anima i segni dello scoppio. Marina morì dieci giorni dopo l'esplosione tra atroci sofferenze.
Angela Fresu, la vittima
più giovane  della strage
Maria Fresu si trovava nella sala della bomba con la figlia Angela di tre anni. Stavano partendo con due amiche per una breve vacanza sul lago di Garda. Il corpicino della piccola, la più giovane delle vittime, venne ritrovato subito. I resti del corpo della mamma non sono stati ancora riconosciuti.

Torquato Secci, impiegato alla Snia di Terni, venne allertato dalla telefonata di un amico del figlio Sergio, Ferruccio, che si trovava a Verona. Sergio lo aveva informato che a causa del ritardo del treno sul quale viaggiava, proveniente dalla Toscana, aveva perso una coincidenza a Bologna e aveva dovuto aspettare il treno successivo.
Poi non ne aveva più saputo nulla.
Solo il giorno successivo, telefonando all'Ufficio assistenza del Comune di Bologna, Secci scoprì che suo figlio era ricoverato al reparto Rianimazione dell'ospedale Maggiore.
"Mi venne incontro un giovane medico, che con molta calma cercò di prepararmi alla visione che da lì a poco mi avrebbe fatto inorridire", ha scritto Secci, "la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. Solo dopo un po' mi ripresi e riuscii a dire solo poche e incoraggianti parole accolte da Sergio con l'evidente, espressa consapevolezza di chi, purtroppo teme di non poter subire le conseguenze di tutte le menomazioni e lacerazioni che tanto erano evidenti sul suo corpo".
Nel 1981 Torquato Secci diventò presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage.
La città si trasformò in una gigantesca macchina di soccorso e assistenza per le vittime, i sopravvissuti e i loro parenti.
I vigili del fuoco dirottarono sulla stazione un autobus, il numero 37, che si trasformò in un carro funebre. E' lì che vennero deposti e coperti da lenzuola bianche i primi corpi estratti dalle macerie.
Alle 17,30, il presidente della Repubblica Sandro Pertini arrivò in elicottero all'aeroporto di Borgo Panigale e si precipitò all'ospedale Maggiore dove era stata allestita una delle tre camere mortuarie.
Per poche ore era circolata l'ipotesi che la strage fosse stata provocata dall'esplosione di una caldaia ma, quando il presidente arrivò a Bologna, era già stato trovato il cratere provocato da una bomba.
Incontrando i giornalisti Pertini non nascose lo sgomento: "Signori, non ho parole", siamo di fronte all'impresa più criminale che sia avvenuta in Italia".
Ancora prima dei funerali, fissati per il 6 agosto, si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città.
Il giorno fissato per la cerimonia funebre nella basilica di San Petronio, si mescolano in piazza rabbia e dolore. Solo 7 vittime ebbero il funerale di stato.
Il 17 agosto "l'Espresso" uscì con un numero speciale sulla strage. In copertina un quadro a cui Renato Guttuso diede lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: "Il sonno della ragione genera mostri". Guttuso ha solo aggiunto una data: 2 agosto 1980.
Cominciò una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana.

Una delle fotografie-simbolo della strage di Bologna: una donna che urla su una barella mentre la portano via dopo l’esplosione. La donna si chiama Marina Gamberini, l’unica sopravvissuta della Cigar, la tavola calda del piazzale Ovest,