"la Trattativa ci fu..."
"...Ma non fu reato!"
Sono passati
pochi giorni dalla pubblicazione delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo Trattativa Stato-mafia, sentenza emessa dalla Corte d’Appello nel settembre 2021 e che aveva
disposto, fra altri provvedimenti, l'assoluzione dell'ex senatore Marcello Dell'Utri (“per non aver commesso il fatto”), dell'ex capo del
Ros, il generale Mario Mori,
del generale Antonio Subranni e
dell'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato.
Con la sentenza di settembre 2021 la Corte
aveva ribaltato il giudizio in primo grado (maggio 2018) con .i erano stati
condannati a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, e a 12 anni Dell'Utri, Mori, Subranni e Cinà.
Ci permettiamo di scrivere che si rimane sconcertati dall'apprendere che lo Stato Italiano, per mezzo di alcuni suoi rappresentanti, possa "trattare con la mafia", con "pezzi" di essa, distinguendo fra una mafia stragista-cativa! ed una mafia "accettabile" con cui, conseguentemente, si potrebbe "scendere a patti". Pertanto, Paolo Borsellino è stato il "rompicoglioni" che si indigna dinanzi ad uno Stato che, in quel preciso momento, tratta con assassini e complici di coloro che hanno appena ucciso Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Di Cilo, Vito Schifani.
Quel che pare gravissimo, osceno, è che in quelle motivazioni si introduca il principio della "sostenibilità" di una trattativa ( il
principio del "fine che giustifica il mezzo "!) fra due entità che
invece devono essere, e rimanere, in perfetta e indissolubile alterità l'una rispetto
all'altra. Non solo: la "trattativa" fra pezzi dello Stato con "pezzi" di "cosa nostra esplicitamente riconosce ed eleva le mafie a interlocutori possibili di uno Stato democratico. Inaccettabile! Osceno!
Proviamo vergogna dinanzi alla memoria delle tante vittime innocenti, fedeli e integerrimi servitori dello Stato e della sua comunità, che hanno sacrificato la loro stessa vita in nome dello Stato italiano.
Di seguito il contributo offerto dai magistrati Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato
Intervista di Giuseppe Lo Bianco a Nino Di Matteo, magistrato, membro del Consiglio Superiore della Magistratura -7
agosto 2022
La
trattativa ci fu. Ma gli ufficiali dei carabinieri vengono assolti perché,
contattando Ciancimino, “non vollero rafforzare la minaccia mafiosa allo Stato
per strappare al Governo concessioni favorevoli agli interessi mafiosi, ma,
semmai avrebbero voluto tali concessioni come male e come mezzo necessario per
sventare una minaccia in atto’’. E fermare le stragi.
Dottor Di
Matteo, lei che idea s’è fatto?
Anche questa
corte ha ritenuto che la trattativa ci fu, fu iniziata da esponenti dello
Stato, fu accettata da Riina e si svolse a partire dalle settimane successive
alla strage di Capaci mentre era ancora caldo il sangue delle vittime. Con
buona pace di quanti lo definiscono un teorema o fantomatica trattativa. C’è
però un passaggio che mi lascia perplesso e mi suscita, anzi, preoccupazione.
Quale?
Quello in cui si afferma che la trattativa era volta
ad un fine di tutela dello Stato. Nella
sentenza ormai definitiva della corte di assise di Firenze si affermava che
quella iniziativa del Ros di contattare Vito Ciancimino avesse rafforzato in
Riina il convincimento che la strategia di attacco alle istituzioni pagasse
inducendolo a fare altre stragi. Mi chiedo
con preoccupazione cosa penserebbero oggi di quelle parole le decine di
esponenti delle istituzioni, non solo magistrati, ma agenti di polizia,
carabinieri, anche politici che nel
contrasto alle cosche mafiose per il rifiuto al dialogo e al compromesso hanno
perso la vita.
Cosa teme in
particolare?
Temo che la
sentenza possa essere letta come una legittimazione a dialogare con la mafia,
che faccia passare l’idea che con la mafia si può convivere. Spero che non
abbia effetti, noi continueremo a pretendere che gli estorti denuncino i loro
estorsori, io continuo a pensare che il comportamento di uno Stato che cerca
Riina in nome di una ragione di stato non dichiarata con un atto del potere
politico è inaccettabile in una democrazia. Ogni qualvolta lo Stato ha cercato
il dialogo con la mafia ne ha accresciuto a dismisura un potere di ricatto
notevolissimo. E c’è anche un altro passaggio che leggo con preoccupazione.
Prego.
L’opportunità, nella strategia del Ros, che prevalesse
una fazione moderata su quella stragista. Questo è un passaggio preoccupante, sembra
quasi distinguere una mafia con cui si può dialogare e un’altra da sconfiggere.
Anche questo concetto rischia di sdoganare il principio che lo Stato può
dialogare con la mafia. Sul Ros la Corte ha riconosciuto che la mancata
perquisizione del covo di Riina il 15 gennaio 1993 è stato un segnale di
incoraggiamento al dialogo per rafforzare il dialogo. È quello che abbiamo sostenuto noi in primo grado. Oggi la sentenza
sottolinea la gravità evidente dell’omissione di un atto doveroso da parte di
una struttura di polizia giudiziaria.
La sentenza
conferma che tre governi – Amato, Ciampi e Berlusconi – vennero ricattati dalla
mafia. Anche se nell’ultimo caso non c’è prova che fu il senatore Dell’Utri a
veicolare la minaccia. Lei che ne pensa?
È un
problema di valutazione della prova. Anche questa corte riconosce la valenza
dei rapporti mafiosi di Dell’Utri anche dopo il ’92, lo assolve perché non
ritiene sufficientemente provata la veicolazione a Berlusconi.
E cosa
intende rispondere oggi a quanti negli anni hanno ridicolizzato la vostra
inchiesta e il processo definendolo una ‘’boiata pazzesca’’?
Spero che
storici e opinionisti abbiano oggi la correttezza di dire che la trattativa ci
fu. Sono fiero di avere contribuito con gli altri colleghi a far venire fuori
fatti e circostanze che sono stati ritenuti provati e che hanno attraversato la
storia d’Italia nel periodo più buio dello stragismo mafioso.
Roberto Scarpinato: TRATTATIVA:
PRESTIGIATORI DI SENTENZE E GATTOPARDI CHE TO- RNANO (Fatto Quotidiano 9 agosto 2022)
"La Corte di
Assise di Appello del processo “trattativa Stato-mafia” ha ritenuto provata la
condotta materiale del reato contestato agli imputati Mori e De Donno, essendo
state accertate le plurime condotte da essi poste in essere nel tempo in
violazione di tutte le regole di legge, per ripristinare con la componente più
“moderata” di Cosa Nostra, capeggiata da Provenzano, il patto di coesistenza
pacifica con lo Stato che aveva caratterizzato tutta la storia della prima
Repubblica e che i vertici mafiosi ritennero tradito con le condanne definitive
del maxiprocesso. Tuttavia la Corte non ha ritenuto sussistente la componente
soggettiva del reato, cioè il dolo, perché tali condotte sarebbero state
motivate da intenti “solidaristici”, cioè dall’intento di evitare ulteriori
stragi. Ciò sebbene le condotte degli imputati abbiano di fatto sortito
(com’era ampiamente prevedibile) l’effetto opposto di rafforzare la
determinazione della mafia di compiere ulteriori stragi, quali quelle del 1993,
per concludere la trattativa. E ciò nonostante tali condotte abbiano di
fatto consentito il prolungamento per tanti anni della latitanza e quindi
dell’attività criminale di Provenzano.
Nel condividere la preoccupazione di chi, come il collega
Di Matteo, ha già osservato come tale motivazione si presti ad esser letta come
una legittimazione e un viatico a dialogare con la mafia, a “conviverci” purché
e affinché moderi la sua aggressività rendendosi silente, vorrei focalizzare un
altro aspetto rilevante della sentenza: la parte sui possibili motivi che
determinarono Riina ad anticipare e accelerare l’uccisione di Borsellino.
Nell’affrontare tale delicatissimo tema, inspiegabilmente nelle 2971 pagine della motivazione, la
Corte non spende un solo rigo sulla sottrazione dell’agenda rossa da uomini
degli apparati istituzionali; sulla forzata induzione di Scarantino a
rendere false dichiarazioni; sulla presenza, rivelata da Spatuzza, di un
soggetto esterno a Cosa Nostra nel momento cruciale del caricamento
dell’esplosivo nella Fiat 126; sugli “infiltrati della Polizia” dei quali
Franca Castellese il 14 dicembre ‘93 implorò il marito Mario Santo Di Matteo di
non fare menzione ai magistrati, dopo che a seguito della sua collaborazione
con la giustizia era stato rapito il loro figlio Giuseppe; sulle accertate e
vive preoccupazioni di Borsellino nei confronti degli uomini del Sisde;
sull’omicidio ordinato da Riina negli stessi giorni della strage del capomafia
di Alcamo Vicenzo Milazzo, che si era rifiutato di unirsi alla strategia
stragista, declinando per tre volte le sollecitazioni ricevute da uomini dei
servizi segreti con cui si era incontrato alla presenza di un colletto bianco
che è stato identificato.
È evidente che
facendo sparire tutto questo e molto altro dal contesto argomentativo, viene
preclusa in radice qualsiasi possibilità di ricostruire i motivi
dell’accelerazione della strage che chiamano in causa apparati deviati dello
Stato; e si elimina nel lettore la
consapevolezza di elementi essenziali che contraddicono la tesi a cui perviene
così quasi per default la Corte in esito a questo gioco di prestidigitazione
probatoria per sottrazione. Tesi che può riassumersi nei seguenti termini:
dovendosi escludere che l’accelerazione fu determinata dal pericolo che Borsellino
ostacolasse il buon esito delle trattativa, resta come unica residuale
alternativa l’interesse di Borsellino sul tema
mafia-appalti.
Nel
ridurre la vicenda stragista di via D’Amelio nel letto di Procuste di
contingenti interessi economici di Riina e di qualche colletto bianco, la Corte
disattende così implicitamente possibili complicità di esponenti dello Stato. I
gravissimi fatti sopra accennati, dei quali la Corte non fa alcuna menzione, e
i plurimi e complessi interventi depistatori di vari esponenti di apparati
statali sino a epoca molto recente sono assolutamente incompatibili con
l’ipotesi riduzionista prospettata dalla Corte. E attestano che vi erano
ben altri scheletri che rischiavano di uscire dall’armadio se Borsellino fosse
rimasto in vita e avesse potuto trasfondere in atti giudiziari l’esito delle
sue indagini sui responsabili e le complesse causali della strage di
Capaci.
Scheletri che spiegano perché gli interventi di soggetti
esterni attraversino ininterrottamente tutta la sequenza stragista, da Capaci
nel maggio ‘92 alle stragi del ‘93 nel continente, come emerge da una pluralità
di elementi probatori e come relazionò la Dia già nel ‘93 con un’informativa in
cui si comunicava che: dietro le stragi si muoveva una “aggregazione orizzontale,
in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari
perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono
finalità diverse”; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti dotate di
“dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e i meccanismi della
comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della
politica e di interpretarne i segnali”. Scheletri che spiegano anche il
perfetto sincronismo operativo tra i mafiosi che fanno esplodere l’autobomba e
l’immediata apparizione sulla scena di appartenenti agli apparati istituzionali
che, grazie alla loro insospettabilità, possono far sparire l’agenda rossa
completando l’opera. Non bastava
uccidere Borsellino: se la sua agenda rossa fosse finita nelle mani dei
magistrati, lo scopo della sua repentina eliminazione sarebbe stato
frustrato. Ed è evidente che l’agenda rossa non fu sottratta per
tutelare i mafiosi esecutori della strage, ma i loro compici eccellenti.
Né la Corte si chiede perché proprio la Dia, l’organismo di
polizia interforze specializzato in materia di mafia, creato su impulso
decisivo di Falcone e diretto da De Gennaro amico di Falcone e Borsellino che
con lui si confidavano, fu inopinatamente esclusa dalla Procura di
Caltanissetta dalle indagini sulla strage, privilegiando invece con un colpo di
mano il Sisde di Bruno Contrada e Arnaldo La Barbera, altro soggetto collegato
al Sisde, con i noti esiti che portavano in una direzione completamente diversa.
Bisognerebbe anche chiedersi perché alcuni magistrati che più si sono spesi per
dimostrare la compartecipazione di soggetti esterni alle stragi del 1992-’93
siano stati accomunati dallo stesso destino: ostracizzati ed emarginati in vari
modi, taluni persino sottoposti a inchieste disciplinari e financo penali,
altri nel mirino di prolungate campagne di delegittimazione.
Vari indizi
inducono a ritenere che purtroppo le stragi del 1992-’93 non sono eventi
conclusi, ma sono ancora tra noi, perché accanto a un dibattito pubblico e a
una dialettica giudiziaria in cui continuano democraticamente a confrontarsi
opinioni diverse, non sono mai cessate
dietro le quinte occulte manovre per chiudere definitivamente questa spinosa
partita, riducendo una volta per tutte le responsabilità e le causali
esclusivamente a personaggi come Riina e sodali, elevati a icone totalizzanti
del male di mafia.
Non mi sembra – malgrado l’impegno profuso da taluni
magistrati – che esistano le condizioni sociopolitiche per un salto di qualità
complessivo delle indagini che consenta di pervenire a una verità giudiziaria
completa. È in corso una inquietante accelerazione del processo di
normalizzazione e di restaurazione culturale di cui si colgono tanti segnali.
Nella patria del
Gattopardo, il passato rilegittimato e giustificato di convivenza tra Stato e
mafia, di segrete transazioni tra Stato legalitario e Stato occulto, di
rimozioni e amnistia permanente tramite amnesia collettiva torna a essere la
cifra del presente e del futuro. Ritornano
in campo da protagonisti della politica personaggi condannati per collusione
con la mafia; si celebra nelle aule del Senato la memoria di vertici dei
servizi segreti – come il generale Gianadelio Maletti – condannati per
depistaggio su Piazza Fontana; si
normalizza la cultura dell’omertà giustificando come motivazione eticamente
condivisibile la scelta dei mafiosi stragisti irriducibili di non collaborare
con lo Stato, autorizzando con la riforma dell’ergastolo ostativo la loro
uscita dal carcere anche in assenza di collaborazione, solo a condizione che
provino di aver deposto le armi ed essersi dissociati definitivamente dalla
mafia; si approvano a ripetizione leggi che riportano indietro l’orologio della
storia ai tempi del primo 900, ripristinando il trionfo della gerarchia nella
magistratura. Leggi che creano una magistratura alta e una bassa ed
esaltano la figura di dirigenti soprastanti con il compito di garantire che i
magistrati sottordinati smaltiscano rapidamente il più elevato numero di
processetti e non sprechino risorse e tempo per indagini complesse ad alto
rischio e di esito incerto, come quelle sulla criminalità dei colletti bianchi
e del potere. Oggi come ieri, in un Paese segnato sin dalla nascita della
Repubblica da una sequenza ininterrotta di stragi e omicidi eccellenti senza
uguali in Europa, da patti occulti con la mafia e dalla corruzione sistemica –
tutte declinazioni della criminalità di settori portanti delle classi dirigenti
-, la "questione giustizia" resta inestricabilmente connessa alla questione
democratica e dello Stato.
Quale
Stato?
Quello dei
carabinieri che trattarono con la mafia o quello di Falcone e Borsellino? Lo
Stato che ha depistato tante indagini sulle stragi da Portella della Ginestra,
a Peteano, a Milano, a Brescia, a Bologna, sino a quelle del 1992-’93, o lo
Stato in cui si riconosce quella parte d’Italia che non vuole rassegnarsi a
convivere con i poteri criminali?
Questo è stato in passato e resta per il futuro il nodo
politico cruciale del nostro Paese e una delle incognite più inquietanti del
futuro della nostra democrazia."