lunedì 29 agosto 2022

Libero Grassi: «Caro estorsore...non ti pago!»

 Libero Grassi, imprenditore palermitano, viene assassinato trentuno anni fa, la sera del 29 agosto 1991, per essersi ribellato alla "legge" mafiosa del racket rifiutandosi di pagare "il pizzo". Come ogni anno da quella sera del 29 agosto 1991, a Palermo, nei pressi dell'abitazione dell'imprenditore assassinato, in via Alfieri sarà affisso un cartello come quello nella fotografia sottostante, dal momento che la famiglia di Libero Grassi non ha mai acconsentito all'apposizione di una lapide. 

Dopo l'uccisione di Libero Grassi, sua moglie Pina Maisano ha continuato per anni la battaglia culturale contro le mafie iniziata dal marito. Nell'ultima intervista rilasciata in occasione del Premio Libero Grassi, Pina Maisano affermò ancora una volta: “Non mi rassegno a una Sicilia succube della mafia”.  (qui la sua intervista)
in un artico de  La Repubblica a presentazione del film-documentario prodotto dalla RAI e che ripercorre la vicenda di Libero Grassi così si legge: "(...) Catanese, di famiglia antifascista, l'ingresso nei meccanismi dell'imprenditoria grazie a un periodo a Gallarate, l'apertura dello stabilimento tessile a Palermo alla fine degli anni Cinquanta, Libero Grassi era attivo nella politica, con il Partito Repubblicano. E quando arrivano le prime richieste di racket, esce allo scoperto denunciando gli estorsori. E firmando, di fatto, la propria condanna a morte. Pagherà con la vita la sua opposizione pubblica alla cultura mafiosa convinto, com'era, che la lotta alla mafia dovesse coincidere con la sua professione. 
Libero Grassi ha vissuto in anni in cui esisteva una logica di potere e di controllo della città di Palermo totalmente mafiosa. Si è ribellato con il coraggio di esporsi pubblicamente, usando i giornali e la televisione. E con la forza di una vita sempre vissuta, con la moglie Pina Maisano e i figli Alice e Davide, all'insegna dei principi della giustizia, della libertà individuale e della crescita collettiva (...)".

L'esempio di Libero Grassi è ancora oggi "pietra di paragone", ancor più per il fatto che, come sappiamo bene, la "linea della palma" (il potere delle cosche mafiose così definito da Leornardo Sciascia) ha raggiunto e conquistato "pezzi" dell'Italia intera.
A sinistra Libero Grassi e la moglie, Pina Maisano, in una immagine di famiglia.
A destra, Pina Maisano dinanzi al cartello in cui si ricorda l'uccisione di Libero

La lettera al "caro estorsore"
Alla richiesta del pizzo da pagare alle cosche mafiose, Libero Grassi aveva risposto in maniera coraggiosa e del tutto originale, inaspettata, facendo pubblicare una lettera dal Giornale di Sicilia in data 10 gennaio 1991. 
La lettera aveva un titolo chiaro, forte: «Caro estorsore...non ti pago!» 
Caro estorsorevolevo avvertire il nostro ignoto estorsore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui.“                                                                          

Libero Grassi ospite di Michele Santoro
In un articolo pubblicato dall'Unita in data 28 agosto 2011 si raccontava l'intervista di Miche Santoro a Libero Grassi, nella trasmissione Samarcanda. 

intervista di Libero Grassi ."Samarcanda". 11 aprile 1991

Fonte . L'Unità - 28 agosto 2011- articolo di Marcello Ravveduto
Il 10 gennaio 1991 Libero Grassi scrisse una lettera al “Giornale di Sicilia”:«Caro estorsore...non ti pago». Dopo 8 mesi, il 29 agosto 1991, Cosa nostra lo ucciderà con cinque colpi di pistola calibro 38. La lettera è una pubblica rottura dell'omertà: l’imprenditore, il cittadino, sottoposto alle minacce degli estorsori, non solo rifiuta di pagare, ma accusa commercianti ed imprenditori siciliani di soggiacere passivamente alla coercizione mafiosa. Il pizzo accettato come una tassa dovuta ad un sistema di potere parallelo, in cui sguazzano politici, imprenditori e mafiosi e la cui efficacia impositiva si misura in termini di silenziosa rassegnazione. La coraggiosa presa di posizione di Libero Grassi che denuncia apertamente e pubblicamente la richiesta di pizzo, ha un effetto paradossale: uno sconcertante, inquietante, isolamento. Il presidente palermitano di Assindustria, Salvatore Cozzo, legato a Salvo Lima, addirittura minimizza la denuncia defininendola "una tammurriata per farsi un po’ di pubblicità".
Il clamore suscitato dalla denuncia di Libero grassi ha tuttavia varcato i confini del capoluogo siciliano e il giormalista Michele Santoro invita Libero Grassi alla trasmissione Samarcanda per  raccontare la sua storia. È l’11 aprile 1991. Libero Grassi è di fronte alle telecamere; lo sguardo è attento dietro gli occhiali da lettura. 
La domanda del conduttore: "Lei si è trovato faccia a faccia con queste richieste di tangenti?
La risposta di Libero Grassi: «Mi sono trovato più volte… ho subito due estorsioni, una rapina e altre intimidazioni». Poi Libero Grassi sposta il discorso su un tema scottante rivolgendosi al giudice Di Maggio presente in studio: «Il giudice di Maggio ha detto il primato della legge, il primato della politica, il primato della morale. Ma c’è un primato superiore quello della qualità del consenso… la formazione del consenso che poi è l’arma della mafia. La prima cosa che controlla la mafia… è il voto… ad una cattiva raccolta di voti corrisponde una cattiva democrazia… la legge la fanno i politici… se i politici hanno un cattivo consenso faranno delle cattive leggi e allora noi dobbiamo curare la qualità del consenso. La mafia in Sicilia è il maggior interlocutore del problema politico in quanto dispone del voto, dei soldi e degli inserimenti nell’amministrazione, perché oramai è diventata ceto dominante». 

Santoro lo interrompe e lo stuzzica: "Perché non vuol pagare, lei è pazzo?"
Libero Grassi non ha sussulti, non si scompone, è quasi immobile: «Non sono pazzo, non mi piace pagare perché è una rinunzia alla mia dignità di imprenditore (significherebbe che) io divido le mie scelte con il mafioso». Si ferma per un istante prende un foglio dalla cartellina e legge una dichiarazione del giudice Luigi Russo in merito alle estorsioni: «Si può anche non pagare, ma chi non paga deve sapere bene cosa gli succede prima o poi… se tutti facessero così (non pagando) dalla Sicilia sparirebbero le imprese e migliaia di piccole aziende andrebbero in fiamme». 

Ora Libero si agita sulla poltrona e sgrana gli occhi guardando fisso il giornalista: «Dico al dott. Luigi Russo che lui dice se tutti si comportassero come me si distruggono le industrie, se tutti si comportano come me si distruggono gli estorsori non le industrie». Con un gesto d’impeto toglie gli occhiali e tira un sospiro ad occhi chiusi. 

Dopo oltre vent’anni la testimonianza di Libero Grassi ci ricorda quanta strada è stata fatta nel campo della prevenzione e dell’assistenza alle vittime del racket. Rimane, tuttavia, di cocente attualità ed insoluto il tema della qualità del consenso elettorale, proprio ora che la «linea della palma», come scriveva Sciascia, ha raggiunto i lembi estremi del profondo nord.
Marcello Ravveduto

martedì 23 agosto 2022

Una riflessione di Marco Calliero sulla storia dei luoghi di Pinerolo. "Pinerolo merita più amore e più conoscenza"

Come gruppo "Associazione Rita Atria Pinerolo" continuiamo ad occuparci di gestione del territorio poiché, a nostro parere, questo può rappresentare un indicatore utile ad individuare gli scopi, gli indirizzi,  il “progetto generale” che guida e determina non solo il carattere di una amministrazione locale ma anche della sua comunità. Non solo: avere cura e amore per i territori è un primo fondamentale strumento per opporsi a "mafie e pensiero mafioso".

Marco Calliero “(…) Non si può più tollerare l'arroganza di coloro che, giustificandosi con la necessità di applicare una normativa, oppure di rispettare bilanci economici, oppure ancora sventolando false urgenze igieniche, hanno deciso e decidono che un luogo giunto a noi dopo secoli non valga più nulla. Questo è un autentico crimine legalizzato ai danni dell'identità del territorio, poiché l'identità è la più preziosa delle eredità tramandate da chi ci ha preceduto(…)”.

Guido Piovene ( "VIAGGIO IN ITALIA"): "(...) Si avverte frequentemente in Italia una rottura fra le tradizioni, lo sfondo e la vita di oggi, che appare perciò come vuota. La civiltà diviene quindi endemica, senza giungere più all'intelligenza e all'amore: gli abitanti assomigliano ad ospiti occasionali, senza storia, su un fondale storico. Si devono a questo,ritengo, le brutture edilizie perpetrate per speculazione,ma soprattutto per mancanza di affetto (...)".

Coordinamento Associaizoni  Pinerolesi: "Comunità significa conoscere, tutelare e valorizzare la memoria collettiva anche nelle sue espressioni materiali, ad esempio gli edifici in cui persone hanno vissuto, lavorato, hanno passato il loro tempo. Non tutto deve rimanere così come è ma nulla deve (più) andare perduto.Per questo motivo iniziamo la pubblicazione di contributi che raccontano la storia delle testimonianze, silenti, accanto alle quali passiamo senza porvi attenzione, affinché domani quel "passaggio" ci racconti di un tempo passato". 

Paolo Pileri ( : "(...) Chi si occupa di spiegare che consumare suolo è un guaio, deve fare i conti con una politica abituata a farlo consumare e a usare quel consumo per varie ragioni: consuetudine, potere, consenso elettorale, riproduzione di se stessa, compiacere altri poteri, far arrivare a fine mese il proprio Comune, buona fede, ignoranza delle conoscenze, etc.(...)"

Ringraziamo l'Eco del Chisone per il significativo rilievo che ha voluto offrire alla riflessione di Marco Calliero, archivista e autore pinerolese, pubblicata la prima settimana di agosto. Auspichiamo che l'attenzione manifestata da alcuni giornali locali (Eco del Chisone, Vita Diocesana, Voce Pinerolese, Piazza Pinerolese) nei confronti del tema proposto da Marco Calliero -la tutela del patrimonio storico, architettonico e urbanistico della nostra città a salvaguardia della identità di una comunità- possa costituire un contributo importante alla "battaglia culturale" condotta anche dalle associazioni pinerolesi riunite nel "COORDINAMENTO ASSOCIAZIONI PINEROLESI". Lo stesso Marco Calliero ha infatti espresso profonda preoccupazione e rincrescimento per le azioni che si  stanno prospettando a danno del patrimonio storico-urbanistico di Pinerolo, in questo caso si tratta dell'ex setificio Vagnone, storico opificio che si vuole abbattere per edificare il 17° supermercato cittadino: «Il setificio Vagnone di Abbadia, un altro opificio storico di Pinerolo in pericolo. Oramai sono a rischio estinzione. Più ancora delle cicogne. L’accanimento del Piano regolatore comunale su questi luoghi è scientifico. Un autentico crimine verso l’identità del territorio». 

Quanto accade a Pinerolo, la rozzezza culturale di comunità e amministrazioni che ancora permettono la distruzione dei luoghi di memoria e di identità della comunità stessa, sembra l'ennesimo ed ultimo esempio, in ordine di tempo, di quanto denunciava lo scrittore Guido Piovene, "speculazione e mancanza di affetto", o della "ignoranza delle conoscenze" rilevata da Paolo Pileri, urbanista. Il contributo offerto da Marco Calliero colma la "scusante dell'ignoranza" sul valore e sul significato di uno dei luoghi sui quali si fonda la storia e l'identità della comunità di Pinerolo. Pinerolo merita più amore e più conoscenza!

STORIA DEL SETIFICIO VAGNONE - Parte 1 -

Autore: Marco Calliero, archivista, autore letterario

Ci apprestiamo a raccontare la storia di un luogo che, a causa del fatto di essere stato dimenticato dai pinerolesi, per mano di essi sarà a breve cancellato. Esiste un legame tra valori, credenze, tradizioni di una comunità e le tracce evolutive di essa stessa disseminate sul territorio. In altre parole si tratta del nesso esistente tra i propri abitanti e i luoghi dove si à fatta la storia. Una "comunità patrimoniale" è quella che ha coscienza del proprio ruolo di riconoscere i luoghi significativi che la rappresentano e di impegnarsi a trasmetterli alle generazioni future valorizzandoli, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà. Un ruolo complementare e distinto da quello delle soprintendenze, e che espande la sensibilità oltre i limiti del valore meramente artistico e strutturale dei manufatti. Qui sta la differenza fra una comunità consapevole e un'altra inconsapevole della propria identità.

Nei secoli scorsi il paesaggio attorno all'abitato di Pinerolo era costituito da terreni coltivati, piccoli corsi d'acqua e filari di alberi. Cascinali sparsi facevano da contrappunto a questo stato di fatto. La distanza tra la città e il paese di Abbadia era rappresentata dalla strada che li congiungeva e che attraversava quella distesa di natura verdeggiante. Il tragitto era quello ricordato fin dal 1294 quando i cavalieri pinerolesi lo coprirono con la famosa cavalcata per raggiungere e salvare l'abate dalla minaccia dei perosini coalizzati col conte di Savoia. A interrompere la continuità dei campi, lungo il tragitto, già nel XVI secolo erano i forni di Abbadia, opificio non lontano dall'antichissimo monastero benedettino. La presenza di fornaci per la cottura dei laterizi è tipica e consolidata qui come genericamente in pianura, dove al contrario dei luoghi montuosi e collinari la disponibilità di pietra è minore.

Verso l'inizio del XIX secolo, in direzione di Pinerolo si aggiunse un secondo complesso edilizio. In effetti, a partire dal 1837 i fratelli Pietro e Luigi Vagnone installarono un battitore da rusca situato nel sito compreso fra la bealera di Cholera, costeggiante la strada che congiunge Pinerolo ad Abbadia, e il canale scaricatore di Abbadia nel tratto più prossimo al torrente Lemina. La rusca è polvere di corteccia che si utilizzava nella concia delle pelli, attività storicamente presente in questo territorio.

La cura dei canali artificiali tendeva ad aumentare laddove essi venivano sfruttati da piccoli insediamenti industriali. Dunque anche qui, dove, nel 1862 la bealera di Cholera fu riallineata alla strada di San Secondo affiancante il lato occidentale del sito che stiamo raccontando.

Intorno all'anno 1860 l'area edificata risultava notevolmente ampliata, e comprendeva un battitore, una conceria, una casa civile e la corte interna. All'epoca la proprietà passò all'erede Giacinto Vagnone. A partire dal 1862 il battitore fu utilizzato per lavorare le fibre di canapa, questo fino a quando si decise di convertire le produzioni nel redditizio mercato della seta, motivo per cui si mise in piedi una vasta filatura. Questo avvenne negli ultimi tre decenni del XIX secolo.










giovedì 11 agosto 2022

La "Trattativa" ci fu! ...Ma non fu reato



"la Trattativa ci fu..."
"...Ma non fu reato!"

Sono passati pochi giorni dalla pubblicazione delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo Trattativa Stato-mafiasentenza emessa dalla Corte d’Appello nel settembre 2021 e che aveva disposto, fra altri provvedimenti, l'assoluzione dell'ex senatore Marcello Dell'Utri (“per non aver commesso il fatto”), dell'ex capo del Ros, il generale Mario Mori, del generale Antonio Subranni e dell'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. 

Con la sentenza di settembre 2021 la Corte aveva ribaltato il giudizio in primo grado (maggio 2018) con .i  erano stati condannati a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, e a 12 anni Dell'UtriMoriSubranni Cinà.

Ci permettiamo di scrivere che si rimane sconcertati dall'apprendere che lo Stato Italiano, per mezzo di alcuni suoi rappresentanti, possa "trattare con la mafia", con "pezzi" di essa, distinguendo fra una mafia stragista-cativa! ed una mafia "accettabile" con cui, conseguentemente, si potrebbe "scendere a patti".  Pertanto, Paolo Borsellino è stato il "rompicoglioni" che si indigna dinanzi ad uno Stato che, in quel preciso momento, tratta con assassini e complici di coloro che hanno appena ucciso Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Di Cilo, Vito Schifani. 

Quel che  pare gravissimo, osceno, è che in quelle motivazioni si introduca il principio della "sostenibilità" di una trattativa ( il principio del "fine che giustifica il mezzo "!) fra due entità che invece devono essere, e rimanere, in perfetta e indissolubile alterità l'una rispetto all'altra. Non solo: la "trattativa" fra  pezzi dello Stato con "pezzi" di "cosa nostra esplicitamente riconosce ed eleva le mafie a interlocutori possibili di uno Stato democraticoInaccettabile! Osceno!

Proviamo vergogna dinanzi alla memoria delle tante vittime innocenti, fedeli e integerrimi servitori dello Stato e della sua comunità, che hanno sacrificato la loro stessa vita in nome dello Stato italiano. 

Di seguito il contributo offerto dai magistrati Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato


Intervista di Giuseppe Lo Bianco a Nino Di Matteo, magistrato, membro del Consiglio Superiore della Magistratura -7 agosto 2022


La trattativa ci fu. Ma gli ufficiali dei carabinieri vengono assolti perché, contattando Ciancimino, “non vollero rafforzare la minaccia mafiosa allo Stato per strappare al Governo concessioni favorevoli agli interessi mafiosi, ma, semmai avrebbero voluto tali concessioni come male e come mezzo necessario per sventare una minaccia in atto’’. E fermare le stragi.

Dottor Di Matteo, lei che idea s’è fatto?

Anche questa corte ha ritenuto che la trattativa ci fu, fu iniziata da esponenti dello Stato, fu accettata da Riina e si svolse a partire dalle settimane successive alla strage di Capaci mentre era ancora caldo il sangue delle vittime. Con buona pace di quanti lo definiscono un teorema o fantomatica trattativa. C’è però un passaggio che mi lascia perplesso e mi suscita, anzi, preoccupazione.

Quale? 

Quello in cui si afferma che la trattativa era volta ad un fine di tutela dello Stato. Nella sentenza ormai definitiva della corte di assise di Firenze si affermava che quella iniziativa del Ros di contattare Vito Ciancimino avesse rafforzato in Riina il convincimento che la strategia di attacco alle istituzioni pagasse inducendolo a fare altre stragi. Mi chiedo con preoccupazione cosa penserebbero oggi di quelle parole le decine di esponenti delle istituzioni, non solo magistrati, ma agenti di polizia, carabinieri, anche politici che nel contrasto alle cosche mafiose per il rifiuto al dialogo e al compromesso hanno perso la vita.

Cosa teme in particolare?

Temo che la sentenza possa essere letta come una legittimazione a dialogare con la mafia, che faccia passare l’idea che con la mafia si può convivere. Spero che non abbia effetti, noi continueremo a pretendere che gli estorti denuncino i loro estorsori, io continuo a pensare che il comportamento di uno Stato che cerca Riina in nome di una ragione di stato non dichiarata con un atto del potere politico è inaccettabile in una democrazia. Ogni qualvolta lo Stato ha cercato il dialogo con la mafia ne ha accresciuto a dismisura un potere di ricatto notevolissimo. E c’è anche un altro passaggio che leggo con preoccupazione.

Prego.

L’opportunità, nella strategia del Ros, che prevalesse una fazione moderata su quella stragista. Questo è un passaggio preoccupante, sembra quasi distinguere una mafia con cui si può dialogare e un’altra da sconfiggere. Anche questo concetto rischia di sdoganare il principio che lo Stato può dialogare con la mafia. Sul Ros la Corte ha riconosciuto che la mancata perquisizione del covo di Riina il 15 gennaio 1993 è stato un segnale di incoraggiamento al dialogo per rafforzare il dialogo. È quello che abbiamo sostenuto noi in primo grado. Oggi la sentenza sottolinea la gravità evidente dell’omissione di un atto doveroso da parte di una struttura di polizia giudiziaria.

La sentenza conferma che tre governi – Amato, Ciampi e Berlusconi – vennero ricattati dalla mafia. Anche se nell’ultimo caso non c’è prova che fu il senatore Dell’Utri a veicolare la minaccia. Lei che ne pensa?

È un problema di valutazione della prova. Anche questa corte riconosce la valenza dei rapporti mafiosi di Dell’Utri anche dopo il ’92, lo assolve perché non ritiene sufficientemente provata la veicolazione a Berlusconi.

E cosa intende rispondere oggi a quanti negli anni hanno ridicolizzato la vostra inchiesta e il processo definendolo una ‘’boiata pazzesca’’?

Spero che storici e opinionisti abbiano oggi la correttezza di dire che la trattativa ci fu. Sono fiero di avere contribuito con gli altri colleghi a far venire fuori fatti e circostanze che sono stati ritenuti provati e che hanno attraversato la storia d’Italia nel periodo più buio dello stragismo mafioso.

 

Roberto Scarpinato: TRATTATIVA: PRESTIGIATORI DI SENTENZE E GATTOPARDI CHE TO- RNANO  (Fatto Quotidiano  9 agosto 2022)

"La Corte di Assise di Appello del processo “trattativa Stato-mafia” ha ritenuto provata la condotta materiale del reato contestato agli imputati Mori e De Donno, essendo state accertate le plurime condotte da essi poste in essere nel tempo in violazione di tutte le regole di legge, per ripristinare con la componente più “moderata” di Cosa Nostra, capeggiata da Provenzano, il patto di coesistenza pacifica con lo Stato che aveva caratterizzato tutta la storia della prima Repubblica e che i vertici mafiosi ritennero tradito con le condanne definitive del maxiprocesso. Tuttavia la Corte non ha ritenuto sussistente la componente soggettiva del reato, cioè il dolo, perché tali condotte sarebbero state motivate da intenti “solidaristici”, cioè dall’intento di evitare ulteriori stragi. Ciò sebbene le condotte degli imputati abbiano di fatto sortito (com’era ampiamente prevedibile) l’effetto opposto di rafforzare la determinazione della mafia di compiere ulteriori stragi, quali quelle del 1993, per concludere la trattativa. E ciò nonostante tali condotte abbiano di fatto consentito il prolungamento per tanti anni della latitanza e quindi dell’attività criminale di Provenzano. 

Nel condividere la preoccupazione di chi, come il collega Di Matteo, ha già osservato come tale motivazione si presti ad esser letta come una legittimazione e un viatico a dialogare con la mafia, a “conviverci” purché e affinché moderi la sua aggressività rendendosi silente, vorrei focalizzare un altro aspetto rilevante della sentenza: la parte sui possibili motivi che determinarono Riina ad anticipare e accelerare l’uccisione di Borsellino.

Nell’affrontare tale delicatissimo tema, inspiegabilmente nelle 2971 pagine della motivazione, la Corte non spende un solo rigo sulla sottrazione dell’agenda rossa da uomini degli apparati istituzionali; sulla forzata induzione di Scarantino a rendere false dichiarazioni; sulla presenza, rivelata da Spatuzza, di un soggetto esterno a Cosa Nostra nel momento cruciale del caricamento dell’esplosivo nella Fiat 126; sugli “infiltrati della Polizia” dei quali Franca Castellese il 14 dicembre ‘93 implorò il marito Mario Santo Di Matteo di non fare menzione ai magistrati, dopo che a seguito della sua collaborazione con la giustizia era stato rapito il loro figlio Giuseppe; sulle accertate e vive preoccupazioni di Borsellino nei confronti degli uomini del Sisde; sull’omicidio ordinato da Riina negli stessi giorni della strage del capomafia di Alcamo Vicenzo Milazzo, che si era rifiutato di unirsi alla strategia stragista, declinando per tre volte le sollecitazioni ricevute da uomini dei servizi segreti con cui si era incontrato alla presenza di un colletto bianco che è stato identificato.

È evidente che facendo sparire tutto questo e molto altro dal contesto argomentativo, viene preclusa in radice qualsiasi possibilità di ricostruire i motivi dell’accelerazione della strage che chiamano in causa apparati deviati dello Stato; e si elimina nel lettore la consapevolezza di elementi essenziali che contraddicono la tesi a cui perviene così quasi per default la Corte in esito a questo gioco di prestidigitazione probatoria per sottrazione. Tesi che può riassumersi nei seguenti termini: dovendosi escludere che l’accelerazione fu determinata dal pericolo che Borsellino ostacolasse il buon esito delle trattativa, resta come unica residuale alternativa l’interesse di Borsellino sul tema mafia-appalti. 

Nel ridurre la vicenda stragista di via D’Amelio nel letto di Procuste di contingenti interessi economici di Riina e di qualche colletto bianco, la Corte disattende così implicitamente possibili complicità di esponenti dello Stato. I gravissimi fatti sopra accennati, dei quali la Corte non fa alcuna menzione, e i plurimi e complessi interventi depistatori di vari esponenti di apparati statali sino a epoca molto recente sono assolutamente incompatibili con l’ipotesi riduzionista prospettata dalla Corte. E attestano che vi erano ben altri scheletri che rischiavano di uscire dall’armadio se Borsellino fosse rimasto in vita e avesse potuto trasfondere in atti giudiziari l’esito delle sue indagini sui responsabili e le complesse causali della strage di Capaci. 

Scheletri che spiegano perché gli interventi di soggetti esterni attraversino ininterrottamente tutta la sequenza stragista, da Capaci nel maggio ‘92 alle stragi del ‘93 nel continente, come emerge da una pluralità di elementi probatori e come relazionò la Dia già nel ‘93 con un’informativa in cui si comunicava che: dietro le stragi si muoveva una “aggregazione orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti dotate di “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”. Scheletri che spiegano anche il perfetto sincronismo operativo tra i mafiosi che fanno esplodere l’autobomba e l’immediata apparizione sulla scena di appartenenti agli apparati istituzionali che, grazie alla loro insospettabilità, possono far sparire l’agenda rossa completando l’operaNon bastava uccidere Borsellino: se la sua agenda rossa fosse finita nelle mani dei magistrati, lo scopo della sua repentina eliminazione sarebbe stato frustrato. Ed è evidente che l’agenda rossa non fu sottratta per tutelare i mafiosi esecutori della strage, ma i loro compici eccellenti.

Né la Corte si chiede perché proprio la Dia, l’organismo di polizia interforze specializzato in materia di mafia, creato su impulso decisivo di Falcone e diretto da De Gennaro amico di Falcone e Borsellino che con lui si confidavano, fu inopinatamente esclusa dalla Procura di Caltanissetta dalle indagini sulla strage, privilegiando invece con un colpo di mano il Sisde di Bruno Contrada e Arnaldo La Barbera, altro soggetto collegato al Sisde, con i noti esiti che portavano in una direzione completamente diversa. 

Bisognerebbe anche chiedersi perché alcuni magistrati che più si sono spesi per dimostrare la compartecipazione di soggetti esterni alle stragi del 1992-’93 siano stati accomunati dallo stesso destino: ostracizzati ed emarginati in vari modi, taluni persino sottoposti a inchieste disciplinari e financo penali, altri nel mirino di prolungate campagne di delegittimazione. 

Vari indizi inducono a ritenere che purtroppo le stragi del 1992-’93 non sono eventi conclusi, ma sono ancora tra noi, perché accanto a un dibattito pubblico e a una dialettica giudiziaria in cui continuano democraticamente a confrontarsi opinioni diverse, non sono mai  cessate dietro le quinte occulte manovre per chiudere definitivamente questa spinosa partita, riducendo una volta per tutte le responsabilità e le causali esclusivamente a personaggi come Riina e sodali, elevati a icone totalizzanti del male di mafia. 

Non mi sembra – malgrado l’impegno profuso da taluni magistrati – che esistano le condizioni sociopolitiche per un salto di qualità complessivo delle indagini che consenta di pervenire a una verità giudiziaria completa. È in corso una inquietante accelerazione del processo di normalizzazione e di restaurazione culturale di cui si colgono tanti segnali.

Nella patria del Gattopardo, il passato rilegittimato e giustificato di convivenza tra Stato e mafia, di segrete transazioni tra Stato legalitario e Stato occulto, di rimozioni e amnistia permanente tramite amnesia collettiva torna a essere la cifra del presente e del futuro. Ritornano in campo da protagonisti della politica personaggi condannati per collusione con la mafia; si celebra nelle aule del Senato la memoria di vertici dei servizi segreti – come il generale Gianadelio Maletti – condannati per depistaggio su Piazza Fontanasi normalizza la cultura dell’omertà giustificando come motivazione eticamente condivisibile la scelta dei mafiosi stragisti irriducibili di non collaborare con lo Stato, autorizzando con la riforma dell’ergastolo ostativo la loro uscita dal carcere anche in assenza di collaborazione, solo a condizione che provino di aver deposto le armi ed essersi dissociati definitivamente dalla mafia; si approvano a ripetizione leggi che riportano indietro l’orologio della storia ai tempi del primo 900, ripristinando il trionfo della gerarchia nella magistratura. Leggi che creano una magistratura alta e una bassa ed esaltano la figura di dirigenti soprastanti con il compito di garantire che i magistrati sottordinati smaltiscano rapidamente il più elevato numero di processetti e non sprechino risorse e tempo per indagini complesse ad alto rischio e di esito incerto, come quelle sulla criminalità dei colletti bianchi e del potere. Oggi come ieri, in un Paese segnato sin dalla nascita della Repubblica da una sequenza ininterrotta di stragi e omicidi eccellenti senza uguali in Europa, da patti occulti con la mafia e dalla corruzione sistemica – tutte declinazioni della criminalità di settori portanti delle classi dirigenti -, la "questione giustizia" resta inestricabilmente connessa alla questione democratica e dello Stato.

Quale Stato? 

Quello dei carabinieri che trattarono con la mafia o quello di Falcone e Borsellino? Lo Stato che ha depistato tante indagini sulle stragi da Portella della Ginestra, a Peteano, a Milano, a Brescia, a Bologna, sino a quelle del 1992-’93, o lo Stato in cui si riconosce quella parte d’Italia che non vuole rassegnarsi a convivere con i poteri criminali

Questo è stato in passato e resta per il futuro il nodo politico cruciale del nostro Paese e una delle incognite più inquietanti del futuro della nostra democrazia."