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domenica 9 maggio 2021

Aldo Moro e Peppino Impastato: uccisi nella stessa "notte buia dello stato italiano".

Lo scriviamo oramai da anni: "Una data lega l'assassinio di due uomini: Aldo Moro e Peppino Impastato. Il primo ucciso per mano delle Brigate Rosse, il secondo ucciso da Cosa Nostra. Uccisi nella stessa "notte buia dello stato italiano" alle prime ore del 9 maggio 1978.
E da tempo ripetiamo che In Italia la ragnatela del "potere" lega vicende  e trame di cui ancora oggi non siamo stati capaci di definire pienamente i contorni: morti innocenti, delitti oscuri, perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. Delitti e stragi commessi pensando che, in Italia, potesse servire spargere sangue innocente: per seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee e valori, per impedire o indirizzare cambiamenti. 
Oggi il "potere" ha imparato ad usare metodi differenti, più adatti al momento storico che viviamo, tanto che quotidianamente scopriamo che mafie e "pensiero mafioso", corruzione e mala-politica, sono fattori potenti e presenti come non mai, tanto da essere diventati "il cancro" che mina presente e futuro di questo Paese. 



"La mafia è una montagna di merda"
Non siamo in grado di parlare della figura di Aldo Moro e ce ne scusiamo. Quale potesse essere il contributo che come uomo, prima ancora che come statista, avrebbe potuto lasciare all'Italia, lo mostra la sua ultima lettera indirizzata alla moglie Noretta:
«Mia dolcissima Noretta, credo di essere giunto all’estremo delle mie possibilità e di essere sul punto di chiudere questa mia esperienza umana. Ho tentato di tutto.
Credo di tornare a voi in un’altra forma. Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo.
A Te devo dire grazie, infinite grazie, per tutto l’amore che mi hai dato.
Ricordati che sei stata la cosa più importante della mia vita.
Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. 
A ciascuno la mia immensa tenerezza che passa per le tue mani.
Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile.
Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo.
Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo».

Qualcosa vorremmo dire invece di Peppino Impastato ."La mafia è una montagna di merda!" Sarebbe necessario trovare ancora oggi il coraggio di gridarlo a certe "facce", a chi si è abituato a quelle facce e al puzzo della "montagna di merda", al puzzo del compromesso morale, della convenienza , ai tanti misteri che soffocano la Giustizia di questo paese, misteri custoditi dal sigillo del Potere.
O ci basterà la vuota retorica della commemorazione, del ricordo? Ce la faremo bastare, quella retorica vuota, per giustificare la "legalità sostenibileche abbiamo costruita a nostra misura affinchè non ci faccia troppo male e non ci costringa troppo? Oppure cominceremo davvero a "fare memoria", ad avere il coraggio e la coerenza necessarie affinché le cose accadute non abbiano più a ripetersi, affinché si metta in atto l'insegnamento di coloro che, come in un triste rosario, continuiamo a snocciolarne nomi, date di nascita e di morte prematura?
Che non siano state morti inutili!...

Due testimoniane a memoria di Peppino Impastato

Salvo Vitale, amico fraterno di Peppino Impastato (fonte Antimafiaduemila): "Sono passati 43 anni e sembra ieri. Che cosa rende Peppino sempre attuale e degno di interesse? Indubbiamente la sua giovane età: è morto a 30 anni e quindi non ha avuto il tempo di invecchiare o di lasciare invecchiare le sue idee e tutto ciò in cui credeva. Altro elemento che lo rende vivo e presente è la radicalità delle sue scelte, il rifiuto del compromesso, la scelta senza discussioni delle proprie idee come base per costruire una società nuova e quindi la contestazione delle strutture autoritarie della società borghese, dalla chiesa, alla famiglia, alla scuola, alle istituzioni in genere. E poi la sua attualità è nella scelta degli strumenti di comunicazione, ultimo dei quali la Radio. Peppino progettava un’informazione veramente libera, non soggetta a censure, formativa e informativa dove la notizia era la narrazione del vissuto che ci circonda, dei drammi quotidiani dell’esistenza e non le vicende dei personaggi importanti, l’ufficialità dell’avvenimento, l’informazione istituzionalizzata. Peppino era un giornalista purosangue, anche se non ha mai avuto il tesserino, anzi gli è stato dato ad honorem nel 1996, così come, sempre, nello stesso anno, la laurea. In questo contesto assume particolare importanza la satira e il dileggio di atteggiamenti, di idee, di manovre, di speculazioni, che “le persone che contano” ritengono intoccabili e sacrosante e di cui giornalmente si nutrono. In prima fila, tra queste persone, mafiosi e politici, ma anche preti, medici, avvocati, affaristi, in pratica quella che una volta si definiva “classe dominante”.
Una delle canzoni da lui preferite era “Vecchia piccola borghesia”, di Claudio Lolli, “Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia, non so dirti se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia”. Dall’altro lato della barricata c’erano le persone più deboli e indifese, i lavoratori, gli edili, i contadini di Punta Raisi, gli stagionali di Città del mare, i disoccupati, i pescatori di Terrasini, coloro a cui Peppino aveva dedicato la vita e per i quali sognava di costruire una società diversa, dove tutti fossero uguali e senza privilegi. 
E’ chiaro che una persona del genere che voleva cambiare il contesto sociale in cui era nato e che tutti invece accettavano, non poteva che essere considerata scomoda e, alla fine, la sua morte ha rappresentato una sorta di liberazione. Ma naturalmente resta il fascino delle sue idee, ed è per questo che ogni anno ci si ricorda del suo barbaro omicidio, del tentativo di depistaggio che voleva farlo passare per un attentato terroristico, dell’impegno della famiglia e dei compagni per ottenere giustizia e verità e della lunga strada durata 22 anni, prima di riuscirci. 
Nel vuoto culturale che ci circonda Peppino è sempre un punto di riferimento".

Alessia Candito, giornalista de La Repubblica: "Peppino Impastato era un rivoluzionario, un militante, un comunista senza "se, ma, forse". Uno che aveva capito che combattere le mafie significa combattere il sistema economico, politico e di potere di cui sono architrave. Significa lottare contro le speculazioni edilizie, gli ostinati latifondi, contro le mega-opere inutili che a forza di varianti diventano sempiterni bancomat come la terza pista dell’aeroporto di Cinisi, contro gli impasti massonico-mafiosi che permettono il perpetuarsi del sistema. Peppino era uno che aveva capito che la lotta alla mafia è lotta per i diritti di tutti contro i privilegi di pochi, per questo organizzava le lotte dei manovali contro i caporali, quelle dei braccianti e dei coloni contro il barone e padrone di turno.
Oggi i latifondi ci sono ancora, l'A3 è diventata A2 ma continua a far mangiare i clan, si torna a parlare di ponte sullo Stretto e Peppino Impastato è diventato "quello di Radio Aut".
La memoria o è vera, reale e completa o rimane esercizio buono per comodissime passerelle. "Cuntra mafia e putiri, c'è sulu rivoluzioni"

mercoledì 2 settembre 2020

Piera Aiello . Comunicato di dimissioni e di "delusione"

Riportiamo il testo integrale del comunicato col quale Piera Aiello, la cognata di Rita Atria, manifesta la decisione di lasciare il partito per il quale aveva accettato la candidatura al Senato della Repubblica. 

Ci permettiamo due brevissime considerazione. La prima: le parole di Piera Aiello confermano ancora una volta il giudizio espresso più volte da alcuni dei magistrati più esposti e impegnati nella lotta contro le mafie,  fra questi Nino Di Matteo, Nicolò Gratteri, Giuseppe Lombardo: la lotta contro le mafie, da decenni, non è priorità dei governi e delle forze politiche italiane, aldilà di vuoti e sterili proclami

La seconda considerazione. Piera Aiello sottolinea l'altro problema che affligge la classe politica italiana: la carenza, culturale-etica-morale, di una classe politica che accetta e consente la presenza e la inadeguatezza di molti soggetti, "eletti-nominati" in qualsivoglia partito, che vedono "la politica come mero strumento per il raggiungimento di fini che sono ben lontani dallo spirito di servizio e di impegno per il "bene comune",  come dimostrano anche gli scandali che quotidianamente si susseguono, non per ultimo il cosiddetto "bonus-covid". 

Pertanto , ancora una volta si dimostra che "la politica (partitica) non è mai all'altezza", come ebbe a dichiarare anni orsono il nostro illustre concittadino, il senatore Elvio Fassone (puoi leggere qui)



"Sono stata eletta il 4 marzo 2018 nel collegio uninominale in provincia di Trapani-Marsala con quasi 80 mila voti, di cui 25mila nominali. Ho deciso così di rimettere in discussione la mia vita, tenuta segreta dal lontano 30 luglio 1991, in quanto testimone di giustizia. Quando mi è stata chiesta la disponibilità alla mia candidatura, ho intravisto la possibilità di portare la mia esperienza di testimone in un’aula parlamentare dove poter esporre le problematiche dei testimoni, dei collaboratori di giustizia e degli imprenditori vittima di racket e di usura.

Dopo la mia elezione sono entrata a far parte della Commissione Giustizia e della Commissione Parlamentare Antimafia, dove ho messo in chiaro di non volermi candidare per nessun posto apicale, ma di voler portare un sano contributo in difesa delle suddette categorie, spesso, per non dire sempre, abbandonate negli anni dai Governi di turno. Affermo ciò perché nella mia trentennale lotta alla mafia tante promesse sono state fatte, e non mantenute, il che ha peggiorato sempre più la condizione di testimoni, collaboratori e imprenditori, quindi dell'intero popolo italiano, cui è stata soffocata la voce per aver avuto voglia affermare la verità e la giustizia. 
Negli anni mi ero appassionata a Gianroberto Casaleggio, uno dei padri del Movimento 5 Stelle, per le sue idee innovative, in cui era palese la voglia di un cambiamento concreto nell’ambito politico. Uno dei pensieri che ho fatto mio è il seguente: “Per raggiungere un obiettivo bisogna crederci, talvolta in modo irrazionale. In questo modo la possibilità di successo aumenta’’ poiché lo ritengo rappresentativo del mio percorso di lotta alla mafia e alla criminalità organizzata. Egli stesso si definiva un semplice cittadino che, con i pochi mezzi a sua disposizione, provava ad affermare quelle idee che a suo dire non sono né di destra né di sinistra poiché si tratta unicamente di idee buone o cattive. Tante sono le cose dette da Gianroberto Casaleggio, che condivido appieno e che hanno contribuito alla mia decisione di entrare in questa grande famiglia. 
Ho ritenuto opportuno fare questa premessa perché chiunque avesse deciso di candidarsi in nome di questi ideali avrebbe dovuto essere un cittadino modello, giusto e osservante delle regole e delle leggi e con una fedina penale limpida. Solo in questo caso il Movimento mi avrebbe rappresentata, anche perché negli anni si era battuto in nome della verità, della giustizia e della legalità affiancando i testimoni di giustizia e addirittura accompagnandoli e ascoltandoli in commissione parlamentare antimafia. Ma se ad oggi mi trovo a scrivere tutto ciò è perché, in due anni, di questi ideali non ho visto attuare neanche l’ombra. 
Per cominciare, in commissione giustizia i deputati sono incaricati di proporre emendamenti o modifiche su qualsiasi proposta di legge avallata o scritta dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal suo ufficio legislativo. Ma dopo mesi di sedicenti confronti, di tutto il lavoro parlamentare non rimane nulla. È sempre il ministro a decidere tutto e sicuramente non in autonomia, poiché il 90% degli emendamenti portati in commissione e poi in aula vengono bocciati e spesso senza alcuna motivazione valida. 
Sicuramente sono state fatte leggi importanti come lo “Spazza corrotti’’, il “416-ter”, la “riforma della prescrizione’’, l’inserimento del “Troyan’’ come strumento per le intercettazioni, ma di fatto rese vane nel momento in cui vengono mandati agli arresti domiciliari ergastolani del 41bis tramite una semplice circolare concordata con gli organi del Dap e il ministro Bonafede. La suddetta circolare manda infatti agli arresti domiciliari pericolosi criminali ,che hanno ucciso anche bambini, solo perché ammalati e ultra settantenni. Non nego il diritto sacrosanto alla salute, ma così come è stata applicata la legge riguardo l’ormai defunto Boss Corleonese Totò Riina, curato fino all’ultimo giorno in carcere, così doveva e deve avvenire per tutti gli altri boss mafiosi, altrimenti dov’è il diritto dell’essere uguali di fronte alla legge che tanto viene evidenziato nelle aule dei tribunali? Come può un cittadino fidarsi dello Stato se viene messa in pericolo in primis la propria sicurezza? I testimoni e i collaboratori che hanno contribuito al loro arresto come possono avere certezze di sicurezza? E chi vuole iniziare questo percorso di legalità come può davvero affidarsi allo Stato, se quest’ultimo non dimostra stabilità rendendo effettiva la pena di persone che hanno ancora le mani sporche di sangue?
Possiamo fare le leggi migliori di questo mondo, possiamo anche modificare la Costituzione, ma se poi non rendiamo reali questi cambiamenti come possiamo professare ideali giusti se siamo noi stessi a tradirli?
Nella stessa commissione Giustizia alcuni dei componenti sono stati “inseriti” e con incarichi importanti e di responsabilità, non per meriti o per competenze, tanto meno perché addetti ai lavori, ma solo perché uomini del ministro o affini.
Sono anch'io un membro della commissione antimafia dove coordino il comitato sui testimoni e collaboratori di giustizia e imprenditori vittime di racket e usura. Ho coordinato diverse audizioni, circa 45, dalle quali è emerso tutto il loro disagio. Per quanto riguarda "testimoni" e "collaboratori", anche se sono due figure ben distinte, ascoltandoli è apparso evidente che queste persone vivono da anni in un sistema di protezione che tutto fa fuorché proteggerli (si veda il caso Bruzzese, familiare di collaboratore di giustizia ucciso il 25 dicembre 2018 in regime di protezione in località protetta). Tutti lamentano l’impossibilità di cominciare una nuova vita, dopo anni di spostamenti da una località protetta all’altra, chiedendo cambio di generalità e reinserimento socio-lavorativo per loro e per i loro familiari. Alcuni, dopo più di 10 anni in un programma di protezione oppressivo e limitante, si ritrovano senza la possibilità di un futuro. Puntualmente, ad ogni cambio di governo, entrambe le figure sopracitate chiedono di essere ascoltate per risolvere queste problematiche, e puntualmente i testimoni vengono auditi senza alcuna risposta certa e concreta. Per i collaboratori invece non è prevista audizione, potendo loro illustrare, solo per iscritto e tramite i Nop, le proprie esigenze, per la maggior parte disattese e senza alcuna risposta. Dico questo perché dal 1991 a oggi ho visto avvicendarsi numerosi Sottosegretari e Vice ministri dell'Interno, che hanno avuto questa delega speciale ma che di fatto, non dando risposte certe, hanno procurato tantissimi ricorsi al TAR da parte di queste categorie per difendere i loro diritti, vanificati da un sistema incancrenito di falsa burocrazia e gestito con circolari interne che disattendono le leggi vigenti.
Il nostro sistema di protezione, sulla carta, è uno dei migliori esistenti al mondo, ribadisco sulla carta, perché molto spesso viene disatteso modificando e subordinando la vita dei protetti e dei familiari agli interessi economici dello Stato.
I testimoni e i collaboratori sono delle semplici pedine lasciate allo sbando senza alcun supporto psicologico. 
Riguardo gli imprenditori, si possono dividere in due categorie: la prima comprende i soggetti inseriti in un programma di protezione i quali, allontanati dalle proprie aziende che necessariamente falliscono in quanto abbandonate a loro stesse, dopo anni si trovano alle prese con assurde richieste da parte del fisco.
La seconda categoria include gli imprenditori che denunciano, non sono inseriti in un programma di protezione, non vengono ricevuti dalle prefetture locali, sono abbandonati senza alcuna tutela e nel migliore dei casi usufruiscono della legge 44/99 che concede loro un riconoscimento di danni estorsivi, che puntualmente arriva dopo anni, quando l’azienda è ormai chiusa o addirittura fallita.
Tutte le problematiche che ho elencato sono state puntualmente da me portate a conoscenza degli organi competenti, che ad oggi hanno audito alcuni di questi soggetti, senza risolvere nulla. 
Non nascondo l’amarezza per tutto il lavoro che ho fatto, non solo in questi due anni da deputato ma anche negli anni quale semplice "testimone di giustizia", lavoro vanificato da persone che non solo non si sono mai occupate di antimafia con la formazione adeguata, ma che non hanno ascoltato il mio urlo di dolore che non è altro che la voce di migliaia di persone che non hanno modo di farsi ascoltare e che io mi pregio di rappresentare. Sono stata additata come, e scusate il termine, ‘’rompicoglioni’’, solo perché difendo a spada tratta i diritti di chi come me è stato ‘’spremuto come un limone’’ da organi dello Stato e abbandonato. Sono fiera di essere così come vengo definita, specialmente da colui che per primo mi ha chiamata così, perché ho avuto la certezza che in questa specifica commissione, dove si decide della vita e della morte delle persone, vengono nominati personaggi che non avrebbero mai avuto il coraggio denunciare neanche un semplice furto di galline e nonostante ciò hanno l’arroganza di non ascoltare chi per anni ha vissuto in un sistema di protezione a dir poco surreale.
Negli anni, non solo io ma anche altri testimoni di giustizia abbiamo offerto la nostra collaborazione per migliorare il sistema, ma tutto ciò è rimasto inascoltato. Ad oggi pochissime persone hanno ancora la forza di denunciare, molti scappano dal programma di protezione ritornando nella terra di origine, preferendo farsi ammazzare che morire succubi di un sistema inesistente, inadeguato che ormai è imploso, gestito da persone quantomeno incompetenti.
A livello locale si sono commessi errori analoghi, avendo selezionato candidati sindaco privi delle competenze necessarie in una realtà così complessa qual è la Sicilia, certificandoli attraverso la piattaforma Rousseau, ma dopo avere scartato a tavolino candidature senza motivazioni valide.
Alla luce di tutto ciò non voglio essere considerata complice di quanto è accaduto nonché chiudere gli occhi su quanto sta accadendo: ribadisco che non ho mai chiesto poltrone o privilegi ma solo di essere ascoltata e di continuare a fare antimafia vera nelle istituzioni competenti.
Ho un preciso dovere verso i ragazzi delle scuole ai quali parlo di Verità, Giustizia e Legalità, ai quali dico di non scendere mai a compromessi, di non chiedere raccomandazioni, di essere se stessi e di guadagnare e raggiungere gli obiettivi prefissati in base al merito; è anche per loro che non posso restare in un Movimento che per anni ha ripetuto i concetti di: Onestà, Meritocrazia e Giustizia ma che alla prova dei fatti è sceso a compromessi, ha costruito cordate, ha attribuito incarichi delicati a individui privi della formazione necessaria per gestire attività vitali per la nostra Repubblica. 
Se, come mi diceva “Zio Paolo” (Borsellino): ‘’Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo’’, ebbene ho la netta sensazione che non è la guerra quella che il Movimento ha fatto in questi due anni.
Non si dica mai che ho preso questa decisione a cuor leggero e, sono ancora parole di Paolo Borsellino: “è normale che esista la paura in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio, non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti. Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola... La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità’’.
A conclusione, faccio presente di essere in regola con le restituzioni e con la rendicontazione che il Movimento ha richiesto ai portavoce, soprattutto non sento in alcun modo di tradire i miei elettori i quali mi hanno conferito l’onore e l’onere di essere eletta alla Camera dei deputati sotto il simbolo del Movimento.
La mia lotta per la Legalità, la Giustizia e la Verità continua senza sosta, perché iniziò ben due decenni prima della nascita del Movimento e, se il Cielo mi aiuta, continuerà altri decenni a favore della mia gente, della Sicilia, dell'Italia tutta, in memoria di chi ha dato la propria vita per lo Stato senza scendere mai ad alcun compromesso.
Tutto ciò premesso mi dimetto dal Movimento 5 Stelle, che non mi rappresenta più, continuando la mia attività di parlamentare.
Piera Aiello

domenica 5 gennaio 2020

Cosa nostra uccideva i siciliani coraggiosi anche d'inverno: Giuseppe Fava, detto Pippo, come Piersanti Mattarella

L'assassinio di Piersanti Mattarella venne compiuto il 6 gennaio del 1980, mentre la famiglia Mattarella si stava recando ad assistere alla  messa festiva. 
La sera del 5 gennaio 1984  Giuseppe Fava -detto Pippo-veniva massacrato a Catania da due killer del clan della famiglia Santapaola .
Così si può leggere su Wikipedia alla voce che lo riguarda: "Pippo Fava è stato è stato uno scrittore, giornalista, drammaturgo, saggista e sceneggiatore (...) direttore responsabile del Giornale del Sud e fondatore de I Siciliani, giornale "antimafia" in Sicilia(...) il secondo intellettuale a essere ucciso da cosa nostra  dopo  Peppino Impastato (9 maggio 1978)."
Cosa voglia dire essere intellettuale in Sicilia, intellettuale e siciliano come Peppino Impastato, cosa significa dirigere un giornale antimafia ( non l'antimafia "da palcoscenico" -quella di coloro che indossano la maschera dell'impegno sulle ribalte della politica e della cosiddetta società civile-   nè quella dei "professionisti dell'antimafia"-quella delle carriere politiche o professionali costruite sul tema-mafie) lo si comprende quando si pensa che Giuseppe Fava fu fra i primi a parlare del “terzo livello del potere mafioso”: l'intreccio perverso, le relazioni indicibili, che le mafie riescono a intessere nelle varie componenti delle comunità, l'utilizzo degradato del "potere politico" e il conseguente intreccio tra politica, mafia e Stato. 
Intervistato da Enzo Biagi il 28 dicembre 1983,  fra le altre cose, Fava pronunciò parole "eretiche": «(...) Mi rendo conto che c'è un'enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante (...) ». 


In quella intervista, da intellettuale Fava  sottolineò l'importanza della memoria, della conoscenza,  ricordando gli eroi dimenticati  della lotta secolare che i siciliani, a loro modo, combattono contro la mafia. "Io vorrei che gli italiani sapessero che non è vero che i siciliani sono mafiosi(...)". Ricordò uno di quegli eroi dimeticati, Placido Rizzotto :"un sindacalista "pazzo", pazzo alla maniera nobile del termine, (...) che si illudeva di poter redimere i poveri di Corleone e come un pazzo andava all'occupazione delle terre(...), un pazzo che gettava il seme della rivolta in una terra, in un territorio, tradizionalmente dominato dalla mafia", "Fava ricordò come "(...) tutti gli uomini che sono caduti negli ultimi tre o quattro anni sono tutti siciliani, gli eroi della lotta contro la mafia sono tutti siciliani, con l'esclusione di Carlo Alberto Dalla Chiesa il quale, tutto sommato, era anche lui un "siciliano" perchè era stato a comandare i carabinieri di Palermo per tanto tempo(...)".
Giuseppe Fava conduceva la sua battaglia culturale contro la mafia, cosa nostra da intellettuale, da giornalista.  Nel suo ultimo intervento nelle vesti di direttore de Il Giornale del Sud, Egli descrive precisamente quali sono le fondamenta, le radici, su cui deve poggiare a suo parere un "giornale". Il titolo di quell'articolo era: "Lo spirito di un Giornale". Il giorno dopo la pubblicazione di quell'articolo Fava sarebbe stato licenziato. All'inizio del 1983, insieme ad altri, Fava fonderà  a Catania il giornale "I Siciliani", un foglio che si contraddistinguerà per l'analisi e il contrasto culturale al fenomeno mafioso.
Riportiamo uno stralcio de "Lo spirito di un Giornale"

"(...) Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero.
Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze. le sopraffazioni. le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! Ecco lo spirito politico del Giornale del Sud è questo! La verità! Dove c’è verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà!

Se l’Europa degli anni trenta-quaranta non avesse avuto paura di affrontare Hitler fin dalla prima sfida di violenza, non ci sarebbe stata la strage della seconda guerra mondiale, decine di milioni di uomini non sarebbero caduti per riconquistare una libertà che altri, prima di loro, avevano ceduto per vigliaccheria. E’ una regola morale che si applica alla vita dei popoli e a quella degli individui. A coloro che stavano intanati, senza il coraggio di impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, nè la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!”

lunedì 15 dicembre 2014

La Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento

Neppure di questo sentirete parlare nei telegiornali: la mafia dell'antimafia
Sono passati pochi giorni dall'ultimo atto intimidatorio subito da Pino Maniaci: i suoi due cani sono stati uccisi uccisi nella modalità di un chiaro avvertimento mafioso, impiccati ad un palo. Ma Pino Maniaci non si ferma, anzi chiede di essere ascolatato dagli organi competenti per gettare una luce, finalmente, su quello che potrebbe rivelarsi come l'ennesimo scandalo: la mafia dell'antimafia. Lo stesso Don Ciotti lo aveva ribadito con forza ( leggi qui) ancora  poche settimane orsono, chiudendo i lavori di "CONTROMAFIE"( leggi qui) : basta parlare di "antimafia" divenuta oramai una parola svuotata di significato proprio da tanti che se ne sono serviti per costruire carriere e intessere affari. Noi preferiamo la parole RESPONSABILITA'! E Pino Maniaci, ancora una volta, ci dimostra che occorre saperla assumere, la responsabilità!
Fonte: Antimafiaduemila e Change.org
Questa petizione sarà consegnata a:
Presidente Commissione parlamentare antimafia
Rosy Bindi
Vicepresidente Commissione parlamentare antimafia
Luigi Gaetti
Vicepresidente Commissione parlamentare antimafia
Claudio Fava
Segretario Commissione parlamentare antimafia
Angelo Attaguile
Segretario Commissione parlamentare antimafia
Marco Di Lello

La Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento


C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia.
Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. 
Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. 
A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159.
Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. 
I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. 
Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempisticheIn media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. 
Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa.
La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. 
La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro.
Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi.
Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco. Pino Maniaci

sabato 31 maggio 2014

Don Luigi Ciotti: "Antimafia? Una parola che va eliminata"

Don Luigi Ciotti.Antimafia. Una volta era una parola nobile, ora snaturata da un uso superficiale: è diventata un'etichetta. Se la eliminassimo, sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione. L'ho scritto anche a papa Francesco
Proponga allora una parola nuova! 
«Responsabilità. Sembra semplice, ma è la più impegnativa e basterebbe da sola a cambiare le cose»

L'antimafia. Lo abbiamo capito da tempo: per certi personaggi, per certi ambienti, "l'antimafia" è un affare favoloso. Carriere, denaro ( da gestire o da drenare), lustrini e ribalte. Da qui le divisioni, i personalismi. le "splendide carriere" dietro a cui si nasconde "il nulla", se non il vacuo riferimento a storie e nomi speculati per raggiungere e conquistare i lustrini,  le ribalte, i privilegi.
La mia personale opinione è che "fare memoria" non serve a molto se non capiamo che occorre guardarsi intorno -ovunque- per impedire che si generino situazioni e comportamenti mutuati dalla matrice mafiosa. Lo ripetiamo sempre: i meccanismi ( mafiosi) sono talmente semplici ed efficaci da essere "normalmente" praticati anche da chi "mafioso" non è dal punto di vista penale-giudiziario. Quanto poi è accaduto in queste elezioni, e proprio in Piemonte, ribadisce -a mio parere - la denuncia dell'oramai ex procuratore Caselli, denuncia pronunciata nella requisitoria al processo Minotauro: non bastano i giudici , non bastano i processi se la società civile (meglio sarebbe parlare di società "responsabile") non rivendica il limite dell'osceno, del "non accettabile".E allora accade che anche la lezione a Bassano del Grappa di Paolo Borsellino la si  metta da parte (anche quella?), accantonata perchè non faccia troppo male, perchè non dia troppo fastidio:


E allora, anche se si tratta di rapporti non penalmente rilevanti, è giusto, "è bello", che la politica abbia "scelto" i suoi uomini senza provare la vergogna di candidare certi personaggi nella regione che ha visto assassinare Bruno Caccia?
Occorre riflettere! Tutti!...noi per primi! Questa è la mia opinione
Arturo Francesco Incurato
referente presidio LIBERA "Rita Atria" Pinerolo


Fonte : L'ESPRESSO

In un'intervista a “l'Espresso” nel numero in edicola venerdì 30 maggio, Don Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele e promotore di Libera, prete da sempre in prima linea contro l'illegalità, prende le distanze dalla retorica dell'antimafia.
Don Luigi Ciotti. “Antimafia. Una volta era una parola nobile, ora snaturata da un uso superficiale: è diventata un'etichetta. Se la eliminassimo, sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione. L'ho scritto anche a papa Francesco

- Il termine “antimafia”? 
"Una di quelle parole «una volta nobili e ora snaturate da un uso superficiale che le ha rese inservibili».
A 50 anni dai voti sacerdotali, ricostruisce la sua vita di prete di periferia e parla del nuovo papa. «Ora l'aria è cambiata. Pensi che Francesco ha avuto persino l'umiltà di dirmi: “Mi mandi qualche appunto sulle mafie”»

- Che cosa gli ha scritto? 
«Quello che so e quello che va cambiato. A cominciare da parole una volta nobili e ora snaturate da un uso superficiale che le ha rese inservibili. Oggi tutti parlano di pace, di diritti, di giustizia e soprattutto di legalità, che è diventata fluida, malleabile, piegata ai bisogni di chi la pronuncia. L'uguaglianza di fronte alla legge ha bisogno di uguaglianza sociale, altrimenti la legalità diventa una discriminazione tra chi sta bene e chi tira la cinghia. Per non parlare dell'antimafia. E' ormai una carta d'identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione. Per fortuna anche qualche politico lo ha capito. Rosy Bindi, presidente della Commissione antimafia, all'inizio criticata perché ritenuta incompetente, è stata qui ore e ore ad ascoltare con umiltà la nostra esperienza, ha approfondito e oggi si muove molto bene in un territorio scivoloso e difficile, a cui l'etichetta di antimafia non aggiunge niente. Anzi»

Proponga allora una parola nuova! 
«Responsabilità. Sembra semplice, ma è la più impegnativa e basterebbe da sola a cambiare le cose»