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domenica 5 gennaio 2020

Cosa nostra uccideva i siciliani coraggiosi anche d'inverno: Giuseppe Fava, detto Pippo, come Piersanti Mattarella

L'assassinio di Piersanti Mattarella venne compiuto il 6 gennaio del 1980, mentre la famiglia Mattarella si stava recando ad assistere alla  messa festiva. 
La sera del 5 gennaio 1984  Giuseppe Fava -detto Pippo-veniva massacrato a Catania da due killer del clan della famiglia Santapaola .
Così si può leggere su Wikipedia alla voce che lo riguarda: "Pippo Fava è stato è stato uno scrittore, giornalista, drammaturgo, saggista e sceneggiatore (...) direttore responsabile del Giornale del Sud e fondatore de I Siciliani, giornale "antimafia" in Sicilia(...) il secondo intellettuale a essere ucciso da cosa nostra  dopo  Peppino Impastato (9 maggio 1978)."
Cosa voglia dire essere intellettuale in Sicilia, intellettuale e siciliano come Peppino Impastato, cosa significa dirigere un giornale antimafia ( non l'antimafia "da palcoscenico" -quella di coloro che indossano la maschera dell'impegno sulle ribalte della politica e della cosiddetta società civile-   nè quella dei "professionisti dell'antimafia"-quella delle carriere politiche o professionali costruite sul tema-mafie) lo si comprende quando si pensa che Giuseppe Fava fu fra i primi a parlare del “terzo livello del potere mafioso”: l'intreccio perverso, le relazioni indicibili, che le mafie riescono a intessere nelle varie componenti delle comunità, l'utilizzo degradato del "potere politico" e il conseguente intreccio tra politica, mafia e Stato. 
Intervistato da Enzo Biagi il 28 dicembre 1983,  fra le altre cose, Fava pronunciò parole "eretiche": «(...) Mi rendo conto che c'è un'enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante (...) ». 


In quella intervista, da intellettuale Fava  sottolineò l'importanza della memoria, della conoscenza,  ricordando gli eroi dimenticati  della lotta secolare che i siciliani, a loro modo, combattono contro la mafia. "Io vorrei che gli italiani sapessero che non è vero che i siciliani sono mafiosi(...)". Ricordò uno di quegli eroi dimeticati, Placido Rizzotto :"un sindacalista "pazzo", pazzo alla maniera nobile del termine, (...) che si illudeva di poter redimere i poveri di Corleone e come un pazzo andava all'occupazione delle terre(...), un pazzo che gettava il seme della rivolta in una terra, in un territorio, tradizionalmente dominato dalla mafia", "Fava ricordò come "(...) tutti gli uomini che sono caduti negli ultimi tre o quattro anni sono tutti siciliani, gli eroi della lotta contro la mafia sono tutti siciliani, con l'esclusione di Carlo Alberto Dalla Chiesa il quale, tutto sommato, era anche lui un "siciliano" perchè era stato a comandare i carabinieri di Palermo per tanto tempo(...)".
Giuseppe Fava conduceva la sua battaglia culturale contro la mafia, cosa nostra da intellettuale, da giornalista.  Nel suo ultimo intervento nelle vesti di direttore de Il Giornale del Sud, Egli descrive precisamente quali sono le fondamenta, le radici, su cui deve poggiare a suo parere un "giornale". Il titolo di quell'articolo era: "Lo spirito di un Giornale". Il giorno dopo la pubblicazione di quell'articolo Fava sarebbe stato licenziato. All'inizio del 1983, insieme ad altri, Fava fonderà  a Catania il giornale "I Siciliani", un foglio che si contraddistinguerà per l'analisi e il contrasto culturale al fenomeno mafioso.
Riportiamo uno stralcio de "Lo spirito di un Giornale"

"(...) Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero.
Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze. le sopraffazioni. le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! Ecco lo spirito politico del Giornale del Sud è questo! La verità! Dove c’è verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà!

Se l’Europa degli anni trenta-quaranta non avesse avuto paura di affrontare Hitler fin dalla prima sfida di violenza, non ci sarebbe stata la strage della seconda guerra mondiale, decine di milioni di uomini non sarebbero caduti per riconquistare una libertà che altri, prima di loro, avevano ceduto per vigliaccheria. E’ una regola morale che si applica alla vita dei popoli e a quella degli individui. A coloro che stavano intanati, senza il coraggio di impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, nè la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!”

venerdì 5 gennaio 2018

Cosa nostra uccideva i siciliani coraggiosi anche d'inverno: Giuseppe Fava, detto Pippo, come Piersanti Mattarella

L'assassinio di Piersanti Mattarella venne compiuto il 6 gennaio del 1980, mentre la famiglia Mattarella si stava recando ad assistere alla  messa festiva. 
La sera del 5 gennaio 1984  Giuseppe Fava -detto Pippo-veniva massacrato a Catania da due killer del clan della famiglia Santapaola .
Così si può leggere su Wikipedia alla voce che lo riguarda: "Pippo Fava è stato è stato uno scrittore, giornalista, drammaturgo, saggista e sceneggiatore (...) direttore responsabile del Giornale del Sud e fondatore de I Siciliani, giornale "antimafia" in Sicilia(...) il secondo intellettuale a essere ucciso da cosa nostra  dopo  Peppino Impastato (9 maggio 1978)."
Cosa voglia dire essere intellettuale in Sicilia, come Peppino Impastato, cosa significava dirigere un giornale antimafia ( non l'antimafia "da palcoscenico" -quella di coloro che indossano la maschera dell'impegno sulle ribalte della politica e della cosiddetta società civile-   nè quella dei "professionisti dell'antimafia"-quella delle carriere politiche o professionali costruite sul tema-mafie) lo si comprende quando si pensa che Giuseppe Fava fu fra i primi a parlare del “terzo livello del potere mafioso”: l'intreccio perverso, le relazioni indicibili, che le mafie riescono a intessere nelle varie componenti delle comunità, l'utilizzo degradato del "potere politico" e il conseguente intreccio tra politica, mafia e Stato. 
Intervistato da Enzo Biagi il 28 dicembre 1983,  fra le altre cose, Fava pronunciò parole "eretiche": «(...) Mi rendo conto che c'è un'enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante (...) ». 


In quella intervista, da intellettuale Fava  sottolineò l'importanza della memoria, della conoscenza,  ricordando gli eroi dimenticati  della lotta secolare che i siciliani, a loro modo, combattono contro la mafia. "Io vorrei che gli italiani sapessero che non è vero che i siciliani sono mafiosi(...)". Ricordò uno di quegli eroi dimeticati, Placido Rizzotto :"un sindacalista "pazzo", pazzo alla maniera nobile del termine, (...) che si illudeva di poter redimere i poveri di Corleone e come un pazzo andava all'occupazione delle terre(...), un pazzo che gettava il seme della rivolta in una terra, in un territorio, tradizionalmente dominato dalla mafia", "Fava ricordò come "(...) tutti gli uomini che sono caduti negli ultimi tre o quattro anni sono tutti siciliani, gli eroi della lotta contro la mafia sono tutti siciliani, con l'esclusione di Carlo Alberto Dalla Chiesa il quale, tutto sommato, era anche lui un "siciliano" perchè era stato a comandare i carabinieri di Palermo per tanto tempo(...)".
Giuseppe Fava conduceva la sua battaglia culturale contro la mafia, cosa nostra da intellettuale, da giornalista.  Nel suo ultimo intervento nelle vesti di direttore de Il Giornale del Sud, Egli descrive precisamente quali sono le fondamenta, le radici, su cui deve poggiare a suo parere un "giornale". Il titolo di quell'articolo era: "Lo spirito di un Giornale". Il giorno dopo la pubblicazione di quell'articolo Fava sarebbe stato licenziato. All'inizio del 1983, insieme ad altri, Fava fonderà  a Catania il giornale "I Siciliani", un foglio che si contraddistinguerà per l'analisi e il contrasto culturale al fenomeno mafioso.
Riportiamo uno stralcio de "Lo spirito di un Giornale"

"(...) Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero.
Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze. le sopraffazioni. le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! Ecco lo spirito politico del Giornale del Sud è questo! La verità! Dove c’è verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà!

Se l’Europa degli anni trenta-quaranta non avesse avuto paura di affrontare Hitler fin dalla prima sfida di violenza, non ci sarebbe stata la strage della seconda guerra mondiale, decine di milioni di uomini non sarebbero caduti per riconquistare una libertà che altri, prima di loro, avevano ceduto per vigliaccheria. E’ una regola morale che si applica alla vita dei popoli e a quella degli individui. A coloro che stavano intanati, senza il coraggio di impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, nè la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!”

venerdì 26 settembre 2014

Mauro Rostagno. Non serve cercare un posto in questa società, ma creare una società dove valga la pena di trovare un posto

” Non serve cercare un posto in questa società, ma creare una società dove valga la pena di trovare un posto. Questa la citazione più cara a Mauro Rostagno. Rostagno era nato a Torino, 6 marzo 1942. Fondatore di Lotta Continua, profondamente contrario alla lotta armata che segnarà drammaticamente il destino di quegli anni, morì in terra di Sicilia , a Lenzi di Valderice, 26 settembre 1988. Un delitto sarebbe rimasto senza processo se non fosse stato per l’ex capo della Mobile Linares e un poliziotto vecchio stampo, Nanai Ferlito, i quali fecero scoprire che, nonostante anni di indagine (“malfatte” è stato sentito dire più volte in aula), non erano mai stati fatti confronti balistici mentre “i soliti depistaggi” avevano fatto seguire le solite “altre strade”.
Dalla metà degli anni ottanta, Rostagno lavora come giornalista e conduttore anche per l'emittente televisiva locale Radio Tele Cine (RTC). Attraverso la televisione,denuncia le collusioni tra mafia e politica locale: con il suo lavoro di denuncia e di ricerca della verità, Mauro Rostagno firmò la sua condanna a morte. 
Una intervista di Mauro Rostagno a Paolo Borsellino

Lo scorso maggio, finalmente, la verità processuale sul suo omicidio viene finalmente scritta e rivelata.
Riportiamo l'articolo de La Repubblica dello scorso 16 maggio, all'indomani della condanna degli assassini di Mauro Rostagno

 Fonte : La Repubblica


TRAPANI - Ergastolo per entrambi gli imputati.  E' arrivata alle 23.30 la sentenza della Corte d'Assise di Trapani nel processo a carico del capomafia trapanese Vincenzo Virga e del sicario della famiglia mafiosa Vito Mazzara, accusati di essere rispettivamente il mandante e l'esecutore dell'omicidio di Mauro Rostagno, il sociologo e giornalista ucciso in contrada Lenzi, a Valderice (Trapani) il 26 settembre 1988. Inflitta anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. 
La Corte, presieduta da Angelo Pellino, era riunita in Camera di Consiglio dalle 12 di martedì scorso, nell'aula bunker del carcere di Trapani. Per i due imputati, entrambi detenuti per altre condanne, i pm della Dda di Palermo Gaetano Paci e Francesco Del Bene avevano chiesto l'ergastolo. Per la pubblica accusa, "il modus operandi seguito nel delitto Rostagno è quello tipicamente mafioso" e il movente sarebbe da rincondurre "all'attività giornalistica, destabilizzante della quiete criminale" che Rostagno conduceva dagli schermi dell'emittente televisiva locale Rtc. I difensori Stefano Vezzadini e Giancarlo Ingrassia, per Virga, e Vito e Salvatore Galluffo, per Mazzara, avevano invece chiesto l'assoluzione dei loro assistiti "per non aver commesso il fatto".
In aula c'erano la figlia di Rostagno, Maddalena (oggi è il suo compleanno), l'ex compagna Chicca Roveri e la sorella del sociologo-giornalista Carla, parti civili nel processo. Presenti anche l'ex pm e commissario della Provincia di Trapani Antonio Ingroia, che riaprì il caso, e il portavoce del M5S al Senato, il trapanese Vincenzo Santangelo. La lettura della sentenza è stata accolta con evidente soddisfazione, accompagnata in alcuni casi da un pianto liberatorio.
La condanna di Virga e Mazzara fa piazza pulita della tesi che aveva escluso la matrice mafiosa del delitto e aveva puntato all'interno della comunità Saman per tossicodipenti, fondata da Rostagno, adombrando un movente che mescolava storie private con una confusa gestione della struttura. Per lungo tempo, ha tuonato l'accusa, la ricerca della verità è stata frenata da "sottovalutazioni inspiegabili, omissioni, miopie".
"Se la Corte d'Assise è arrivata a questa decisione - dice ora il pm Paci - è per lo scrupolo e il rigore impiegati in questi anni di indagine nel non tralasciare alcune ipotesi tra quelle emerse nel tempo".
Il collegio ha condannato i due imputati al risarcimento delle parti civili tra le quali l'Ordine dei giornalisti, la comunità Saman, di cui Rostagno era il fondatore, i familiari del sociologo e l'Associazione della stampa. La Corte ha anche disposto la trasmissione in Procura delle deposizioni di una serie di testimoni tra i quali l'ex sottufficiale dei carabinieri Beniamino Cannas e l'editrice dell'emittente televisiva Rtc, Caterina Ingrasciotta, televisione privata dalla quale Rostagno denunciava Cosa nostra e i suoi legami con la massoneria deviata.

lunedì 20 maggio 2013

Ventun anni dopo i giorni di Falconel’Italia è ancora lontana dai suoi ideali.


Impegnarsi oggi nella cultura antimafia significa occuparsi, a nostro parere, non solo dei mafiosi ma anche dei comportamenti mafiosi fatti propri anche da parte di coloro che mafiosi - nel senso stretto del termiìne- tali non sono:"(...) Noi dell’antimafia sociale affrontiamo ogni giorno e diretta­mente dei "poteri". Non delle ideologie, non delle costruzioni complesse, ma semplicemente dei "potenti" che comandano e vo­gliono continuare a farlo(...)"

Fonte : I Siciliani
I giorni di Falcone
Ventun anni dopo i giorni di Falcone – che per noi antimafiosi segnano una svolta nella storia – l’Italia è ancora lontana dai suoi ideali. Una parte del popolo è molto regredita sul piano ci­vile. E quella che invece resta fedele alla democrazia è estrema­mente divisa e priva di riferimenti politici e organizzativi ade­guati.
La crisi economica – dovuta a una lunga gestione rozza e egoi­sta – ha la sua parte in questo. Ma pesano ancor più i lunghi anni di democrazia “liquida”, di politica-spettacolo, di leader “carismatici”, di delega a qualcun altro. Quel che avevano con­quistato i cittadini, lo perdono gli spettatori. In questo senso la crisi è “morale” – non come moralità astratta, ma come insieme di valori comuni – e non solo politica o istituzionale.
L’antimafia, in tutti questi anni, ha fatto da collante per i mi­gliori. Indicando un servizio comune, un’etica condivisa, un modo militante e civile di vivere il bene comune. Per due gener­azioni di giovani, essa è stata una scuola e una Città.
Adesso, probabilmente, è arrivato il momento di fare un passo avanti. Portare questi valori in un ambito più vasto, organizzarne la realizzazione pratica, farne – in una parola – una “politica” militante. Non per dividere ancora, ma anzi per unire.
E di unità c’è bisogno, fra i cittadini non-sudditi, in questo momento. Sono la maggioranza, ma non riescono a farsene uno strumento. Le loro lotte “plebee”, che sono numerosissime, con­tinuamente ondeggiano fra protesta senza seguito e ri-assorbi­mento in questa o quella lotta “patrizia” di palazzo.
L’elementare concetto dell’unità fra i poveri, della solidarietà fra vite simili e simili interessi, sembra ancora un’utopia strana.
Noi dell’antimafia sociale affrontiamo ogni giorno e diretta­mente dei "poteri". Non delle ideologie, non delle costruzioni complesse, ma semplicemente dei "potenti" che comandano e vo­gliono continuare a farlo. Questa è una buona metafora, e anche un modello, che potrebbe utilmente estendersi all’intera società.
La rete, i beni comuni, la mobilitazione a-ideologica su singoli obiettivi sono altri modelli che s’intrecciano ad esso, e che nella nostra pratica noi cerchiamo di unire sempre più strettamente.
Da qui la buona politica, che verrà coi suoi tempi. Dobbiamo accelerarli il più possibile, perché la crisi – lasciata a se stessa – è inumana. E lancia segnali “non-politici” (in realtà profonda­mente politici) di disumanità e de-civilizzazione, come questo: venticinque donne, nei primi quattro mesi del 2013, uccise al­trettanti uomini. Bisogna fare presto.
I Siciliani