Visualizzazione post con etichetta Gian Carlo Caselli. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Gian Carlo Caselli. Mostra tutti i post

lunedì 10 gennaio 2022

"Criminalità organizzata dietro l'angolo": l'inchiesta di "Riforma- L'eco delle valli valdesi" sulle mafie presenti nei nostri territori

Ancora una volta ci tocca ringraziare un organo della stampa  locale, "Riforma- L'eco delle valli valdesi", per l'attenzione che dimostra verso il tema delle mafie presenti anche nella nostra regione,nei nostri territori, con la pubblicazione dell'inchiesta Criminalità organizzata dietro l'angolo, inchiesta riportata nell'edizione in edicola . 
Ad un mese dall'intervista rilasciata a Patrizio Righero, direttore di Vita  Diocesana (puoi leggere qui), si torna quindi a parlare di mafie e "pensiero mafioso", temi che altrimenti paiono essere "scomodi"e troppo spesso "scansati e messi da parte" anche nella nostra comunità,. Eppure  quanto dichiarato in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020 da Francesco SaluzzoProcuratore Generale della Repubblica di Torino, non lascia spazio a fraintendimenti: «Non vi è porzione del nostro territorio che sia rimasta immune dalla penetrazione della struttura criminale di natura mafiosa (...) un fenomeno pervasivo, insidioso, pericolosissimo. Di fronte al quale si registra, in molti casi, una certa “neutralità” del territorio e di sue componenti sociali nei confronti di questi personaggi: un atteggiamento spesso ambiguo, altre volte di soggezione, altre volte, purtroppo, come le indagini hanno dimostrato, una accettazione e una condivisione di fini e di strumenti criminali. È la mafia trasparente, che raramente uccide, ma si insinua nel mondo commerciale e cerca al contempo di condizionare la politica come avvenuto a Bardonecchia, a Leinì, Rivarolo e altrove. Sembra dunque mancare una “cultura dell’antimafia” capace di far comprendere la pericolosità di certe relazioni e situazioni, e di conseguenza di denunciarle".
Una dichiarazione, quella delProcuratore Francesco Saluzzo che, a nostro parere, rafforza,  l'auspicio che anche a Pinerolo si creino occasioni di riflessione e dibattito utili ad "una maggiore conoscenza del fenomeno mafioso e delle sue dinamiche, affinché non si riproducano condizioni che favoriscano la sua eventuale presenza e accrescenza".

L'inchiesta  Criminalità organizzata dietro l'angolo si compone di quattro distinti articoli, ognuno dei quali incentrato su un particolare aspetto del tema "mafie":
 
- "Il camaleonte mafioso e liquido" (di Gian Mario Gillio) è il titolo dell'intervista a Gian Carlo Caselli, magistrato Procuratore  della Repubblica di Torino. Ricordiamo le parole che il magistrato pronunciò nell'ambito del processo Minotauro nell'accorata requisitoria contro le cosiddette "relazioni esterne": “(...)La mafia c’è perché c’è mercato per i suoi servizi. Ci sono tante persone che traggono vantaggio dall’esistenza della mafia, persone che non hanno nessun interesse a denunciarla. Persone, politici e amministratori, che la legge penale non può punire perché la loro colpa è lopportunismo”. "Pecunia non olet!"

- "Fatti e  cronache nel Pinerolese" (di Claudio Geymonat): nell'articolo si riportano fatti e personaggi che testimoniano chiaramente della presenza mafiosa. Fra altre cose, ad esempio si ricorda che Vincenzo Riggio, uno dei più importanti narco-trafficanti italiani, aveva qui alcune delle sue proprietà: la cascina di Volvera, sequestratagli nel 1994 e divenuta luogo di aggregazione di Libera ("Cascina Arzilla"), e le due ville, a Valgioie e a Roletto, dove venne nuovamente arrestato nel 2007.

- "Un pastore contro la mafia" (di Claudio Geymonat): si "fa memoria" della storia di Pietro Valdo Panascia a Palermo, che si espose per primo e coraggiosamente contro “cosa nostra”, aprendo una nuova stagione.

-"Sentinella del territorio" (di Claudio Geymonat): è il titolo dell'intervista rilasciata da Arturo Francesco Incurato, referente del gruppo denominato Associazione "Rita Atria" Pinerolo, gruppo che oramai da un decennio si propone dicontribuire al contrasto culturale a mafie e "pensiero mafioso" attraverso incontri nelle scuole, l’attenzione verso la gestione del bene pubblico territorio-paesaggio, l’attenzione verso le crescenti ingiustizie e diseguaglianze all’interno della società.
Di seguito riportiamo il testo integrale dell'intervista.
Due parole sul tuo ruolo nell'associazione. 

Il ruolo del sottoscritto all’interno del gruppo denominato Associazione “Rita Atria” Pinerolo, già presidio “Rita Atria” Pinerolo dell’associazione LIBERA, è quello di referente: una sorta di “portavoce- raccoglitore” delle riflessioni e delle attività nate in questi dieci anni di attività attorno al tema delle”mafie”, tema che -anche a nostro parere- riveste un carattere eminentemente “culturale”. Da questa considerazione preliminare sono derivate le linee di  impegno che si sono succedute in questo decennio della nostra attività: gli incontri nelle scuole; l’attenzione verso la gestione del bene pubblico territorio-paesaggio; l’attenzione verso le crescenti ingiustizie e diseguaglianze all’interno di una società in cui il decadimento dei valori fondanti la nostra Democrazia appare preoccupante.

Le varie relazioni della Direzione investigativa antimafia da anni lanciano l'allarme sulla pervasiva presenza mafiosa in Piemonte come sancito dai noti processi di queste stagioni, e al contempo sottolineano una certa indole a non volere vedere, a non capire o meglio a fingere di non capire. Nel Pinerolese questa tendenza a una certa sottovalutazione pare addirittura ampliarsi: pochi casi di cronaca, poche denunce. Ma siamo un'isola felice ? O la realtà è un'altra? Eppure casi di cronaca qua e là nel tempo (estorsioni, sequestri) dovrebbero destare attenzione. 

Se il Pinerolese fosse davvero “un’isola felice”, libera da presenze mafiose, ovviamente non ci sarebbe che godere e gioire di questo privilegio. Tuttavia quanto accaduto nella nostra regione, in comunità a noi assai vicine, dovrebbe non solo destare attenzione ma pure stimolare ad una maggiore conoscenza del fenomeno mafioso e delle sue dinamiche, affinché non si riproducano condizioni che favoriscano la sua eventuale presenza e accrescenza. Il “sabaudo orgoglio” ostentato dalle comunità e dagli amministratori piemontesi nel recente passato, nei confronti della supposta estraneità della regione al fenomeno mafioso,  è del resto  miseramente crollato dinanzi alle risultanze dell’operazione “Minotauro” (giugno 2011) e del processo che ne è poi seguito. Gian Carlo Caselli , allora Procuratore capo di Torino, nel 2013 riserva a se stesso la  relazione sui rapporti dei mafiosi con la cosiddetta “zona grigia”, requisitoria che si trasforma in una “lezione” che non si deve dimenticare: “Perché la magistratura è stata lasciata sola? (…) La mafia c’è perché c’è mercato per i suoi servizi: ci sono tante persone che traggono vantaggio dall’esistenza della mafia, persone che non hanno nessun interesse a denunciarla. Persone, politici e amministratori, che la legge penale non può punire perché la loro colpa è l’opportunismo”.

Scopi primari della costituzione della vostra associazione: sono cambiati nel tempo rispetto a quanto vi aspettavate? 

Come abbiamo detto più volte detto,l’intento che ci eravamo posti era quello di provare ad essere “sentinelle  del territorio” attraverso un’attività di contrasto culturale conto mafie e “pensiero mafioso”. Il “pensiero mafioso”: così abbiamo definito il pericolo da cui dobbiamo tutti difenderci:  “cercare di ottenere quel che non ci meritiamo”, pensiero  che può albergare in ciascunno di noi, anche in coloro che “mafiosi” non possono essere propriamente detti. “Pensiero pericoloso” perché può indurre ad avvalersi sinanco dei “servizi” che le mafie possono offrire,  a conferma della frase scritta da Rita Atria all’indomani dell’uccisione di Paolo Borsellino:“(…)  La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci”.

Pnrr, una pioggia di miliardi sui territori, compreso il nostro: avete già segnali di un'attenzione particolare rivolta a queste ampie possibilità imprenditoriale? 

Auspichiamo e ci auguriamo che le nostre amministrazioni siano in grado di utilizzare le risorse che arriveranno dall’Europa con consapevolezza, capaci di eleborarare progetti e strategie coordinate e complessive, strategie che -per una volta- non si riducano a “grandi opere” a vantaggio  di “soliti noti” quanto piuttosto si realizzino “opere grandi” a vantaggio del bene lungimirante delle comunità. Le recenti dichiarazioni di Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaroe e uno dei magistrati cardine nella lotta alla’ndrangheta e ai suoi “opportunisti”, rilanciano l’allarme: “Questo per le cosche è un momento magico. Punta ai soldi del Recovery, mentre dall’agenda del governo scompare l’antimafia..(…) Oggi hanno una nuova arma: la corruzione.(…)”. Insomma, le parole di Gratteri non fanno che richiamare la storica “regola”: quando le mafie non fanno parlare di sé significa che godono di ottima salute  e conducono ottimi affari!

Credete che le amministrazioni locali, la società civile, parlo sempre delle nostre aree di riferimento, abbiano strumenti per contrastare la presenza di malavita organizzata sui propri territori. 

Il primo baluardo contro le mafie è da molti considerato la nostra stessa Carta Costituzionale. A nostro parere, proprio nei suoi Principi Fondamentali si ritrovano tutti gli stimoli e le indicazioni a cui debbono fare riferimento comunità e amministrazioni che vogliano impegnarsi responsabilmente per costituire una baluardo culturale contro le mafie: la difesa della dignità dell’uomo, il diritto al lavoro, allo studio, alla salute; la tutela del territorio e della cultura; l’importanza della ricerca; i diritti riconosciuti agli stranieri, ai migranti. Pertanto, facile comprendere quanto sia lungo il cammino ancora da compiere per costruire “anticorpi” efficaci che che pongano le comunità  al riparo dalle lusinghe devastanti delle mafie.

 

 




martedì 17 aprile 2018

Le mafie: dietro l'angolo di casa nostra

Anche il presidio LIBERA "Rita Atria" Pinerolo invita a partecipare all'incontro, organizzato dall'assessorato alla Cultura e Pari Opportunità del comune di Cumiana, che si terrà il giorno 20 aprile alle ore 21, presso la sala Carena: MAFIE: DIETRO L'ANGOLO DI CASA NOSTRA". 
L'incontro vedrà la partecipazione di Arturo Francesco Incurato, referente del presidio Libera "Rita Atria" Pinerolo, e dell'associazione "Ok Parliamone" di Pinerolo.
Secondo le intenzioni dell'amministrazione cumianese, questo primo incontro vuole essere l'inizio di un percorso di riflessione e sensibilizzazione condotta insieme con i cittadini . Così si legge nel comunicato diramato dall'amministrazione : "Riteniamo che sia sempre più fondamentale parlarne, condividere conoscenze ed esperienze, per far comprendere quanto mafie e "pensiero mafioso" siano intorno a noi...o dentro di noi attraverso comportamenti scorretti".

La frase di Gian Carlo Caselli riportata nel sottotitolo costituisce "la denuncia inquietante "contenuta nella requisitoria che l'allora  Procuratore capo di Torino pronuncia la mattina del 27 giugno 2013 ( leggi qui uno degli articoli) nell'ambito del cosiddetto "Processo Minotauro", il processo che disvela quello che, con qualche ipocrisia, si faceva finta di non vedere:  le mafie in Piemonte, la 'ndrangheta in Piemonte!
Significativamente, Gian Carlo Caselli si riserva proprio l'esposizione delle "relazioni esterne" della 'ndrangheta calabrese in Piemonte: imprenditori, uomini politici, amministratori, “pezzi” della società civile che per mera convenienza, per "opportunismo", diventano strumenti, se non addirittura complici, delle organizzazioni mafiose. Organizzazioni le quali, occorre ricordarlo, fondano da sempre la loro forza e il loro potere proprio sulle “relazioni sociali” che sono capaci di intessere in una comunità, in uno scambio di “reciproche convenienze”.
Anche di questo parleremo, ringraziando anticipatamente l'amministrazione di Cumiana per aver voluto proporre una serata di riflessione su di un tema "scomodo" e inquietante.

venerdì 23 giugno 2017

La Direzione Investigativa Antimafia accusa la politica: una certa classe dirigente è prona e collusa


Durissima relazione della DIA contro mafie e "pensiero mafioso". Quanto è stato presentato nella giornata di ieri dal procuratore nazionale F. Roberti e dalla presidente della commissione antimafia Rosy Bindi è un vero e propio atto di accusa ad "una certa classe dirigente è prona e collusa (alle mafie e al pensiero mafioso, aggiungiamo noi.) Pensiero mafioso che spesso vediamo governare azioni di personagi che non possiamo definire mafiosi.
Un passaggio della relazione richiama alla mente quanto scriveva Enrico Berlinguer nella sua celebre denuncia conto il degrado etico e morale della politica partitica italiana: "(...) I partiti di oggi sono soprattutto macchine
di potere e di clientela; scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss
"
Ieri, 22 giugno 2017, la Direzione Investigativa Antimafia sembra replicare quasi testualmente quei concetti: "Ampie sacche dell'amministrazione hanno abdicato al loro ruolo permettendo la realizzazione di opere pubbliche per interesse personale e non perché utili alla collettività. Una classe dirigente che ha abdicato al proprio ruolo. Non solo non hanno una propria idealità politica, una propria visione della società (che, peraltro, ove sentita in modo coerente, qualunque essa sia, sarebbe già di per sé il migliore antidoto alle collusioni e alle corruzioni) ma non hanno, neppure, una propria idea o strategia sul come investire il denaro pubblico sul territorio al fine di modificare in meglio vita stessa dei cittadini.
Il politico locale, non di rado, è un mero gestore di un potere autoreferenziale. E, conseguentemente, si determina ad investire le risorse pubbliche, non sulla base dell’interesse generale, ma sulla base del suo unico parametro, del suo unico interesse: la valutazione di quanto, quell’opera o servizio consente l’autoconservazione di quel potere...E così l’individuazione esatta dell’opera o del servizio che dovrà essere finanziato e poi messo a gara, avviene sulla base delle circostanze più diverse. Ma non in base al criterio del pubblico interesse(...)
Un'analisi durissima, a cui segue la descrizione di una figura fondamentale alla conservazione del potere mafioso: il facilitatore, colui, cioè, che mette in contatto il mafioso con l'entità politica. Noi aggiungiamo che "facilitatore" è anche colui che mette in contato "il pensiero mafioso" ( pensiero che può appartenere anche a coloro che non possono essere definiti propriamente mafiosi)  con la politica.
Invitiamo quindi a leggere attentamente l'articolo di Giovanni Tizian ( qui il testo) certi che ciascuno di noi vi troverà facilmente esempi e situazioni che dimostrano quanto mafie e "pensiero mafioso" siano mali che riguardano l'intera società italiana, anche le nostre comunità.
Di seguito riportiamo lo specchietto sintetico proposta nell'articolo La Repubblica, Ndrangheta, presente in tutti i settori nevralgici della politica, dell'amministrazione pubblica, e dell'economia, 'Ndrangheta. Articolo nel cui incipit è contenuta 'incipit il quale esordisce con una avvilente constatazione: "Mafie come autorià in grado di indirizzare gli investimenti pubblici"


fonte: La Repubblica
Ndrangheta, presente in tutti i settori nevralgici della politica, dell'amministrazione pubblica, e dell'economia
Nonostante arresti e condanne, le mafie (purtroppo) stanno benissimo. La 'ndrangheta soprattutto. È questo il quadro - amaro - tracciato dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna) presentata oggi al Senato dal Procuratore nazionale Franco Roberti e dalla presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi nella relazione con cui annualmente fa il punto sulle attività svolte dalle diverse Dda durante l'anno. Il 2016 - emerge dal documento - è stato un anno di successi, investigativi e processuali, ma le mafie storiche non sono in crisi. Al massimo, stanno cambiando pelle e strategia per meglio adattarsi ai vuoti provocati da arresti e condanne e alle modificazioni del mercato. Fatta eccezione per Napoli città, dove il periodo di fibrillazione dovuto ad arresti e condanne di capi storici ha dato la stura a un aumento della violenza sanguinaria dei clan, oggi guidati da giovanissimi e incontrollabili leader, le mafie sembrano aver optato per una strategia di controllo del territorio diversa ma altrettanto efficace. 


MAFIE COME AUTORITA' PUBBLICHE

Le mafie stesse rischiano di diventare 'autorità pubblica' in grado di governare processi e sorti dell'economia. "L'uso stabile e continuo del metodo corruttivo-collusivo da parte delle associazioni mafiose determina di fatto l'acquisizione (ma forse sarebbe meglio dire, l'acquisto) in capo alle mafie stesse, dei poteri dell'autorità pubblica che governa il settore amministrativo ed economico che viene infiltrato", si legge nella relazione.
"Acquistato, dal sodalizio mafioso, con il metodo corruttivo collusivo, il potere pubblico - si legge nel testo - che viene in rilievo e sovraintende al settore economico di cui si è intenso acquisire il controllo, questo viene, poi, illegalmente, meglio, criminalmente, utilizzato al fine esclusivo di avvantaggiare alcuni (le imprese mafiose e quelle a loro consociate) e danneggiare gli altri (le imprese e i soggetti non allineati)".



MAFIE IN GRADO DI INDIRIZZARE INVESTIMENTI PUBBLICI

"Assai spesso, è la stessa organizzazione mafiosa che, avendo acquisito le necessarie capacità tecniche e le indispensabili relazioni politiche, individua essa stessa il settore nel quale vi è possibilità di ottenere finanziamenti e, quindi, conseguenzialmente, indirizza ed impegna la spesa pubblica. Si tratta del vulnus più grave alla stessa idea, allo stesso concetto di autonomia locale". E' questa la novità introdotta dalla criminalità che vuole aggiudicarsi gare e appalti pubblici, utilizzando la corruzione. Non più soltanto tangenti per entrare nella partita, ma intervento diretto nella elaborazione della stessa attività di ideazione, gestione e realizzazione dei bandi di gara.
"Individuati i fondi necessari, pagato o promesso il corrispettivo al politico che ha dato il via libera e attribuito il finanziamento all'ente locale, chiude il primo passaggio, il primo step, e l'opera può essere messa a gara", scrive Roberti, sottolineando come "l'impresa del cartello o un professionista incaricato, redige integralmente il bando di gara e lo consegna agli uffici amministrativi pubblici spesso neppure attrezzati tecnicamente a redigerlo".
"Bandita la gara, si innesta l'attività corruttiva-collusiva tesa a fare coincidere il nome del vincitore con quello della ditta del cartello che aveva prima fatto finanziare l'opera e, poi, aveva impostato il bando di gara (al fine di aggiudicarsela)", conclude la Direzione nazionale antimafia.


NIENTE (O POCO) SANGUE, MEGLIO LA CORRUZIONE
Il metodo "collusivo-corruttivo" ha progressivamente sostituito omicidi, azioni di fuoco e violenza, sempre più relegate al rango di estrema ratio, ma tanto presenti nella memoria collettiva da avere tuttora valenza intimidatoria. Traduzione, ai clan non serve sparare, anzi non lo ritengono conveniente perché attira attenzione e sottrae consenso sociale, dunque corrompono, comprano, coinvolgono professionisti, pubblici ufficiali e politici anche grazie alla forza di intimidazione che deriva dalla memoria del sangue versato. "Le mafie - si legge infatti nella relazione della Dna -  anche senza l'uso di quelle che si riteneva fossero le loro armi principali, continuavano e continuano, non solo, a raggiungere i loro scopi di governo del territorio, di acquisizione di pubblici servizi, appalti, interi comparti economici, ma continuano a farlo avvalendosi dell'assoggettamento del prossimo (sia esso un imprenditore concorrente o un qualsiasi altro cittadino) riuscendo a porre costui, senza fare ricorso all'uso della tipica violenza mafiosa, in uno stato di paralizzata rassegnazione, nella quale, in sostanza, è in balia del volere mafioso". Obiettivo? Quello di sempre, il profitto. Che negli anni della crisi sono soprattutto gli appalti pubblici ad assicurare. E le mafie, la 'ndrangheta in particolare, sono capaci di accaparrarsi su tutto il territorio nazionale, anche grazie al coordinamento della "direzione strategica", individuata quest'anno grazie alle indagini della Dda di Reggio Calabria.

PROPOSTA DI MODIFICA DEL 416 BIS
Ecco perché la Dna torna a sollecitare - per il secondo anno consecutivo - una modifica del 416 bis, l'articolo del codice penale che disciplina il reato di associazione mafiosa, che permetta agli inquirenti di colpire i clan in questa loro nuova veste, aggravando di un terzo la pena "se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo (..) sono acquisite, anche non esclusivamente, con il ricorso alla corruzione o alla collusione con pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio, ovvero ancora, con analoghe condotte tese al condizionamento delle loro nomine". Al netto dei differenti stadi evolutivi che mafia siciliana, 'ndrangheta e camorra stanno attraversando, emerge infatti un tratto comune che la Dna non esita ad identificare in "un inarrestabile processo di trasformazione delle organizzazioni mafiose, da associazioni eminentemente militari e violente, ad entità affaristiche fondate su di un sostrato miliare". Per questo "gli omicidi ascrivibili alle dinamiche delle organizzazioni mafiose sono complessivamente in calo, mentre il panorama delle indagini mostra un forte dinamismo dei sodalizi in tutti gli ambiti imprenditoriali nei quali viene in rilievo un rapporto con la pubblica amministrazione".
L'ECCEZIONE NAPOLI E LA FEROCIA DEI BABY CAMORRISTI
A Napoli si spara ancora, ma è un'eccezione rispetto al generale trend della camorra e delle mafie storiche tutte. A differenza di tutti gli altri territori, nel capoluogo napoletano si registra un aumento degli omicidi di chiara matrice camorristica, che nel corso del 2016 passano da 45 a 65. A firmarli - spiega la Dna - sono "killer giovanissimi che si caratterizzano per la particolare ferocia che esprimono ed agiscono al di fuori di ogni regola" ed agiscono in esecuzione delle direttive di "quadri dirigenti che fino a pochi anni fa non erano in prima linea". Arresti e condanne dei capi storici hanno aperto vuoti di potere che "nuove leve criminali che scontano inevitabilmente una non ancora compiuta formazione strategica" pretendono di colmare. Il risultato è "un quadro d'insieme caratterizzato dall'esistenza di molteplici focolai di violenza". E in questo contesto - evidenzia con preoccupazione la Dna-  "i quartieri del centro storico che da sempre hanno suscitato i voraci appetiti della criminalità organizzata, in ragione dell'esistenza di fiorenti mercati della droga, delle estorsioni e della contraffazione, hanno rappresentato e rappresentano tuttora la vera emergenza criminale per il distretto di Napoli".

CAMORRA
Radicalmente diversa e assolutamente in linea con il trend nazionale è invece la situazione nelle aree storicamente controllate dai casalesi e dagli altri clan attivi nel casertano, a nord di Napoli e nel beneventano. In queste zone non si spara più. Ma - si legge nella relazione - "il fatto che in Provincia di Caserta il numero di omicidi commessi al fine di agevolare organizzazioni mafiose, sia pari a quello che si registra, ad esempio, in provincia di Cuneo o Bolzano, cioè zero, non significa affatto che sia riscontrabile un livello ed una presenza della criminalità di tipo mafioso comparabile a quella riscontrabile nelle due province citate a titolo di mero esempio". Piuttosto, è la manifestazione di una nuova strategia di lungo respiro, basata sull'infiltrazione negli appalti e nei pubblici servizi, "sempre più agevolata da collegamenti stretti con la politica e l'imprenditoria", piuttosto che sul ricorso alla violenza.

I NUOVI CAPI SONO IMPRENDITORI-MAFIOSI
Una trasformazione in linea con il profondo cambiamento della composizione dei vertici delle diverse organizzazioni camorriste, oggi guidate da quegli "imprenditori-camorristi" che in passato erano uomini di fiducia dei capi militari ed oggi si ritrovano al vertice delle varie organizzazioni. Sono uomini d'affari, non generali. Per questo, "pur mantenendo sullo sfondo la possibilità del ricorso alla violenza, che rimane il sostrato su cui si fonda una intimidazione immanente e perdurante", la loro strategia è "la via negoziale (quasi sempre illecita), che, altro non è che estrinsecazione del metodo collusivo-corruttivo ad ogni livello".

COSA NOSTRA SICILIANA
Non sfugge al medesimo trend la mafia siciliana, che al pari se non più della camorra, si è dimostrata in grado non solo di rimanere presente su tutto il territorio regionale, ma è stata soprattutto capace di mettere in atto una "permanente e molto attiva opera di infiltrazione, in ogni settore dell'attività economica e finanziaria, che consenta il fruttuoso reinvestimento dei proventi illeciti, oltre che nei meccanismi di funzionamento della Pubblica Amministrazione, in particolare nell'ambito degli Enti Locali". Insomma, i clan siciliani non sparano ma ci sono e sanno infettare la "Cosa pubblica". Dopo gli anni della strategia di "sommersione" seguita alla cattura di Bernardo Provenzano, Cosa nostra sta attraversando una nuova fase - di transizione - tesa all'individuazione di una nuova leadership, ma questo non ha dato la stura ad un conflitto violento fra famiglie. Il tessuto di regole consolidato nei decenni passati - la cosiddetta "costituzione formale" - ha permesso all'organizzazione di "risollevarsi dalle ceneri". "Cosa Nostra - spiega infatti la Dna - si presenta tuttora come un'organizzazione solida, fortemente strutturata nel territorio, riconosciuta per autorevolezza da vasti strati della popolazione, dotata ancora di risorse economiche sconfinate ed intatte e dunque più che mai in grado di esercitare un forte controllo sociale ed una presenza diffusa e pervasiva".

MODIFICA NORMATIVA PER COLPIRE I RECIDIVI
A guidare i clan - segnala con allarme la Dna - ci sono spesso storici esponenti dell'organizzazione, che finita di scontare la pena tornano alle vecchie attività. Per questo dal gruppo di magistrati che in Dna si occupa di Sicilia arriva un'ulteriore proposta di modifica del 416 bis che preveda "un meccanismo sanzionatorio particolarmente rigoroso per escludere per un non breve periodo di tempo dal circuito criminale quegli appartenenti all'organizzazione mafiosa che dopo una prima condanna, tornino a delinquere reiterando in tal modo la capacità criminale propria e dell'organizzazione".

RISVEGLIO DELLA SOCIETA' CIVILE
Dalla Sicilia arrivano però anche segnali positivi. Soprattutto a Palermo, sottolineano dalla Dna, l'efficace azione di contrasto, unita "all'obbiettiva minore autorevolezza ed al minore prestigio degli esponenti mafiosi, determina condizioni favorevoli affinché il consenso, l'acquiescenza o quanto meno la sudditanza di cui l'organizzazione ha goduto in passato e che già ha perso in parte degli ambienti sociali, in particolare del capoluogo, vengano definitivamente a mancare". E forse non a caso, a fronte di un numero delle estorsioni sostanzialmente costante, sono aumentate esponenzialmente le denunce.
'NDRANGHETA
Nessun segnale di questo genere si registra invece nelle terre dominate dalla 'ndrangheta, tra le mafie storiche di certo quella più in salute. "Si è di fronte ad un complesso di emergenze significative, ancora di più che in passato, di una ndrangheta presente in tutti i settori nevralgici della politica, dell'amministrazione pubblica e dell'economia, creando - constata la Dna -  in tal modo, le condizioni per un arricchimento, non più solo attraverso le tradizionali attività illecite del traffico internazionale di stupefacenti e delle estorsioni, ma anche intercettando, attraverso prestanome o, comunque, imprenditori di riferimento, importanti flussi economici pubblici ad ogni livello, comunale, regionale, statale ed europeo". E non solo in Calabria.

LA COLONIZZAZIONE DEL NORD
I clan non solo si confermano capillarmente presenti su tutto il territorio calabrese, ma giorno dopo giorno si dimostrano in grado di infettare sempre più territori diversi. Traduzione, il contrasto alla 'ndrangheta non è un problema della Calabria, ma nazionale se non internazionale. Nelle diverse regioni del Nord Italia i clan hanno messo radici solide. Se il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e la Toscana sono per la Dna territori di reinvestimento grazie a operatori economici compiacenti, Piemonte e Valle d'Aosta, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna ed Umbria, sono invece regioni in cui "vari sodalizi di ndrangheta hanno ormai realizzato una presenza stabile e preponderante". Un'infezione che ha contaminato i territori non grazie al sangue versato, ma utilizzando "il "capitale sociale", fatto di relazioni con il mondo politico, imprenditoriale ed economico".

ALLARME GRANDI OPERE
E soprattutto al Nord  c'è un dato che a detta della Dna desta "particolare preoccupazione": l'attivismo dei vari sodalizi di ndrangheta "nel tentativo di inserirsi - attraverso imprese proprie o, comunque, di riferimento - nei procedimenti aventi ad oggetto la realizzazione delle "grandi opere", tra cui, in passato, i lavori legati ad Expo 2015, ed oggi la Tav, nella tratta Torino-Lione, nonché la capacità dagli stessi dimostrata, di fare dei più importanti scali portuali del nord - Genova, Savona, Venezia, Trieste, Livorno - degli stabili punti di sbarco dei grossi quantitativi di sostanza stupefacente importata dal sud-America, in aggiunta a quello di Gioia Tauro". E se un tempo i "camalli" e le loro organizzazioni sindacali erano argine naturale all'infiltrazione della criminalità organizzata, oggi - si legge nella relazione - sono in tanti ad essere al servizio dei clan e questo - constata la Dna - è "espressione e misura del grado di infiltrazione delle organizzazioni mafiose nei gangli vitali della società".



MINACCIA EVERSIVA

In ragione della sua capacità di contaminazione, la 'ndrangheta - emerge dalla relazione - è dunque una minaccia per la stessa democrazia. Un dato che diventa ancor più preoccupante ed attuale alla luce del nuovo organismo scoperto dai magistrati di Reggio Calabria. Le indagini del 2016 hanno infatti permesso di individuare la direzione strategica della 'ndrangheta e alcuni dei suoi componenti. Non si tratta di capi militari ma di professionisti, pubblici funzionari, deputati e senatori. Per i magistrati di Reggio Calabria nella cabina di comando della 'ndrangheta hanno funzione apicale un ex deputato della Repubblica, Paolo Romeo, massone e vincolato da legami storici e consolidati alla destra eversiva e un avvocato ed ex consigliere comunale, Giorgio De Stefano, legato per sangue e ruolo ad uno dei clan più potenti della 'ndrangheta tutta. Attorno a loro gravitano un importante dirigente della Regione Calabria, Franco Chirico, un ex sottosegretario regionale, Alberto Sarra, e persino un senatore della Repubblica, Antonio Caridi, arrestato quando ancora sedeva in Parlamento.


DEMOCRAZIA SCIPPATA

È questo nucleo ad aver deciso tutte le elezioni che si siano svolte in Calabria dal 2001 a - quanto meno - il 2012. Non si tratta - ed è questo il dato nuovo - dell'ormai canonica raccolta di voti per questo o quel candidato, ma di una pianificazione previa degli uomini e degli schieramenti migliori per garantire all'organizzazione appalti, lavori, commesse, scelte politiche e strategiche. Al momento, secondo quanto emerso dalle indagini, la Santa - questo il nome del nuovo organismo
è in grado di determinare le macropolitiche criminali di tutto il mandamento reggino. Ma più di un elemento, proveniente da vari territori, sembra far emergere una tendenza al coordinamento al vertice di organizzazioni criminali diverse ma unite da un comune obiettivo, il profitto.

venerdì 13 gennaio 2017

Dov'è (la mafia)? Dove si è nascosta (la mafia)?

A partire dallo scorso lunedì 9 gennaio 2017, sul quotidiano La Repubblica ha preso avvio il blog “MAFIE”, da una idea di Attilio Bolzoni. Il primo articolo pubblicato ha un titolo significativo: “Dov'è? Dove si è nascosta?” (qui la pagina del blog "MAFIE"). E Attilio Bolzoni chiede infine, provocatoriamente: Si è tramutata (la mafia) in un'élite che punta ad accorciare sempre di più le distanze fra mondo illegale e legale?(...) fra qualche anno ( le mafie) non le troveremo più. Non sapremo più riconoscerle“. Le domande contenute del titolo, muovono anche da un breve scritto di Letizia Battaglia. A venticinque anni dall'estate del '92, Letizia Battaglia non sa più dove andare a fotografare i mafiosi” perchè “(...)I mafiosi (e gli amici dei mafiosi) non sembrano più mafiosi. Rassomigliano fisicamente troppo alle persone perbene (….)

Letizia Battaglia, lo ricordiamo, è la fotografa che testimoniò col sul lavoro gli anni di sangue che cosa nostra sparse nella Sicilia sconquassata dalla "seconda guerra di mafia" che avrebbe portato alle stragi dell'estate del 1992. Fra le tante fotografie, fu proprio Letizia Battaglia a scattare quella che ritrae l'attuale presidente della Repubblica mentre soccorre il fratello morente, Pier Santi Mattarella, pochi minuti dopo essere stato colpito dai killer di cosa nostra, la mattina del 6 gennaio 1980

Le lezioni "sulla mafia" che tanti  fingono di  non ricordare."Dov'è (la mafia)? Dove si è nascosta (la mafia)?" Cominciamo dal Piemonte, ad esempio...

Proprio noi che viviamo in Piemonte qualche suggerimento su dove andare a cercare le mafie di oggi ci permettiamo però di darlo. Per (re)imparare a (ri)conoscere quello che sono diventate le mafie, per comprendere come agiscono oggi, basterebbe rileggere -studiandola magari a fondo- la requisitoria che Gian Carlo Caselli pronuncia al processo Minotauro  la mattina del 27 giugno 2013( leggi qui uno degli articoli dell'epoca)
L'allora procuratore capo di Torino riserva a sé proprio l'esposizione dei fatti rilevati nei confronti della cosiddetta “zona griga” piemontese: imprenditori, uomini politici , amministratori, “pezzi” della società civile che per mera convenienza, per opportunismo(!), diventano complici o strumenti delle organizzazioni mafiose; le quali organizzazioni -occorre ricordarlo- fondano da sempre la loro forza e il loro potere proprio sulle “relazioni sociali” che sono capaci di intessere in una comunità, in uno scambio di “reciproche convenienze”.
Giancarlo Caselli: (...) La mafia, soprattutto nella sua espansione fuori dalle aree tradizionali, non rinunzia certo alla violenza, ma la usa come ultima risorsa, (…) alle spalle abbiamo oltre trent’anni di mimetizzazione delle mafie al Nord. Questa mimetizzazione rappresenta un elemento di prova decisivo quanto alla pericolosità dell’associazione. Perché presuppone il filtro di una ZONA GRIGIA che costituisce un punto di forza dell’organizzazione (…) Per realizzare i loro affari i mafiosi hanno sempre più bisogno di “esperti”: ragionieri, commercialisti, immobiliaristi, operatori finanziari e bancari, notai, avvocati, politici, amministratori, uomini delle istituzioni [purtroppo, magistrati compresi]: la cosiddetta borghesia mafiosa. (…) Ecco perché non è accettabile la richiesta che spesso viene rivolta ai magistrati di indicare soltanto con molti omissis la rete di relazioni intrecciate dalla criminalità nel tessuto politico e sociale della comunità. Sarebbe un grande errore, il silenzio si trasformerebbe in omertà diffusa e non contribuirebbe sicuramente a bonificare il tessuto sociale. (…) Per fare questo non bastano i magistrati che perseguono i delitti, non bastano gli investigatori: c’è bisogno che tutti [anche, se non soprattutto, la politica e l’intera classe dirigente del Paese] si schierino e operino nella stessa direzione, per togliere spazi alla criminalità.
(...) Vedremo che ci sono tante persone che traggono vantaggi dall'esistenza della mafia. Persone che non hanno interesse a denunziare nulla. Persone (politici, amministratori) che la legge penale non può punire perchè la loro colpa è l'OPPORTUNISMO. Una colpa grave sul piano politico/morale ma non penalmente sanzionata. Una colpa che espone alla ricattabilità.(...)

Che le mafie, non siano “coppola e lupara” ma "ingiustizia e corruzione, gestione distorta della cosa pubblica, lo sappiamo da decenni, da secoli!
Per fotografare la mafia "di oggi" bisognerebbe semplicemente “fare memoria”! Ad esempio, partire dall'intuizione del “prefetto di ferro” Cesare Mori il quale, spedito in Sicilia da Mussolini nel 1924, ma poi richiamato a Roma ( da chi?...domanda retorica) proprio per fermare l'offensiva militare messa da lui in atto contro brigantaggio e “cosa nostra” nella Sicilia dei primi anni del '900, così ebbe a dichiarare: “Quando i giornali parlano di colpo mortale alla mafia, non hanno capito che brigantaggio e mafia sono due cose diverse. Il colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non solo tra i fichi d'india ama nelle prefettture, nelle questure, nei gradni palazzi padronali e, perchè no, in qualche ministero.

Facciamo memoria allora e traiamone comportamenti e analisi conseguenti! Uno dei passaggi più significati dell'intervista che Carlo Alberto Dalla Chiesa rilasciò a Giogio Bocca il 10 agosto 1982, pochi giorni prima di essere ucciso:La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. A me interessa conoscere questa ‘accumulazione primitiva’ del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi o ristoranti à la page . Ma ancor più mi interessa la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, imprese e commerci magari passati a mani insospettabili e corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere”.

E allora per fotografare la mafia di oggi, ma soprattutto per impedire che mafie e “zona grigia” continuino a dominare questo paese, è necessario davvero “fare memoria” e mettere in pratica "la lezione" sulla mafia tenuta dal giudice Paolo Borsellino il 26 gennaio 1989 all' Istituto Tecnico Professionale di Bassano Del Grappa:
“(...) L'equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice 'quel politico era vicino ad un mafioso', 'quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto'. E no! questo ragionamento non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale , può dire: 'beh... Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria, che mi consente di dire quest'uomo è mafioso'. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c'è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati. (...)”.
Ancora Paolo Borsellino: "Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono daccordo".

La lezione che fingiamo di dimenticare
A Letizia Battaglia, verrebbe allora certo impedito di entrare nei luoghi “deputati” a ritrovare-fotografare mafie, mafiosi e “zona grigia” dei nostri giorni, perchè quei luoghi non sono ovviamente le strade dove scorreva il sangue delle guerre di mafie dello scorso secolo. E anche quella, in realtà, era solo la carneficina dei “pesci piccoli”, dei “picciotti-carne-da-macello”, mentre i “pezzi da novanta”, subito rimpiazzati i capi del “maxi-processo”, avrebbero continuato a manovrare vite e strategie nei luoghi del “potere oscuro”: i luoghi delle relazioni imprescrutabili, degli affari “indicibili”, degli “insospettabili", della "zona grigia"; di quel "mondo di mezzo" così cristallinamente illustrato da Massimo Carminti, uno dei maggiori imputati di "Mafia Capitale" (vedi qui). 
Nei luoghi ove agiscono oggi mafie e pensiero mafioso, ha ragione Letizia Battaglia, “(...) anche i mafiosi non sembrano più mafiosi e rassomigliano fisicamente troppo alle persone perbene.”
A 25 anni dalle stragi siciliane del 1992 tocca alle donne e agli uomini che continuano a credere nella Speranza incarnata da uomini che hanno sacrificato la loro vita per sconfiggere “mafie e pensiero mafioso” nel nostro Paese far sì che “le lezioni” impartite da quegli uomini non siano dimenticate o scansate: per tutti ricordiamo Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici, Giovanni, Falcone, Paolo Borsellino.



venerdì 26 febbraio 2016

LE MAFIE AL NORD."POTERE MAFIOSO E LIBERAZIONE": UNA SFIDA CHE CI RIGUARDA

POTERE MAFIOSO E LIBERAZIONE: UNA SFIDA CHE CI RIGUARDA. 
Le mafie al Nord? In realtà non è stupefacente... Dovunque volgiamo lo sguardo incontriamo l’intreccio tra potere e denaro…E dove c’è denaro le mafie si insinuano e prendono potere.”
ROSARIO GIUE’ guiderà una riflessione sulla cultura che favorisce l’intrusione delle mafie nelle nostre comunità . ROSARIO GIUE’prete palermitano, dal 1985 al 1989, fu parroco  nella chiesa di San Gaetano a Brancaccio (Palermo), la stessa parrocchia dove subito dopo fu parroco don Pino Puglisi. 
Quanto sia rilevante la presenza delle mafie nelle comunità del Nord, lo ha denunciato più volte lo stesso ex procuratore di Torino Gian Carlo Caselli. Nella sua arringa la Processo Minotauro Caselli sottolineò lo scandalo delle "relazioni esterne” della mafia in Piemonte. La mafia c’è perché c’è mercato per i suoi servizi”, ha spiegato, “ci sono tante persone che traggono vantaggio dall’esistenza della mafia, persone che non hanno nessun interesse a denunciarla. Persone, politici e amministratori, che la legge penale non può punire perché la loro colpa è l’opportunismo”. 
leggi qui l'articolo de "Il Fatto Quotidiano" per conoscere nomi, cognomi e circostanze. A noi la scelta di voler conoscere e assumere comportamenti conseguenti.

giovedì 25 settembre 2014

Fenomenologia di una calabrizzazione: “La ‘ndrangheta di casa nostra"

Numerose, oramai quotidiane, sono le inchieste giudiziarie e giornalistiche che fanno emergere e mostrano quanto sia diffuso -anche nel Nord Italia- il processo di "calabrizzazione" a cui fa riferimento l'articolo che proponiamo di seguito: Di poche ore fa l'ultima operazione nei confronti della 'ndrangheta in Toscana ed Emilia Romagna
In Piemonte, addirittura viviamo ancora le vicende del Processo Minotauro dal quale sono usciti i nomi e le vicende di insospettabili, di "opportunisti", così li defini Gian Carlo Caselli nella sua requisitoria, che non hanno alcun interesse a denunciare mafie e mafiosi. Questi, intrattenendo rapporti non "penalmente perseguibili", hanno trovato modo e tempo per tornare presto alla ribalta grazie ai partiti di appartenenza e alla  sostanziale ignavia della cosiddetta "società civile", che mai come in questo caso si è dimostrata "poco responsabile"
Facile profezia si era dimostrata quella di affermare i che i mali della Calabria,  così come quelli della Sicilia e della Campania, per citare le terre storicamente pervase dal sistema mafioso, potevano rappresentare "un rischio" per l'Italia intera se non fossero cambiati sostanzialmente i valori culturali di riferimento della nostra società
Sembrava evidenza  storica affermare che lo stato  di decadimento economico in cui versano parti importanti delle terre prima menzionate ha causa certa e provata nella criminalità che, in connubio con la mala-politica,  governa e domina su quei territori. Proprio il mantenimento di uno "stato di bisogno" è la fonte primaria del potere di stampo mafioso! Oggi lo spiegano, vanamente, anche insigni economisti: un sistema corrotto allontana e preclude "sviluppo e futuro" vero, reale e sostenibile.
Le mafie , lo ricordiamo sempre , sono il mezzo più sicuro ed efficace per ottenere ciò che non ci si merita: un sistema fondato anzitutto sull'ingiustizia! Quel che è peggio, come affermò Antonio Ingroia,  è che quei metodi si sono diffusi e vengono utilizzati anche da chi non si può considerare mafioso in senso stretto. 
Cosicchè quelli che venivano considerati "veniali" atti di malcostume,  si sono rivelati essere il primo atto di complicità e accondiscendenza ad un sistema clientelare e di tipo mafioso: il "favore" richiesto  o ottenuto dal potente di turno, anzicchè la rivendicazione di un Diritto da conquistare dopo che si è adempiuto ad un Dovere; la “raccomandazione” che ci permette di occupare un ruolo senza esserne all'altezza e a danno di altri che -per capacità e preparazione- avrebbero meritato più di noi quella posizione; il  "voto" l'arma politica di noi cittadini  ridotta "a merce" quando il voto, anzichè essere libera espressione delle convinzioni politiche di ciascuno,  viene comprato, venduto, barattato,  con la promessa ( l'illusione?) di un posto di lavoro o per la conquista dei tanti privilegi di cui gode la classe politica dirigente di questo paese; l'esistenza  stessa di quei "privilegi" che dovrebbero costituire scandalo -di per sè - in uno stato che si dica civile e democratico!
Comportamenti di "tipo mafioso", mero esercizio di  "potere", hanno provocato la degenerazione e il decadimento di una intera comunità-nazione. Così trova una possibile spiegazione la palese mediocrità di una parte della “classe dirigente” del paese: una spirale perversa che porta all'elezione di personaggi  il cui scopo è ben lontano dal voler amministrare il "bene pubblico" a favore della collettività. 
Alla luce di certi fatti e di certe cronache se una  "unificazione" dell'Italia è avvenuta, questa è avvenuta purtroppo nel radicamento delle dinamiche e dei modi indotti dalle organizzazioni criminali colluse con la mala-politica 
L'articolo che proponiamo dal Blog di Guido Cavalli è quindi l'ennesima dimostrazione di come 'ndrangheta e cosa nostra ( la mafia siciliana) siano oramai a "casa nostra"! 
Emilia Romagna compresa!... E proprio nel paese che fu teatro della famosa saga fra Don Camillo e Beppone, i due personaggi inventati da Guareschi nel secondo dopoguerra e che incarnarono quel confronto-scontro fra "destra e sinistra" fondato -almeno sullo schermo- sui valori dell'onestà e del buona fede! A vedere la situazione di oggi, viene da dire: "Altri tempi!,signora Maria!"...Altro secolo! Altri uomini! 
Come dice Leporello nel Don Giovanni di Mozart "(...) il catalogo è questo!"
Del resto, lo ricordiamo sempre , le mafie "votano! e , soprattutto, "fanno votare"! pertanto, l'appartenenza del politico mostrato nel filmato è davvero poco rilevante giacchè fatti e cronache hanno dimostrato che le mafie non fanno distinzioni partitiche e non hanno "preferenze" politiche. Le mafie sono, da tempo, una sorta di società di servizi e stringono alleanze e rapporti con coloro che vogliono avvalersi " di quei servizi"!

Fonte: Blog di Giulio Cavalli

Fenomenologia di una calabrizzazione

Prendetevi qualche minuto per guardare la prima parte di questo documentario dalla webtv Cortocircuito, parte del loro ultimo documentario “La ‘ndrangheta di casa nostra. Radici in terra emiliana“. I ragazzi intervistano il sindaco di Brescello Marcello Coffrini (PD);Il primo cittadino parla della realtà locale negando che ci siano “mai state denunce per estorsione o ricettazione”. E poi descrive come “una persona educata e composta” Francesco Grande Aracri, boss condannato in via definitiva per mafia nel 2008, soggetto a regime di sorveglianza speciale e considerato il punto di riferimento dell’ndrangheta in Emilia. 
La troupe di giovani studenti e giornalisti si fa accompagnare da Coffrini sui terreni sequestrati alla famiglia (beni per 3 milioni di euro). Subito vengono raggiunti da un furgoncino che chiede spiegazioni e poi dallo stesso Aracri. Il sindaco si apparta con il boss per spiegare la situazione e tornato in macchina spiega: “E’ lui Francesco Grande Aracri. E’ gentilissimo, molto tranquillo. Parlando con lui si ha la sensazione di tutto tranne che sia quello che dicono che sia. Lui è uno molto composto ed educato che ha sempre vissuto a basso livello. La famiglia qui ha un’azienda che adesso è riuscita a ripartire: fanno i marmi. Mi fa piacere che siano ripartiti”.