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venerdì 23 giugno 2017

La Direzione Investigativa Antimafia accusa la politica: una certa classe dirigente è prona e collusa


Durissima relazione della DIA contro mafie e "pensiero mafioso". Quanto è stato presentato nella giornata di ieri dal procuratore nazionale F. Roberti e dalla presidente della commissione antimafia Rosy Bindi è un vero e propio atto di accusa ad "una certa classe dirigente è prona e collusa (alle mafie e al pensiero mafioso, aggiungiamo noi.) Pensiero mafioso che spesso vediamo governare azioni di personagi che non possiamo definire mafiosi.
Un passaggio della relazione richiama alla mente quanto scriveva Enrico Berlinguer nella sua celebre denuncia conto il degrado etico e morale della politica partitica italiana: "(...) I partiti di oggi sono soprattutto macchine
di potere e di clientela; scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss
"
Ieri, 22 giugno 2017, la Direzione Investigativa Antimafia sembra replicare quasi testualmente quei concetti: "Ampie sacche dell'amministrazione hanno abdicato al loro ruolo permettendo la realizzazione di opere pubbliche per interesse personale e non perché utili alla collettività. Una classe dirigente che ha abdicato al proprio ruolo. Non solo non hanno una propria idealità politica, una propria visione della società (che, peraltro, ove sentita in modo coerente, qualunque essa sia, sarebbe già di per sé il migliore antidoto alle collusioni e alle corruzioni) ma non hanno, neppure, una propria idea o strategia sul come investire il denaro pubblico sul territorio al fine di modificare in meglio vita stessa dei cittadini.
Il politico locale, non di rado, è un mero gestore di un potere autoreferenziale. E, conseguentemente, si determina ad investire le risorse pubbliche, non sulla base dell’interesse generale, ma sulla base del suo unico parametro, del suo unico interesse: la valutazione di quanto, quell’opera o servizio consente l’autoconservazione di quel potere...E così l’individuazione esatta dell’opera o del servizio che dovrà essere finanziato e poi messo a gara, avviene sulla base delle circostanze più diverse. Ma non in base al criterio del pubblico interesse(...)
Un'analisi durissima, a cui segue la descrizione di una figura fondamentale alla conservazione del potere mafioso: il facilitatore, colui, cioè, che mette in contatto il mafioso con l'entità politica. Noi aggiungiamo che "facilitatore" è anche colui che mette in contato "il pensiero mafioso" ( pensiero che può appartenere anche a coloro che non possono essere definiti propriamente mafiosi)  con la politica.
Invitiamo quindi a leggere attentamente l'articolo di Giovanni Tizian ( qui il testo) certi che ciascuno di noi vi troverà facilmente esempi e situazioni che dimostrano quanto mafie e "pensiero mafioso" siano mali che riguardano l'intera società italiana, anche le nostre comunità.
Di seguito riportiamo lo specchietto sintetico proposta nell'articolo La Repubblica, Ndrangheta, presente in tutti i settori nevralgici della politica, dell'amministrazione pubblica, e dell'economia, 'Ndrangheta. Articolo nel cui incipit è contenuta 'incipit il quale esordisce con una avvilente constatazione: "Mafie come autorià in grado di indirizzare gli investimenti pubblici"


fonte: La Repubblica
Ndrangheta, presente in tutti i settori nevralgici della politica, dell'amministrazione pubblica, e dell'economia
Nonostante arresti e condanne, le mafie (purtroppo) stanno benissimo. La 'ndrangheta soprattutto. È questo il quadro - amaro - tracciato dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna) presentata oggi al Senato dal Procuratore nazionale Franco Roberti e dalla presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi nella relazione con cui annualmente fa il punto sulle attività svolte dalle diverse Dda durante l'anno. Il 2016 - emerge dal documento - è stato un anno di successi, investigativi e processuali, ma le mafie storiche non sono in crisi. Al massimo, stanno cambiando pelle e strategia per meglio adattarsi ai vuoti provocati da arresti e condanne e alle modificazioni del mercato. Fatta eccezione per Napoli città, dove il periodo di fibrillazione dovuto ad arresti e condanne di capi storici ha dato la stura a un aumento della violenza sanguinaria dei clan, oggi guidati da giovanissimi e incontrollabili leader, le mafie sembrano aver optato per una strategia di controllo del territorio diversa ma altrettanto efficace. 


MAFIE COME AUTORITA' PUBBLICHE

Le mafie stesse rischiano di diventare 'autorità pubblica' in grado di governare processi e sorti dell'economia. "L'uso stabile e continuo del metodo corruttivo-collusivo da parte delle associazioni mafiose determina di fatto l'acquisizione (ma forse sarebbe meglio dire, l'acquisto) in capo alle mafie stesse, dei poteri dell'autorità pubblica che governa il settore amministrativo ed economico che viene infiltrato", si legge nella relazione.
"Acquistato, dal sodalizio mafioso, con il metodo corruttivo collusivo, il potere pubblico - si legge nel testo - che viene in rilievo e sovraintende al settore economico di cui si è intenso acquisire il controllo, questo viene, poi, illegalmente, meglio, criminalmente, utilizzato al fine esclusivo di avvantaggiare alcuni (le imprese mafiose e quelle a loro consociate) e danneggiare gli altri (le imprese e i soggetti non allineati)".



MAFIE IN GRADO DI INDIRIZZARE INVESTIMENTI PUBBLICI

"Assai spesso, è la stessa organizzazione mafiosa che, avendo acquisito le necessarie capacità tecniche e le indispensabili relazioni politiche, individua essa stessa il settore nel quale vi è possibilità di ottenere finanziamenti e, quindi, conseguenzialmente, indirizza ed impegna la spesa pubblica. Si tratta del vulnus più grave alla stessa idea, allo stesso concetto di autonomia locale". E' questa la novità introdotta dalla criminalità che vuole aggiudicarsi gare e appalti pubblici, utilizzando la corruzione. Non più soltanto tangenti per entrare nella partita, ma intervento diretto nella elaborazione della stessa attività di ideazione, gestione e realizzazione dei bandi di gara.
"Individuati i fondi necessari, pagato o promesso il corrispettivo al politico che ha dato il via libera e attribuito il finanziamento all'ente locale, chiude il primo passaggio, il primo step, e l'opera può essere messa a gara", scrive Roberti, sottolineando come "l'impresa del cartello o un professionista incaricato, redige integralmente il bando di gara e lo consegna agli uffici amministrativi pubblici spesso neppure attrezzati tecnicamente a redigerlo".
"Bandita la gara, si innesta l'attività corruttiva-collusiva tesa a fare coincidere il nome del vincitore con quello della ditta del cartello che aveva prima fatto finanziare l'opera e, poi, aveva impostato il bando di gara (al fine di aggiudicarsela)", conclude la Direzione nazionale antimafia.


NIENTE (O POCO) SANGUE, MEGLIO LA CORRUZIONE
Il metodo "collusivo-corruttivo" ha progressivamente sostituito omicidi, azioni di fuoco e violenza, sempre più relegate al rango di estrema ratio, ma tanto presenti nella memoria collettiva da avere tuttora valenza intimidatoria. Traduzione, ai clan non serve sparare, anzi non lo ritengono conveniente perché attira attenzione e sottrae consenso sociale, dunque corrompono, comprano, coinvolgono professionisti, pubblici ufficiali e politici anche grazie alla forza di intimidazione che deriva dalla memoria del sangue versato. "Le mafie - si legge infatti nella relazione della Dna -  anche senza l'uso di quelle che si riteneva fossero le loro armi principali, continuavano e continuano, non solo, a raggiungere i loro scopi di governo del territorio, di acquisizione di pubblici servizi, appalti, interi comparti economici, ma continuano a farlo avvalendosi dell'assoggettamento del prossimo (sia esso un imprenditore concorrente o un qualsiasi altro cittadino) riuscendo a porre costui, senza fare ricorso all'uso della tipica violenza mafiosa, in uno stato di paralizzata rassegnazione, nella quale, in sostanza, è in balia del volere mafioso". Obiettivo? Quello di sempre, il profitto. Che negli anni della crisi sono soprattutto gli appalti pubblici ad assicurare. E le mafie, la 'ndrangheta in particolare, sono capaci di accaparrarsi su tutto il territorio nazionale, anche grazie al coordinamento della "direzione strategica", individuata quest'anno grazie alle indagini della Dda di Reggio Calabria.

PROPOSTA DI MODIFICA DEL 416 BIS
Ecco perché la Dna torna a sollecitare - per il secondo anno consecutivo - una modifica del 416 bis, l'articolo del codice penale che disciplina il reato di associazione mafiosa, che permetta agli inquirenti di colpire i clan in questa loro nuova veste, aggravando di un terzo la pena "se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo (..) sono acquisite, anche non esclusivamente, con il ricorso alla corruzione o alla collusione con pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio, ovvero ancora, con analoghe condotte tese al condizionamento delle loro nomine". Al netto dei differenti stadi evolutivi che mafia siciliana, 'ndrangheta e camorra stanno attraversando, emerge infatti un tratto comune che la Dna non esita ad identificare in "un inarrestabile processo di trasformazione delle organizzazioni mafiose, da associazioni eminentemente militari e violente, ad entità affaristiche fondate su di un sostrato miliare". Per questo "gli omicidi ascrivibili alle dinamiche delle organizzazioni mafiose sono complessivamente in calo, mentre il panorama delle indagini mostra un forte dinamismo dei sodalizi in tutti gli ambiti imprenditoriali nei quali viene in rilievo un rapporto con la pubblica amministrazione".
L'ECCEZIONE NAPOLI E LA FEROCIA DEI BABY CAMORRISTI
A Napoli si spara ancora, ma è un'eccezione rispetto al generale trend della camorra e delle mafie storiche tutte. A differenza di tutti gli altri territori, nel capoluogo napoletano si registra un aumento degli omicidi di chiara matrice camorristica, che nel corso del 2016 passano da 45 a 65. A firmarli - spiega la Dna - sono "killer giovanissimi che si caratterizzano per la particolare ferocia che esprimono ed agiscono al di fuori di ogni regola" ed agiscono in esecuzione delle direttive di "quadri dirigenti che fino a pochi anni fa non erano in prima linea". Arresti e condanne dei capi storici hanno aperto vuoti di potere che "nuove leve criminali che scontano inevitabilmente una non ancora compiuta formazione strategica" pretendono di colmare. Il risultato è "un quadro d'insieme caratterizzato dall'esistenza di molteplici focolai di violenza". E in questo contesto - evidenzia con preoccupazione la Dna-  "i quartieri del centro storico che da sempre hanno suscitato i voraci appetiti della criminalità organizzata, in ragione dell'esistenza di fiorenti mercati della droga, delle estorsioni e della contraffazione, hanno rappresentato e rappresentano tuttora la vera emergenza criminale per il distretto di Napoli".

CAMORRA
Radicalmente diversa e assolutamente in linea con il trend nazionale è invece la situazione nelle aree storicamente controllate dai casalesi e dagli altri clan attivi nel casertano, a nord di Napoli e nel beneventano. In queste zone non si spara più. Ma - si legge nella relazione - "il fatto che in Provincia di Caserta il numero di omicidi commessi al fine di agevolare organizzazioni mafiose, sia pari a quello che si registra, ad esempio, in provincia di Cuneo o Bolzano, cioè zero, non significa affatto che sia riscontrabile un livello ed una presenza della criminalità di tipo mafioso comparabile a quella riscontrabile nelle due province citate a titolo di mero esempio". Piuttosto, è la manifestazione di una nuova strategia di lungo respiro, basata sull'infiltrazione negli appalti e nei pubblici servizi, "sempre più agevolata da collegamenti stretti con la politica e l'imprenditoria", piuttosto che sul ricorso alla violenza.

I NUOVI CAPI SONO IMPRENDITORI-MAFIOSI
Una trasformazione in linea con il profondo cambiamento della composizione dei vertici delle diverse organizzazioni camorriste, oggi guidate da quegli "imprenditori-camorristi" che in passato erano uomini di fiducia dei capi militari ed oggi si ritrovano al vertice delle varie organizzazioni. Sono uomini d'affari, non generali. Per questo, "pur mantenendo sullo sfondo la possibilità del ricorso alla violenza, che rimane il sostrato su cui si fonda una intimidazione immanente e perdurante", la loro strategia è "la via negoziale (quasi sempre illecita), che, altro non è che estrinsecazione del metodo collusivo-corruttivo ad ogni livello".

COSA NOSTRA SICILIANA
Non sfugge al medesimo trend la mafia siciliana, che al pari se non più della camorra, si è dimostrata in grado non solo di rimanere presente su tutto il territorio regionale, ma è stata soprattutto capace di mettere in atto una "permanente e molto attiva opera di infiltrazione, in ogni settore dell'attività economica e finanziaria, che consenta il fruttuoso reinvestimento dei proventi illeciti, oltre che nei meccanismi di funzionamento della Pubblica Amministrazione, in particolare nell'ambito degli Enti Locali". Insomma, i clan siciliani non sparano ma ci sono e sanno infettare la "Cosa pubblica". Dopo gli anni della strategia di "sommersione" seguita alla cattura di Bernardo Provenzano, Cosa nostra sta attraversando una nuova fase - di transizione - tesa all'individuazione di una nuova leadership, ma questo non ha dato la stura ad un conflitto violento fra famiglie. Il tessuto di regole consolidato nei decenni passati - la cosiddetta "costituzione formale" - ha permesso all'organizzazione di "risollevarsi dalle ceneri". "Cosa Nostra - spiega infatti la Dna - si presenta tuttora come un'organizzazione solida, fortemente strutturata nel territorio, riconosciuta per autorevolezza da vasti strati della popolazione, dotata ancora di risorse economiche sconfinate ed intatte e dunque più che mai in grado di esercitare un forte controllo sociale ed una presenza diffusa e pervasiva".

MODIFICA NORMATIVA PER COLPIRE I RECIDIVI
A guidare i clan - segnala con allarme la Dna - ci sono spesso storici esponenti dell'organizzazione, che finita di scontare la pena tornano alle vecchie attività. Per questo dal gruppo di magistrati che in Dna si occupa di Sicilia arriva un'ulteriore proposta di modifica del 416 bis che preveda "un meccanismo sanzionatorio particolarmente rigoroso per escludere per un non breve periodo di tempo dal circuito criminale quegli appartenenti all'organizzazione mafiosa che dopo una prima condanna, tornino a delinquere reiterando in tal modo la capacità criminale propria e dell'organizzazione".

RISVEGLIO DELLA SOCIETA' CIVILE
Dalla Sicilia arrivano però anche segnali positivi. Soprattutto a Palermo, sottolineano dalla Dna, l'efficace azione di contrasto, unita "all'obbiettiva minore autorevolezza ed al minore prestigio degli esponenti mafiosi, determina condizioni favorevoli affinché il consenso, l'acquiescenza o quanto meno la sudditanza di cui l'organizzazione ha goduto in passato e che già ha perso in parte degli ambienti sociali, in particolare del capoluogo, vengano definitivamente a mancare". E forse non a caso, a fronte di un numero delle estorsioni sostanzialmente costante, sono aumentate esponenzialmente le denunce.
'NDRANGHETA
Nessun segnale di questo genere si registra invece nelle terre dominate dalla 'ndrangheta, tra le mafie storiche di certo quella più in salute. "Si è di fronte ad un complesso di emergenze significative, ancora di più che in passato, di una ndrangheta presente in tutti i settori nevralgici della politica, dell'amministrazione pubblica e dell'economia, creando - constata la Dna -  in tal modo, le condizioni per un arricchimento, non più solo attraverso le tradizionali attività illecite del traffico internazionale di stupefacenti e delle estorsioni, ma anche intercettando, attraverso prestanome o, comunque, imprenditori di riferimento, importanti flussi economici pubblici ad ogni livello, comunale, regionale, statale ed europeo". E non solo in Calabria.

LA COLONIZZAZIONE DEL NORD
I clan non solo si confermano capillarmente presenti su tutto il territorio calabrese, ma giorno dopo giorno si dimostrano in grado di infettare sempre più territori diversi. Traduzione, il contrasto alla 'ndrangheta non è un problema della Calabria, ma nazionale se non internazionale. Nelle diverse regioni del Nord Italia i clan hanno messo radici solide. Se il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e la Toscana sono per la Dna territori di reinvestimento grazie a operatori economici compiacenti, Piemonte e Valle d'Aosta, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna ed Umbria, sono invece regioni in cui "vari sodalizi di ndrangheta hanno ormai realizzato una presenza stabile e preponderante". Un'infezione che ha contaminato i territori non grazie al sangue versato, ma utilizzando "il "capitale sociale", fatto di relazioni con il mondo politico, imprenditoriale ed economico".

ALLARME GRANDI OPERE
E soprattutto al Nord  c'è un dato che a detta della Dna desta "particolare preoccupazione": l'attivismo dei vari sodalizi di ndrangheta "nel tentativo di inserirsi - attraverso imprese proprie o, comunque, di riferimento - nei procedimenti aventi ad oggetto la realizzazione delle "grandi opere", tra cui, in passato, i lavori legati ad Expo 2015, ed oggi la Tav, nella tratta Torino-Lione, nonché la capacità dagli stessi dimostrata, di fare dei più importanti scali portuali del nord - Genova, Savona, Venezia, Trieste, Livorno - degli stabili punti di sbarco dei grossi quantitativi di sostanza stupefacente importata dal sud-America, in aggiunta a quello di Gioia Tauro". E se un tempo i "camalli" e le loro organizzazioni sindacali erano argine naturale all'infiltrazione della criminalità organizzata, oggi - si legge nella relazione - sono in tanti ad essere al servizio dei clan e questo - constata la Dna - è "espressione e misura del grado di infiltrazione delle organizzazioni mafiose nei gangli vitali della società".



MINACCIA EVERSIVA

In ragione della sua capacità di contaminazione, la 'ndrangheta - emerge dalla relazione - è dunque una minaccia per la stessa democrazia. Un dato che diventa ancor più preoccupante ed attuale alla luce del nuovo organismo scoperto dai magistrati di Reggio Calabria. Le indagini del 2016 hanno infatti permesso di individuare la direzione strategica della 'ndrangheta e alcuni dei suoi componenti. Non si tratta di capi militari ma di professionisti, pubblici funzionari, deputati e senatori. Per i magistrati di Reggio Calabria nella cabina di comando della 'ndrangheta hanno funzione apicale un ex deputato della Repubblica, Paolo Romeo, massone e vincolato da legami storici e consolidati alla destra eversiva e un avvocato ed ex consigliere comunale, Giorgio De Stefano, legato per sangue e ruolo ad uno dei clan più potenti della 'ndrangheta tutta. Attorno a loro gravitano un importante dirigente della Regione Calabria, Franco Chirico, un ex sottosegretario regionale, Alberto Sarra, e persino un senatore della Repubblica, Antonio Caridi, arrestato quando ancora sedeva in Parlamento.


DEMOCRAZIA SCIPPATA

È questo nucleo ad aver deciso tutte le elezioni che si siano svolte in Calabria dal 2001 a - quanto meno - il 2012. Non si tratta - ed è questo il dato nuovo - dell'ormai canonica raccolta di voti per questo o quel candidato, ma di una pianificazione previa degli uomini e degli schieramenti migliori per garantire all'organizzazione appalti, lavori, commesse, scelte politiche e strategiche. Al momento, secondo quanto emerso dalle indagini, la Santa - questo il nome del nuovo organismo
è in grado di determinare le macropolitiche criminali di tutto il mandamento reggino. Ma più di un elemento, proveniente da vari territori, sembra far emergere una tendenza al coordinamento al vertice di organizzazioni criminali diverse ma unite da un comune obiettivo, il profitto.

mercoledì 10 dicembre 2014

Queste parole non le sentire nei tg. Don Luigi Ciotti " La mafia è nulla senza i politici".

Dopo lo scandalo dell'EXPO a Milano, del MOSE a Venezia,di MAFIA CAPITALE a Roma, il primo ministro annuncia un inasprimento delle pene. Ieri sera , nel corso di uno dei tanti dibattiti televisivi, il teologo Vito Mancuso aveva il coraggio di dichiarare che "il mondo dimezzo" siamo noi tutti! 

Quello che segue invece non lo ascolterete in nessun telegiornale! 

Fonte: Antimafiaduemila - Lettera43.it

Don Ciotti all'Ue: "La mafia è nulla senza i politici"


ciotti-luigi-c-imagoeconomicadi Antonietta Demurtas - 10 dicembre 2014

Tangenti, scandalo di Roma, Expo 2015. Don Ciotti sugli intrecci della malavita: «Renzi? Tutto e il contrario di tutto. Basta compromessi. Meno leggi e più legge».



Può esistere una politica senza mafie. Ma non possono esistere mafie senza il concorso della politica.
È questo il messaggio che don Luigi Ciotti ha portato il 9 dicembre al parlamento europeo di Bruxelles.
In occasione della Giornata mondiale contro la corruzione il presidente nazionale dell'associazione Libera, che è pronto a ricevere il premio come cittadino europeo dell'anno il 12 dicembre, ha presentato l’agenda di priorità per l’Europa contro la corruzione e il crimine organizzato.
SEI PUNTI NEL PROGRAMMA DI LIBERA. Sei sono i punti del programma di Libera per colpire il crimine organizzato: una normativa europea sui beni confiscati, il 21 marzo come Giornata Europea in memoria delle vittime di mafia, i crimini ambientali, la figura del procuratore pubblico europeo, il riciclaggio.
E la proposta per l’Europa di 'Riparte il futuro' (la campagna di Libera e Gruppo Abele contro la corruzione): una direttiva sulla tutela dei whistleblower, ovvero coloro che decidono di denunciare gli episodi di corruzione a cui si trovano ad assistere sul luogo di lavoro.
CORRUZIONE, IN TROPPI SENZA NORMA. Perché oggi, nonostante i passi avanti, solo cinque dei 28 Stati membri dell’Ue hanno una normativa completa sulla corruzione.
E l'Italia non è tra questi (sono il Lussemburgo, il Regno Unito, l'Irlanda, la Slovenia e la Romania). «Eppure già tre anni fa la Banca d’Italia parlò di corrotti che siedono regolarmente nei consigli di amministrazione di enti pubblici», dice don Ciotti a Lettera43.it.
«NE PARLAVA GIÀ ENRICO BERLINGUER». «Già nel 1982 Enrico Berlinguer aveva posto per primo la questione della morale e della trasaparenza all'interno delle forze politiche».
E ancora «nel 1984, quindi ben prima di Tangentopoli, il cardinale Martini parlò delle tre pesti che affliggevano Milano: la solitudine, la violenza e la corruzione bianca».
Interventi fatti anni fa che rappresentano «purtroppo una fotografia del presente».

DOMANDA. Renzi lo definirebbe un selfie. Forse però bosgna smettere di scattare foto e agire...
RISPOSTA.
 Renzi scrisse un articolo di risposta a Roberto Saviano con un'agenda di impegni di contrasto alla mafia, dove c'era tutto e il contrario di tutto. Quei punti erano condivisibilissimi, il problema è che alle dichiarazioni devono seguire i fatti, bisogna dare le risposte concrete.
D. Serve più coraggio?
R. Credo che ci sia il desiderio, ma non mi basta. Io ho bisogno di vedere la concretezza di alcuni passaggi.
D. Il pacchetto anti corruzione e la legge anti riciclaggio non la soddisfano?
R. I temini in cui erano stati presentati erano concreti, chiari, trasparenti, solo che poi il ministro della Giustizia Andrea Orlando è dovuto scendere a compromessi.
D. E quindi?

R. Si rischia di svuotare il valore di tutto quello fatto e proposto sinora. I beni confiscati alle mafie sono bloccati da due anni per colpa della burocrazia, dei ritardi, dei cambiamenti di governo.
D. Dei politici insomma.
R.
 Ci sono troppi venti contrari, che tirano da una parte e dall'altra. Così si va in Commissione, si va in Aula e alla fine si sviliscono gli intenti. Se da un lato c'è davvero chi vuole investire, chi vuole trasparenza, dall'altra si arriva a dei compromessi per galleggiare.
D. A Roma per esempio si è galleggiato tanto nel 'Mondo di mezzo'...
R
. Roma è una delle più grandi ferite, ma io mi stupisco ancora una volta di chi si stupisce, perché tutte le volte che succedono queste cose, tutti dicono: «Mio Dio non sapevo, non pensavo».
D. Invece?
R.
 Invece si sapeva, eccome. Per questo sono contento che la procura di Roma abbia inserito il 416 bis che individua nel nostro Paese i reati di stampo mafioso. Corruzione e mafia sono due facce della stessa medaglia.
D. Basta quindi parlare solo di Sicilia?
R.
 La mafia c'è anche a Roma, Milano, Torino. E 32 anni fa ha ucciso il procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia. Il Comune piemontese di Bardonecchia fu commissariato per infiltrazioni mafiosa nel 1995. Oggi Milano è la terza realtà d'Italia per beni confiscati, che sono il chiaro indicatore di una presenza criminale.
D. L'Expo la preoccupa?
R.
 Nelle grandi opere, la mafia ha sempre cercato di inserirsi. Per fermarla ci deve essere una corresponsabilità da parte di tutti. Il Commissario nazionale Expo Raffaele Cantone, presidente dell'Anticorruzione, è una persona di grande valore. Ma non basta.
D. Che cosa suggerisce?
R.
 Serve una maggiore attenzione da parte di tutti. La prima riforma da fare è una auto riforma, quella delle nostre coscienze. Serve un risveglio sociale, perché abbiamo troppi cittadini a intermittenza.
D. In che senso?
R.
 Quando ci sono le tragedie, la gente si commuove e poi non si muove.
D. In fondo se i politici sono corrotti, c'è qualche cittadino che li corrompe?
R.
 Sì, tutti dovrebbero leggere il libro di papa Francesco, Guarire dalla corruzione, dove invita a pensare chi è il corrotto e chi è il corruttore, una fotografia perfetta di quello che abbiamo davanti ai nostri occhi.
D. Abbiamo i politici che ci meritiamo?
R.
 Sì, la responsabilità non è solo dei politici. Le mafie non riescono a fare nulla se non trovano dei professionisti che li aiutano. Hanno bisogno di imprenditori, tecnici, commercialisti, notai, avvocati, che si rendono complici del sistema, direttamente o indirettamente. Perché la forza della mafia non sta dentro la mafia. Sta fuori.
D. Nella società. Che è mafiosa, ma anche in crisi.
R.
 I mafiosi per raggiungere il loro obiettivo hanno bisogno di trovare alleanze, compiacenza. Poi certo, la crisi economica finanziaria ha favorito molto questo fenomeno, perché i mafiosi hanno tanto denaro, frutto di affari sporchi, crimini, violenze. Anche se oggi sempre di più si mettono i guanti bianchi. Non hanno più la lupara in mano, ma la valigetta 24 ore.
D. Sono ancora più invisibili?
R.
 Sì, ma attenzione: non sono meno sanguinari. Dal 1992 a oggi la guerra di mafia apparentemente più silenziosa e meno appariscente ha fatto 3.500 morti.
D. E secondo lei l'Unione europea rischia di non vedere questi morti?
R.
 L'Ue sbaglia già nel linguaggio, perché anziché mafia preferisce chiamarla criminalità organizzata. Chiamiamola come vogliamo, ma non possiamo permetterci di pensare che il problema non esiste.
D. Forse non si capisce?
R.
 Ci sono certo modalità e forme diverse. Da noi le nostre mafie hanno radici storiche in alcune regioni, ma alla fine gli affari li hanno fatti al Nord, non al Sud. Non dimentichiamo che già nel 1900 don Luigi Sturzo, fondatore della Dc (Democrazia cristiana), aveva profeticamente detto che le mafie sarebbero salite verso il Nord e avrebbero anche varcato le Alpi. Dovremmo rileggere quei documenti.
D. Abbiamo la memoria corta?
R.
 Sì, purtroppo, il vero problema è che non ci chiediamo: perché da 400 anni abbiamo la camorra in Italia? Perché da oltre 150 anni parliamo di mafia? Perché da 120 anni parliamo di 'ndrangheta?
D. Ha una risposta?
R.
 Perchè al di là dell'impegno che molti ci mettono, non viene affrontato il nodo centrale del problema.
D. Quale?
R.
 Che serve davvero una volontà politica ferma, chiara, trasparente. Ci vogliono meno leggi e più legge. E soprattutto più politiche sociali, perché una delle gambe della mafia è rappresentata dalla mancanza di lavoro, dall'ignoranza. L'Italia è agli ultimi posti per dispersione scolastica in Europa. Ci sono sei milioni di analfabeti.
D. L'ignoranza uccide?
R.
 Crea un terreno fertile. Un dato inquietante è che il 61% di disoccupati è disposto ad accettare un posto di lavoro in una attività dove la criminalità organizzata ha investito per riciclare il denaro. C'è gente onesta senza lavoro che non sa dove sbattere la testa.
D. E si fa finta di non vederle queste persone?
R.
 No, si vedono. Il problema è che oggi consapevolezza e responsabilità sono due parole centrali: non si può essere consapevoli senza sentirsi implicati in tutto questo.

Tratto da: lettera43.it