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martedì 19 settembre 2017

In Calabria, "La metamorfosi delle spose mafiose: da sfingi silenti a madri coraggio"

In Calabria sta avvenendo un fenomeno che potrebbe avere esiti importanti nella battaglia culturale contro le mafie: donne-ribelli, citate da Francesco La Licata nell'articolo "La metamorfosi delle spose mafiose", nel tentativo di salvare i figli maschi da un destino che appare quasi sempre "segnato" (carcere o bara!), decidono di scappare dal mondo mafioso. 
Esattamente quanto fece Rita Atria, la ragazzina siciliana testimone di giustizia a cui abbiamo intitolato il nostro presidio: pur essendo nata in una famiglia mafiosa,  Rita Atria scelse di denunciare per tentare di “cambiare”, lei per prima, il mondo nel quale era nata e che la soffocava. 
Dopo la strage di via D’Amelio nella quale, fra gli altri, venne ucciso Paolo Borsellino, divenuto "padre putativo" di Rita, Rita Atria scriverà nel suo diario le parole che costituiscono il suo testamento spirituale: (…) Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci
Francesco La Licata lancia così una sorta di appello: "(...) Queste «eroine» oggi non hanno cittadinanza: stanno in un mondo di mezzo, senza poter contare nell’aiuto dello Stato perché non hanno altro da offrire se non la volontà di cambiare. Bisogna aiutarle, bisogna intervenire perché rappresentano una grande opportunità per la società civile(...)"

Una di queste donne-ribelli si racconta nell'articolo di N. Zancan:  L’inferno vuoto delle donne infuga dalla ’ndrangheta : "Vivo nel limbo: niente auto, gite per i figli, viaggi..."


Fonte: La Stampa 

La metamorfosi delle spose mafiose: da sfingi silenti a madri coraggio

 FRANCESCO LA LICATA
La sottocultura mafiosa, in qualunque parte dei territori si sia estrinsecata, ha sempre trovato solido appoggio dentro l’universo femminile. Per anni, per decenni, i riti tribali delle cosche sono stati monopolizzati dalla gretta grossolanità mascolina, ma sono stati «sigillati» e tramandati dalle «custodi» della tradizione: le mamme e le mogli che, con il loro silenzio, o intendevano tutelare e promuovere l’avanzata «sociale» (sempre nel mondo mafioso) di figli e mariti, oppure sceglievano di «salvare il salvabile» cioè i familiari maschi sopravvissuti alle faide e al regolamento di conti. Un ruolo fondamentale per il mantenimento, per la conservazione della famiglia, quella di sangue e quella mafiosa che non raramente coincidevano.  
Nel corso dei decenni abbiamo, spesso, constatato quanto difficile sia stato penetrare dentro i segreti delle «famiglie», grazie anche alla scelta di campo operata da donne che preferivano la legge criminale a quella dello Stato. Poi, come vedremo, col trascorrere del tempo e con lo scorrere del sangue, abbiamo assistito ad una sorta di mutazione che ha portato il mondo delle donne di mafia a dividersi. Da una parte le femmine ostinatamente legate alla «tradizione», dall’altra quelle che aprivano gli occhi e la mente alla possibilità di poter scegliere un altro modo di vivere e di pensare, ma sempre con l’idea di fare la cosa giusta in direzione del salvataggio dei figli maschi, strappandoli al destino già scritto che li collocava o in carcere o dentro una bara.

Oggi, infine, sembra insorgere l’ultima generazione di «femmine ribelli» (per usare una definizione di Lirio Abbate) che, pur non avendo notizie, conoscenze, segreti da offrire allo Stato in cambio dell’assistenza necessaria a «passare dall’altra parte», sembra determinata ad abbandonare il mondo della violenza per strappare alle mafie il bacino di manovalanza criminale rappresentato dai figli maschi. Queste «eroine» oggi non hanno cittadinanza: stanno in un mondo di mezzo, senza poter contare nell’aiuto dello Stato perché non hanno altro da offrire se non la volontà di cambiare. Bisogna aiutarle, bisogna intervenire perché rappresentano una grande opportunità per la società civile. La storia ci insegna che le mafie, in quanto società chiuse, possono essere scardinate solo dall’interno. E quale migliore grimaldello, se non la «fuga» verso il meglio di tante madri accompagnate dai loro figli? Diventerebbe superfluo persino l’intervento della magistratura che, nei casi più cruenti, arriva a negare ai genitori responsabilità genitoriale sui figli minori. 
È cambiato l’universo delle mafie. In Sicilia e anche in Calabria dove il legame familiare e familistico si è rivelato sempre l’ostacolo maggiore nella battaglia contro le cosche. È trascorso più di mezzo secolo da quando le madri indossavano il lutto in età giovane e lo tenevano fino alla morte. Agata Barresi era la moglie di un mezzo mafioso, madre di cinque figli maschi. Glieli uccisero uno dopo l’altro e assassinarono, per una overdose di odio, anche il figlio illegittimo che il marito aveva avuto da un’altra relazione. Lei non aprì mai bocca, eppure conosceva perfettamente il nome del mandante della strage. Omertà? Paura? Oppure semplicemente lo sbaglio di ritenere di poter fermare, col silenzio, la mano assassina. Altre donne furono protagoniste in negativo: le donne di Enzo Buffa, in procinto di pentirsi, fecero irruzione nell’aula del maxiprocesso di Palermo per impedire che il proprio congiunto divenisse collaboratore di giustizia. E riuscirono nell’impresa, perché Buffa cambiò idea.  

Serafina Battaglia intervistata da Mauro De Mauro
Certo, c’era qualche eccezione, anche allora. Serafina Battaglia denunciò gli assassini del marito e del figlio, ma perse la sua battaglia. Fu protagonista di una drammatica testimonianza in corte d’Assise ma non bastò, i giudici considerarono «insufficiente» il gesto della donna per arrivare a una condanna. Erano altri tempi e la donna non aveva un grande peso: nè dentro la mafia nè nella società civile. Era il tempo in cui il reato di associazione mafiosa veniva ritenuto inapplicabile per una donna, perché - in quanto donna - non sarebbe stata in grado di essere mafiosa. Tutto questo mentre Antonietta Bagarella, futura moglie di Totò Riina, si presentava spavaldamente in Tribunale per rivendicare la «bontà» del fidanzato, definendolo «il migliore degli uomini». 

Lea Garofalo
La svolta arriverà col pentitismo. La storia di questo fenomeno testimonia quale importanza abbiano avuto le donne nel cambiamento. Basterebbe la tragica storia di Lea Garofalo, vittima del marito ndranghetista ma salvatrice della figlia, per esaltare l’eroismo di tante altre donne. Fu Cristina, terza moglie di Tommaso Buscetta, a dare forza al marito nella scelta di collaborare con lo Stato per strappare i figli più piccoli al fascino di Cosa nostra. E Carmela Iuculano fa la stessa cosa quando ascolta lo sfogo delle sue figliolette, Daniela e Serena, che le chiedono conto e ragione del perché a scuola debbano subire l’ostracismo dei compagni. Carmela abbandona il marito, prende i figli e scompare. Come farà, dopo, anche Giusy Vitale, la prima donna accettata dalla mafia come «sostituta» del fratello capomandamento. Qualcuno, come Rita Atria, la sua scelta di fuggire dalla mafia l’ha pagata con la vita: suicida nel suo nascondiglio romano, per il dolore di aver perso il suo padre putativo Paolo Borsellino. 
Queste storie dicono solo che bisogna prendere come opportunità la spinta che arriva oggi dalla Calabria. 


martedì 9 agosto 2016

Antonio Scopelliti: il giudice solo, ucciso dalla 'ndrangheta il 9 agosto 1991

Il dovere della Memoria. Il giudice solo: così  era stato ribattezzato il magistrato Antonio Scopelliti, ucciso in un agguato di mafia il 9 agosto 1991 a pochi chilometri da Villa San Giovanni, in Calabria, mentre era solo e senza scorta alla guida della sua auto. Nativo di Reggio Calabria, dove nasce nel 1953, era tornato nella sua regione per trascorrere le vacanze. Come Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, avrebbe dovuto rappresentare l’accusa contro gli imputati del maxiprocesso di mafia a Palermo. Secondo i pentiti della 'ndrangheta Giacomo Lauro e Filippo Barreca, sarebbe stata la cupola di Cosa Nostra siciliana a chiedere alla 'ndrangheta di uccidere Scopelliti, che, in cambio del ''favore'' ricevuto, sarebbe intervenuta per fare cessare la ''guerra di mafia'' che si protraeva a Reggio Calabria dall'ottobre 1995, quando fu assassinato il boss Paolo De Stefano.
Poco prima di essere ucciso, nel marzo del 1991, Scopelliti aveva chiesto le condanne definitive per Pippo Calò e Guido Cercola, i responsabili della Strage del Rapido 904 che il 23 dicembre 1984 aveva fatto saltare in aria la Grande Galleria dell'Appenino a San Benedetto Val di Sambro, provocando la morte di 17 persone e più di 200 feriti. Ma Corrado Carnevale, presidente della Prima Sezione penale della Cassazione, rigettò le richieste della pubblica accusa, e rinviò ad un nuovo giudizio di appello.
Nel settembre dello stesso anno 1991 si stava preparando a rigettare i ricorsi presentati dalle difese dei grandi mafiosi condannati al maxi-processo per Cosa Nostra. Questa probabilmente la motivazione della sua condanna a morte. Nel maggio del '91, infatti, Scopelliti aveva accettato di rivestire la pubblica accusa nel maxi-processo in sede di Cassazione.
In una intervista rilasciata a Maurizio Costanzo nel 1978, il giudice Antonio Scopelliti aveva parlato di come intendesse la sua professione di giudice: "Un giudice non è mai popolare, soprattutto un pubblivco ministero. Ogni giudice va incontro a critiche, a volte astre, vivaci, a volte anche ingiuste. ma non può sacrificare il suo ministero, la sua milizia oramai, per una popolarità che non è un suo privilegio (...) Il giudice è quindi solo, solo con le menzogne cui ha creduto, le verità che gli sono sfuggite, solo con la fede cui si è spesso aggrappato come naufrago, solo con il pianto di un innocente e con la perfidia e la protervia dei malvagi. Ma il buon giudice, nella sua solitudine, deve essere libero, onesto e coraggioso.(...)

L'omicidio

Il 9 agosto 1991, sulla strada della frazione di Piale (provincia di Villa S. Giovanni) il giudice Scoppelliti, a bordo della sua auto, venne raggiunto alla testa da due colpi di fucile calibro 12 sparati da un commando di due uomini a bordo di una moto che lo attendevano all'altezza di una curva; Scopelliti morì sul colpo.Secondo le dichiarazioni del pentito di mafia Mario Pulito, al giudice Scopelliti avevano offerto ingenti somme di denaro (circa cinque miliardi di lire [1]) per cambiare rotta sulle decisioni prese in relazione al maxi-processo.
Anche l'omicidio del giudice Scopelliti rimane ancora oggi impunito. Nel 2001, la Corte d' Assise d'Appello di Reggio Calabria assolve Bernardo Provenzano, Giuseppe e Filippo Graviano, Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffre' e Benenetto Santapaola dall'accusa di essere stati i mandanti..
Il presidente del Senato Pietro Grasso ricordando in queste ore il magistrato calabrese ha scritto: «un altro omicidio di mafia purtroppo ancora irrisolto. Antonino Scopelliti avrebbe dovuto rappresentare l'accusa nel maxiprocesso, ormai giunto in Cassazione. Lo uccisero il 9 agosto di 25 anni fa: pensavano di poter così impedire alla giustizia di fare il suo corso. Non ci riuscirono (…) Nella sua Calabria, l'esempio del giudice Scopelliti non è svanito: sono infatti moltissime le persone che ogni giorno si impegnano nel ricordo di un uomo che ha onorato fino in fondo la sua professione e la sua lealtà allo Stato»,

mercoledì 9 luglio 2014

Vito Teti: "Tutta la Calabria è come Oppido Mamertina"

Vito Teti
Il "j'accuse" di Vito Teti? 
Vito Teti, ancora una volta, si rivolge anzitutto ai calabresi; a quei calabresi che "(..) non possono tacere, non possono assistere silenziosi non solo a questo degrado, ma anche alle spiegazioni che ne vengono date, ma che spesso sono stati considerati traditori e calunniatori della loro terra."
Il "j'accuse" di Vito Teti all’indomani di quanto avvenuto in occasione della funzione religiosa che si svolgeva ad Oppido Mamertino, fatti aggravati dal comportamento censurabile del parroco del paese don Benedetto Rustico
Ma le parole di Vito Teti sono rivolte anche a "tutti noi": agli italiani  che non possono più considerare colpevoli solamente "gli altri". Anche noi, in altri luoghi, in altre situazioni, assistiamo -consapevoli o inconsapevoli- "ad inchini" di  natura simile di quello fatto durante la processione religiosa di Oppido ( l'inchino "al potere") ma di forma differente.  

Tutta la Calabria è come Oppido Mamertina
la processione della Madonna delle Grazie a Oppido Mamertina
Per dare speranza alla regione bisogna partire da questa scomoda verità.C’è una cappa mediatica e un’opa identitaria angusta sulla Calabria. Te ne accorgi quando vai fuori, in Italia e all’estero, e provi un senso di sollievo, misto ad amarezza, nel non leggere (su carta o su tanti siti web) commenti, riflessioni, retoriche identitarie che affossano la nostra regione, ne annullano il senso critico, un vero e problematico, sofferto, sentimento dell’appartenenza, incoraggiano alla lamentela, al rivendicazionismo immotivato, al rifiuto di ogni assunzione di responsabilità.
C’è un cerchio che non è nemmeno magiconon esistono leader autorevoli o progetti consapevoli cui legarsima è soltanto una prigione, una trappola, un sotterraneo senza uscita. È fatto da commentatori, studiosi, giornalisti che, più o meno in buona fede, più o meno consapevolmente, più o meno legati tra di loro, si fanno portavoce di una “calabresità” pelosa. Siamo in presenza delle piccole vedette dell’identità proclamata, risentita, rancorosa, reattiva, mai propositiva, per qualcosa.

La calabresità pelosa
Provo a riassumere, in maniera riduttiva e schematica, le “tesi” che mi capita leggere su giornali, riviste, siti, facebook – che ormai stancano e sono anche illeggibili, nella loro ripetitività, nella loro inconsistenza analitica, nella loro incapacità di sguardo prospettico e di alimentare speranza a partire dal sé e non da quello che dicono gli altri. Cosa sostengono i portavoce dell’identità assediata?
1) La Calabria è oggetto di attacchi, incomprensioni, calunnie esterne e questo spiega la sua “arretratezza”, la sua marginalità.
2) Il problema della Calabria non è la ‘ndrangheta, non è la malapolitica, non sono i calabresi, ma sono gli altri, la stampa del Nord, chi non comprende una regione bella e ricca, accogliente ed ospitale.
3) La ‘ndrangheta del passato aveva dei valori popolari ed era anche risposta all’aggressione dei colonizzatori esterni.
4) La ‘ndrangheta è una continuazione del brigantaggio ed esprimeva anche i sentimenti di giustizia delle popolazioni.
5) Tutti i guai della Calabria e del Sud cominciano con l’unificazione nazionale: prima c’era l’Eden, lo “sviluppo”, la primitività genuina, adesso tutto è stato corrotto dagli altri, dai forestieri, dai nemici esterni.

La colpa…
Come se la Calabria e il Sud non avesse partecipato, con i suoi ceti politici e dirigenti, al degrado, all’avvelenamento, alla corruzione del Sud e dell’intero paese.
Come se scempi urbanistici, mancanza di tutela del territorio, incuria e incompiutezze, macerie e degradi non avessero visto come protagonisti interessati quanti poi piangono per la sfortunata e incompresa regione.
Potrei continuare a segnalare revisionismi localistici, letture infondate, asserzioni indimostrabili, affermazioni superficiali. Potrei ricordare come queste versioni tendono, di fatto, a legittimare la ’ndrangheta, a dare sempre alibi a “noi” contro gli altri, a occultare scempi e devastazioni compiute dai calabresi.
La colpa è degli altri; la salvezza è all’indietro, nel buon tempo antico; noi calabresi siamo quasi “geneticamente” (razzismo alla rovescia) buoni, accoglienti e ospitali e siamo stati rovinati dagli altri: i piemontesi, lo Stato, il Nord, i partiti nazionali. La colpa non è della ‘ndrangheta, della politica clientelare, dei professionisti collusi, organici, capi clan, di gente asservita e che non si indigna. No, la colpa è assegnata a chi non ci comprende, a chi segnala le malefatte dei locali, a chi denuncia quotidianamente le ombre e le responsabilità delle popolazioni.

…e I traditori!
Giudici, studiosi, giornalisti seri che amano questa terra, ma non possono tacere, non possono assistere silenziosi non solo a questo degrado, ma anche alle spiegazioni che ne vengono date, spesso sono stati considerati traditori e calunniatori della loro terra, alla quale hanno dedicato, magari, una vita e, spesso, la vita.
Il bersaglio dichiarato di molti commentatori è a volte la retorica dell’antimafia. Ora che l’antimafia abbia partorito anche interessi, spazi di potere, collocazione e visibilità poco edificanti, è sotto gli occhi di tutti. Ma ridurre l’opposizione vera alla criminalità sempre e comunque come un gioco di potere complementare alla delinquenza, diventa ingeneroso, calunnioso, pericoloso per quei giovani che non vogliono tacere, per magistrati e forze dell’ordine che sono in prima linea nel contrasto alla criminalità, per intellettuali, professionisti, gente comune che vivono nel rispetto delle regole, onestamente, e sono in prima linea nella difesa della legalità.

“Il garantismo”
La parolina magica che accomuna tanti “maestri del pensiero”, notisti, fondisti è “garantismo” come se il garantismo possa diventare uno slogan, un invito ad assolvere i criminali e i loro sodali e sostenitori, e non una pratica democratica, una conquista civile e illuminata, valida sempre e per tutti. E invece i predicatori del garantismo sono garantisti con i giudici indagati e condannati, mai con i magistrati che contrastano il crimine, rischiando la vita, quotidianamente. Il garantismo è per quella Chiesa perdonista e predicatoria e non per quei parroci coraggiosi e veri che contrastano, nei fatti, non solo a parole, la criminalità e invitano alla legalità. Il garantismo è per gli imprenditori che rubano il danaro pubblico, sciupano i fondi europei, si arricchiscono nel giro di pochi mesi e mai per i giovani senza lavoro e che perdono il lavoro.
Il garantismo è sempre per i carnefici, mai per le vittime. Le garanzie vengono invocate, anche giustamente, per ogni cittadino, ma ci sono cittadini più degli altri. Se qualcuno ha commesso un reato, può stare più tranquillo di chi lo ha subito.

Quale Chiesa?
Adesso – dopo silenzi e omissioni della Chiesa – la presa di posizione e le parole profonde e vere del Papa mostrano che il Re è nudo, che non basta coprirlo con piccoli pannicelli sporchi, con commenti che ubbidiscono a interessi più o meno palesi, o semplicemente a bisogno di visibilità, al gioco di spararla grossa, ad analisi in cui si sostiene tutto e il contrario di tutto, a commenti nei quali, in maniera schizofrenica, si passa dall’indignazione parolaia estrema all’autoassoluzione più vergognosa.
Adesso quanto accade ad Oppido – ma c’era bisogno di Oppido? Non bastavano i fatti di Sant’Onofrio e Polsi, le analisi e le descrizioni, pure di Sales, Saviano, Gratteri, Nicaso, Ciconte, Albanese, Baldassarro, Comito e tanti altri? – ci dice quanto radicate siano l’assuefazione, l’apatia, la confusione. C’era bisogno della voce di papa Bergoglio per fare capire come non sia possibile più nascondersi, ammiccare, giocare con revisionismi, informare in maniera tendenziosa, cedere alla lamentela. Credo che in molti dovrebbero almeno tacersi ed evitare, adesso, di dirci quanto ha ragione Papa Francesco e anche fare finta di stupirsi per Oppido.

Tutta la Calabria è una grande Oppido
Tutta la Calabria, senza per questo dimenticarne bellezze e grandezza, generosità e slanci, è, purtroppo, in maniera diversa, una grande Oppido. Da qui bisogna partire, da questa dolente constatazione, da questa scomoda verità, se si vuole dare, davvero, speranza a questa terra.



mercoledì 30 maggio 2012

Le mani della 'ndrangheta sulla Salerno-Reggio Calabria


Le mani delle cosche sulla Salerno-Reggio Calabria

La storia è sempre quella. Dodici fermi nella notte nei confronti di altrettanti esponenti del clan di Giuseppe Virgilio Nasone. Un "pizzo" del 3 per cento sull'importo degli appalti per i cantieri. Gli imprenditori che non pagavano avevano i mezzi danneggiati o subivano pesanti intimidazioni
Fonte La Repubblica


REGGIO CALABRIA - I carabinieri li hanno sentiti pianificare le incursioni notturne, organizzare i danneggiamenti. Stabilire quali mezzi dovevano saltare in aria e quali essere devastati a mazzate. Per lavorare sui cantieri della Salerno-Reggio Calabria, dovevano pagare tutti. E nella zona di Scilla-Villa San Giovanni, i soldi toccavano a loro. Il 3% dell’importo dell’appalto, e “non meno”, doveva andare ai “Nasone-Gaietti”. 
All’alba di oggi una decina di componenti della cosca sono finiti in manette su richiesta della Dda di Reggio Calabria, che ha deciso di affondare il colpo mentre la cosca era ancora pienamente operativa. I carabinieri del Comando provinciale hanno notificato dodici “fermi” nei confronti di altrettante persone ritenute legate al clan degli scillesi. Il procuratore aggiunto Michele Prestipino e i pm Alessandra Cerreti e Rosario Ferracane, hanno firmato i provvedimenti nel tentativo di bloccare lo stillicidio di intimidazioni che negli ultimi mesi ha riguardato una serie di aziende impegnate nella fornitura di servizi e materiali o subappaltatori dell’A3 e non solo. 
la mapppa del racket sulle forniture del cemento. anno 2008
In questo senso, il boss Giuseppe Virgilio Nasone, e i suoi uomini erano determinati. Nonostante l’arresto di un picciotto della “famiglia” catturato nei mesi scorsi - quando si era presentato ad un imprenditore per chiedere una mazzetta da sei mila euro - il gruppo non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Anzi. Le microspie dell’Arma li avevano sentiti ragionare: “Non è che le cose non si possono fare, basta stare attenti”.Le cose da fare erano gli attentati. E di soldi ne arrivavano tanti dalle ditte intimorite. Alcuni imprenditori pagavano per evitare che le attrezzature, in molti casi particolarmente costose, fossero danneggiate. Altri per paura o per evitare che gli operai subissero ritorsioni anche violente. “Dobbiamo fare come quelli di Gioia Tauro – dicevano – quelli che pagano sono apposto. Agli altri gli facciamo saltare i palazzi”.
L’inchiesta della Procura di Reggio Calabria ha preso il via dalla denuncia di un imprenditore che non si è voluto piegare. Così, a marzo del 2011 è finito in carcere Giuseppe Fulco, cugino dei Nasone. Gli inquirenti, incassato il risultato, tuttavia, non hanno mollato la presa ed hanno continuato ad ascoltare i suoi commenti in carcere. Ed è durante i colloqui con la madre e la sorella che sono venuti fuori una serie di elementi che hanno consentito di ricostruire la rete di rapporti interni alla cosca. Il clan infatti continuava a versargli “la mesata” ed a spartire con lui gli utili di altre estorsioni. Altre microspie e una serie di pedinamenti hanno fatto il resto, riuscendo a dare un volto ed un nome ad ogni componente del clan e a ricostruire i singoli episodi.  
GIUSEPPE BALDASSARRO

sabato 26 maggio 2012

Pino Masciari è tornato a casa


Pino Masciari  torna a casa . Ma resta il giallo sulla scorta dopo oltre 36 ore di silenzio

26 marzo 2008: Pino Masciari  riceve la Cittadinanza Onoraria della Città di Pinerolo
di Roberto Galullo
Fonte: Sole 24 Ore

Il suo telefono cellulare risulta ancora irraggiungibile ma i ragazzi che da anni lo accompagnano quando la scorta del Viminale latita o comunque è insufficiente, hanno telefonato alla moglie Marisa: Pino Masciari, di cui si erano perse le tracce a Cosenza dalla mattina di ieri, sta tornando a casa a Torino.
A dirlo al Sole-24 Ore è la moglie che ancora non ha parlato direttamente con il marito ma è stata rassicurata dai ragazzi e dalla ragazze che lo hanno incontrato. «Pino sta raggiungendo la prefettura – dice Marisa Masciari – e del resto il prefetto del capoluogo piemontese è stato l'unico che ci ha testimoniato presenza e affetto. Dalla Calabria, invece, nessuna voce. Solo silenzio».

venerdì 25 maggio 2012

La moglie racconta la scomparsa del testimone di giustizia Pino Masciari – Rapito o rifugiato per paura?


Marisa non mi piace quel che sta accadendo, c’è un vuoto. La scorta mi ha girato le spalle e se ne è andata”. Ecco le ultime frasi dette ieri mattina alla moglie, Marisa, dal testimone di giustizia calabrese Pino Masciari.
Marisa non sa darsi pace al telefono per la scomparsa di suo marito ma resta lucida al punto da non abbandonarsi a facili ipotesi. “Non so se sia scomparso, se l’abbiano preso, se impaurito si sia rifugiato da quale che parte in Calabria – dice - non so ancora nulla. So solo che la scorta che avrebbe dovuto riportarlo a casa, qui al Nord, è arrivata sotto l’albergo di Cosenza dove risiedeva da due notti, gli ha comunicato che non poteva accompagnarlo e se ne è andata”.
Già in Calabria. Per la precisione era a Cosenza, dove il giorno prima, il 23 maggio, Pino Masciari - ricco costruttore edile che nella sua regione denunciò usurai e cosche e per questo non solo ha perso tutto ma da quel momento la sua vita è a rischio – aveva partecipato a dibattiti sulla legalità all’Università e a una rappresentazione teatrale tratta dal libro che ha scritto con la moglie. E’ stato fino a sera con gli attori, ha incontrato gente, ha stretto mani, ha gridato la forza dello Stato e lo squallore della violenza ‘ndranghetista ed è andato in albergo.
Ieri, la mattina presto, ha chiamato la moglie per rassicurarsi che tutto procedesse bene a casa e poi l’ha richiamata tra le 8 e le 8.30 per dirgli – terrorizzato – che la scorta non lo avrebbe riaccompagnato dalla famiglia al Nord. “Pino – racconta la moglie – e questo me lo hanno testimoniato anche persone che erano in quel momento con lui, tra le quali alcuni attori della compagnia, ha cercato di mettersi in contatto con il comandante del reparto scorte della città in cui viviamo per sapere che cosa stesse succedendo ma non è riuscito a parlargli”.
Tutte le ipotesi restano aperte e affrettare le conclusioni sarebbe sbagliato, sbagliatissimo. Per restare – dunque – ai fatti, va rilevato che ieri sera Marisa Masciari ha incontrato un maresciallo del reparto scorte della città in cui vivono. “La cosa incredibile – racconta Marisaè che lui chiedeva a me dove fosse mio marito. Deve essere lui, deve essere lo Stato a dirmelo”.
Una cosa che appare strana è che Pino Masciari si muove – oltre che con una scorta - anche con un “codazzo” di persone che lo accompagnano per fargli, pomposamente, da “scudi umani”: possibile che nessuno si sia accorto della sua scomparsa? “Conosco mio marito – dice Marisae so che quando è terrorizzato e ieri al telefono lo era più del solito, non si fida di nessuno, neppure di se stesso”.
Dunque scomparso o fuggito per ripararsi in attesa che lo Stato si rifaccia vivo per assicurargli protezione vera? “Ma quale protezione – si sfoga Marisain Calabria è un disastro. Lo scorso anno fu lasciato per ore a Vibo solo e con una valigia in mano”.
Meglio erano andate le cose nei giorni scorsi. Lunedi i coniugi Masciari erano partiti per Bologna dove Pino è stato insignito della cittadinanza onoraria. La moglie è tornata a casa e il marito ha proseguito per Corigliano (Cosenza), comune già sciolto per mafia, dove ha incontrato i ragazzi di una scuola elementare e la cittadinanza. Sempre – nei movimenti – accompagnato da una macchina del servizio protezione con due persone a bordo.
Terminato l’incontro ed è andato a Cosenza, dando sempre riferimenti degli spostamenti al reparto scorte delle località attraversate.
La sua testimonianza di legalità vera, forte – conclude Marisa che è in casa sola con i figli – da fastidio. Di fatto noi siamo esiliati. Mai ci è stato proposto dai calabresi di tornare a vivere in Calabria sicuri, protetti. Si naviga a vista”.
Non resta che sperare che il radar intercetti presto Pino e che possa raccontare cosa è accaduto da ieri mattina. Ogni ipotesi – anche le più assurde e impensabili – restano aperte.


Fonte: http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com

lunedì 23 aprile 2012

Un laboratorio di saponi per combattere la ‘ndrangheta - La storia di Rosy


Un laboratorio di saponi per combattere la ‘ndrangheta- La storia di Rosy 


Fonte: Corriere della Sera
di Micol Sarfatti

Portare cultura del lavoro e sviluppo dove questi valori non esistono perché alla legalità si preferiscono le leggi non scritte della malavita. Un’impresa ardua, ma non per Rosy Canale, imprenditrice calabrese 38enne che ha fatto della lotta alla ‘ndrangheta  una missione di vita.
A lei lavorare piace da sempre: “ero proprietaria e gestore di un locale a Reggio Calabria -racconta Rosy- inaugurato e fatto crescere con tanti sacrifici” ma un giorno è costretta a smettere. La criminalità organizzata la prende di mira, vuole che il suo locale diventi una base per lo spaccio di droga. Lei si ribella, loro la minacciano.
Una sera Rosy sale in macchina dopo aver finito di lavorare, ad attenderla ci sono due aggressori. “Mi hanno picchiata fino a ridurmi in fin di vita. Ho capito che lì non ero più al sicuro”. Lascia la Calabria, ma alla fine decide di tornarci, e non in un posto a caso.
Nel 2007 si trasferisce nella Locride, a San Luca, roccaforte della ‘ndrangheta. “Volevo dare un’altra chance alla mia terra -spiega- Ho scelto un paese in cui la malavita comanda. Ho pensato che se un seme riesce a germogliare nella roccia, allora può farlo ovunque”.
Qui Rosy fonda il Movimento donne di San Luca e della Locride: un’associazione che vuole salvare madri e figli dalla criminalità e diffondere la cultura della legalità attraverso il lavoro. “Prima ho aperto una ludoteca, un posto sicuro per i bambini abituati a giocare con le pistole”, spiega la Canale.
“Poi ho avviato un laboratorio per la produzione di saponi artigianali e uno di ricamo”. Lavori semplici, ma che possono cambiare la vita di chi vive in una terra dove il tasso di disoccupazione femminile è al 13, 6% (Fonte Istat). Le donne di San Luca oggi sono 18, hanno tra i 35 e i 40 anni. Sono madri, mogli, sorelle di uomini vittime e carnefici della ‘ndrangheta. Fanno le braccianti e vivono dei prodotti che loro stesse coltivano.
“Hanno creduto molto in questo progetto e nel loro lavoro”, precisa Rosy. “All’inizio abbiamo avuto attenzione e fondi per comprare i macchinari. L’obiettivo-spiega la Canale- era dare un primo impiego per creare occupazione, entrare nel mercato dell’equosolidale, partecipare alle fiere di settore”.
Le cose sembravano funzionare, ma poi la crisi non ha risparmiato nemmeno loro. “Vendiamo poco, facciamo fatica a ripagarci le spese. Non voglio che le mie donne lavorino gratis -puntualizza- un compenso è la base di ogni lavoro onesto”. “La difficile congiuntura economica ha reso le persone impermeabili alla solidarietà. Prima c’era più interesse vero la nostra realtà”.
L’imprenditrice si dice stanca e non nasconde la delusione avuta dalle istituzioni locali: “Ci hanno lasciate sole-denuncia- speravamo di ricevere aiuto, almeno nella fase di start up e invece nulla. Vogliono combattere la criminalità, rilanciare il Sud, ma solo a parole”.
Rosy ammette che le cose sono sempre più difficili e la tentazione di mollare tutto ogni tanto c’è. “Per ora proviamo, tutte insieme, a continuare-spiega-fermarsi sarebbe come urlare al mondo “Viva la ‘ndrangheta””.

venerdì 20 aprile 2012

'Ndrangheta, il padrino si getta dalla finestra della sua abitazione a Volvera (To)


Suicida Giuseppe Catalano: il suo nome è tra i più importanti dell’operazione «Minotauro», condotta dai carabinieri  nel giugno 2011. 
Si era dissociato ed era agli arresti domiciliari
Fonte : La Stampa

Il bar Italia a pochi passi dalla caserma della polizia in via Veglia, dove Giuseppe Catalano incontrava affiliati e gestiva affari

MASSIMILIANO PEGGIO
TORINO

"Ammetto di aver aderito all’organizzazione di cui sono accusato ma non intendo più farne parte». Così, con una lettera inviata al tribunale e alla procura, Giuseppe Catalano, considerato un padrino della ’ndrangheta e capo locale di Siderno a Torino, si era dissociato di recente dall’organizzazione criminale. Da una ventina giorni era agli arresti domiciliari per motivi di salute. Ieri si è tolto la vita lanciandosi dal balcone di casa, a Volvera.
Giuseppe Catalano, nato a Siderno il 10 maggio 1942, era finito in carcere due anni fa, a seguito dell’inchiesta coordinata dalla procura di Reggio Calabria. Ma il suo nome è tra i più importanti dell’operazione «Minotauro», condotta dai carabinieri del Comando Provinciale di Torino nel giugno 2011. Indagine monumentale contro l’infiltrazione della criminalità calabrese in Torino e provincia: 172 imputati, molti già a processo. Tra questi proprio Giuseppe Catalano. Il «padrino» era depresso.
Il suo fisico era provato dalla lunga carcerazione e da una malattia che si stava aggravando. Ieri ha deciso di farla finita buttandosi dal primo piano della sua villetta. Una volo di circa sei metri. Nella caduta ha riportato un grave trauma cranico. La figlia era in casa. Ha sentito un tonfo. Si è affacciata alla finestra e ha dato subito l’allarme. Giuseppe Catalano è stato trasportato in ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale San Luigi di Orbassano. È arrivato alle 16,15. Era in arresto cardiaco. Non c’è stato nulla da fare. Sul fatto che il «padrino» si sia suicidato non sembrano esserci dubbi. Sul cadavere sarà comunque effettuata l’autopsia.
«I numerosi elementi hanno dimostrato - si legge negli atti dell’inchiesta Minotauro - sia l’appartenenza di Catalano all’associazione in argomento, sia il particolare ruolo di assoluto rilievo da lui ricoperto: tale carica lo ha portato a essere protagonista di varie vicende inerenti l’intero sodalizio nella sua dimensione territoriale piemontese». Gestiva il «Bar Italia» di via Veglia 59 a Torino.
Lì faceva affari, organizzava incontri con gli altri «militanti», brindava alle campagne elettorali. Come nel 2009, quando l’attuale assessore regionale al Lavoro, Claudia Porchietto, candidata alla presidenza della Provincia, fu filmata dai carabinieri sulla soglia del locale. «Per me Catalano era un contatto puramente elettorale, una delle migliaia di mani che ho stretto. Non lo conoscevo» disse poi l’assessore, prendendo le distanze dalla quella visita. Tra le relazioni finite nella bufera, anche quella con il sindaco di Rivarolo Fabrizio Bertot. «Non sapevo chi fosse Catalano. Questa storia mi ha distrutto» ripete da mesi il primo cittadino.

mercoledì 11 aprile 2012

Nuovo attentato dell'ndrangheta contro il sacerdote che assiste disabili e immigrati in un edificio confiscato alle 'ndrine



Lamezia Terme, colpi di pistola contro la comunità di Don Panizza
fonte : Corriere della Sera
Nuovo attentato dell'ndrangheta contro il sacerdote che assiste disabili e immigrati in un edificio confiscato alle 'ndrine
Don Giacomo Panizza
LAMEZIA TERME - Al rientro dal ponte pasquale, don Giacomo Panizza ha trovato la brutta sorpresa: due colpi di pistola contro la saracinesca della comunità “Progetto sud” che ha sede nel quartiere Capizzaglie di Lamezia Terme, in un edificio confiscato alla potente famiglia di 'ndrangheta dei Torcasio. Non è la prima volta che il prete impegnato nel sociale, da tempo sottoposto a un programma di protezione, viene messo nel mirino. Nel febbraio scorso un colpo di pistola fu sparato contro una finestra della comunità mentre la notte di Natale dello scorso anno un ordigno fu fatto esplodere davanti all'ingresso del centro per minori creato dallo stesso sacerdote. Nello stabile sottratto alle 'ndrine sono ospitati pure laboratori per l’assistenza ai disabili e agli immigrati.
LE PAROLE DI DON GIACOMO - «Si può dire che sono un po' confuso? Ecco, io credo che stanno esagerando. Ci stanno sfiancando e sarebbe importante capire le cause perché così non sappiamo come muoverci, chi denunciare ed a chi dire di smetterla». Don Giacomo Panizza, al telefono, risponde con voce stanca dopo l'ennesima intimidazione subita. Ma questo non significa alzare bandiera bianca. «Noi, comunque – aggiunge –, proseguiamo nelle nostre attività e non torniamo indietro perché ciò che facciamo lo facciamo perché la gente ha bisogno di questo tipo di servizi e non li lasceremo da soli».
IN PRIMA LINEA DA 36 ANNI - Don Panizza, bresciano, con un passato da operaio in acciaieria, ha fondato nel 1976 a Lamezia Terme la “Progetto sud”, una comunità autogestita insieme a persone con disabilità. Il prete è nel mirino delle cosche dal 2002, quando spezzò il cerchio della paura prendendo in gestione il palazzo confiscato ai Torcasio, cosca che a queste latitudini ha seminato morti e terrore. Lo stabile dista pochi chilometri dalla famiglia in cui abitano i mafiosi. «Abbiamo dovuto mettere le telecamere – dice –, circa due anni fa sono venuti a tagliare i freni di un pulmino e di un'auto per il trasporto dei disabili, c'è pure la discesa... Anche il vescovo ha ricevuto una lettera con disegnata una cassa da morto e la sua foto sopra».
Antonio Ricchio