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giovedì 21 giugno 2012

Non basta fare cortei, mettere lenzuola se poi non c'e' continuità d'interventi. E allora nasce Libera


Mafia: dal Gruppo Abele a Libera, don Ciotti si racconta

 Fonte: Antimafia2000

21 giugno 2012
Roma. 
Dagli inizi resi difficili dalla povertà all'attuale guida di Libera, don Luigi Ciotti si raccconta. In un'anticipazione sulla "Stampa" del programma dedicato alla figura del sacerdote antimafia, in onda questa sera alle 23,30 su Rai Due, don Ciotti parte dall'infanzia, in una Torino alla soglia del boom ma con la sua famiglia in sostanziale povertà, e invidivua in un episodio preciso la sua scelta di non violenza: "quando tirai per rabbia un calamaio addosso alla maestra. Mia madre a casa mi diede una sonora lezione, e per questo le saro' per sempre riconoscente". Fondatore in gioventu' del Gruppo Abele, dedito alla lotta alle tossicodipendenze, don Ciotti offre una visione d'insieme sul tema delle droghe: e se prima erano l'eroina e le sue tossiche sorelle ad avere il monopolio della morsa su giovani e non, "ora raccogliamo persone che sono dipendenti dal gioco d'azzardo, da Internet". 
Il passaggio dalla lotta alle droghe a quello al narcotraffico e' naturale, e lo sbocco sulla strada dell'antimafia ne è la logica conseguenza. "Dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, la morte di Falcone e Borsellino e quei stupendi ragazzi della polizia di Stato che li accompagnavano. In quelle due giornate ero in Sicilia proprio a lavorare sul problema delle dipendenze -racconta don Luigi-. E in quel momento uno sente prepotente di dover continua a stare sulla strada, con i poveri, ma nello stesso tempo di dire 'ma perche' non mettiamo insieme le migliori forze del paese? Non basta fare cortei, mettere lenzuola se poi non c'e' continuità d'interventi. E allora nasce Libera"
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sabato 9 giugno 2012

Trattativa tra Stato e mafia: indagato l'ex ministro Mancino


Dopo la deposizione in aula al processo Mori, la sua posizione è cambiata. Il pm aveva lasciato chiaramente intendere di ritenere falsa la testimonianza dell'ex titolare del Viminale. Che ancora una volta nega il suo coinvolgimento


L'ipotesi di reato è quella di falsa testimonianza. Con questa accusa è stato indagato dalla procura di Palermo l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta "trattativa" tra Stato e mafia. Ma lui, ancora una volta, nega ogni suo coinvolgimento. L'indagine dovrebbe essere chiusa nel giro di pochi giorni.     La posizione di Mancino, è cambiata nelle ultime settimane, dopo la sua deposizione al processo al generale Mario Mori il 24 febbraio scorso. In tribunale quel giorno i pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo avevano detto che "qualche uomo delle istituzioni mente".


I pm ritengono che Mancino, insediatosi al Viminale il primo luglio 1992, sapesse della trattativa che prevedeva di cedere al ricatto dei boss in cambio della rinuncia all'aggressione terroristica e ai progetti di uccisione di altri uomini politici. E che ora l'ex presidente del Senato ed ex vicepresidente del Csm neghi l'evidenza per coprire "responsabilità proprie e di altri". 
L'ex ministro della Giustizia Claudio Martelli ha più volte sostenuto di essersi lamentato con lui per il comportamento dei Ros. Nel giugno '92, secondo i magistrati, Mori e il capitano Giuseppe De Donno avrebbero infatti comunicato all'allora direttore degli affari penali del Ministero di via Arenula, Liliana Ferraro l'avvio dell'interlocuzione con Vito Ciancimino "per ottenere una copertura politica - sostengono i pm - dall'ex sindaco mafioso sulla trattativa". 



Mancino ha sempre negato. Il 24 febbraio aveva però detto che Martelli gli avrebbe accennato di "attività non autorizzate del Ros" e che lui gli avrebbe risposto di parlarne alla procura di Palermo. Mancino inoltre ha sempre negato di avere incontrato il giudice Paolo Borsellino il giorno del suo insediamento al Viminale.
La decisione di iscrivere Mancino è stata adottata dai magistrati del pool coordinato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia, alla vigilia della chiusura dell'indagine sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. Tutte le posizioni dei nove personaggi sotto indagine sono ancora al vaglio dei pm: da stabilire infatti, spiega la procura quale sarà, per ciascuno dei coinvolti, l'imputazione finale.
Si va da un ventaglio di ipotesi di reato che, oltre alla falsa testimonianza, abbracciano il favoreggiamento aggravato, il concorso nella violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o - ipotesi estrema - il concorso in associazione mafiosa.
Nell'indagine sono coinvolti i generali Mario Mori e Antonio Subranni, l'ex tenente colonnello Giuseppe De Donno, l'ex ministro dc Calogero Mannino, il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri, i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano e Nino Cinà. E ora anche Mancino.



Proprio ieri, poi, è stato riascoltato come teste, dai pm del pool, un altro ex ministro dell'Interno, Vincenzo Scotti, a proposito di alcuni fatti da lui raccontati nel recente libro "Pax mafiosa o guerra?", e per altre circostanze raccolte dai magistrati negli ultimi giorni. Obiettivo dell'accusa, chiarire le ragioni del siluramento del "duro" Scotti, sostituito al Viminale, nei giorni caldi del '92, tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio, proprio da Mancino. 

mercoledì 30 maggio 2012

Le mani della 'ndrangheta sulla Salerno-Reggio Calabria


Le mani delle cosche sulla Salerno-Reggio Calabria

La storia è sempre quella. Dodici fermi nella notte nei confronti di altrettanti esponenti del clan di Giuseppe Virgilio Nasone. Un "pizzo" del 3 per cento sull'importo degli appalti per i cantieri. Gli imprenditori che non pagavano avevano i mezzi danneggiati o subivano pesanti intimidazioni
Fonte La Repubblica


REGGIO CALABRIA - I carabinieri li hanno sentiti pianificare le incursioni notturne, organizzare i danneggiamenti. Stabilire quali mezzi dovevano saltare in aria e quali essere devastati a mazzate. Per lavorare sui cantieri della Salerno-Reggio Calabria, dovevano pagare tutti. E nella zona di Scilla-Villa San Giovanni, i soldi toccavano a loro. Il 3% dell’importo dell’appalto, e “non meno”, doveva andare ai “Nasone-Gaietti”. 
All’alba di oggi una decina di componenti della cosca sono finiti in manette su richiesta della Dda di Reggio Calabria, che ha deciso di affondare il colpo mentre la cosca era ancora pienamente operativa. I carabinieri del Comando provinciale hanno notificato dodici “fermi” nei confronti di altrettante persone ritenute legate al clan degli scillesi. Il procuratore aggiunto Michele Prestipino e i pm Alessandra Cerreti e Rosario Ferracane, hanno firmato i provvedimenti nel tentativo di bloccare lo stillicidio di intimidazioni che negli ultimi mesi ha riguardato una serie di aziende impegnate nella fornitura di servizi e materiali o subappaltatori dell’A3 e non solo. 
la mapppa del racket sulle forniture del cemento. anno 2008
In questo senso, il boss Giuseppe Virgilio Nasone, e i suoi uomini erano determinati. Nonostante l’arresto di un picciotto della “famiglia” catturato nei mesi scorsi - quando si era presentato ad un imprenditore per chiedere una mazzetta da sei mila euro - il gruppo non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Anzi. Le microspie dell’Arma li avevano sentiti ragionare: “Non è che le cose non si possono fare, basta stare attenti”.Le cose da fare erano gli attentati. E di soldi ne arrivavano tanti dalle ditte intimorite. Alcuni imprenditori pagavano per evitare che le attrezzature, in molti casi particolarmente costose, fossero danneggiate. Altri per paura o per evitare che gli operai subissero ritorsioni anche violente. “Dobbiamo fare come quelli di Gioia Tauro – dicevano – quelli che pagano sono apposto. Agli altri gli facciamo saltare i palazzi”.
L’inchiesta della Procura di Reggio Calabria ha preso il via dalla denuncia di un imprenditore che non si è voluto piegare. Così, a marzo del 2011 è finito in carcere Giuseppe Fulco, cugino dei Nasone. Gli inquirenti, incassato il risultato, tuttavia, non hanno mollato la presa ed hanno continuato ad ascoltare i suoi commenti in carcere. Ed è durante i colloqui con la madre e la sorella che sono venuti fuori una serie di elementi che hanno consentito di ricostruire la rete di rapporti interni alla cosca. Il clan infatti continuava a versargli “la mesata” ed a spartire con lui gli utili di altre estorsioni. Altre microspie e una serie di pedinamenti hanno fatto il resto, riuscendo a dare un volto ed un nome ad ogni componente del clan e a ricostruire i singoli episodi.  
GIUSEPPE BALDASSARRO

domenica 29 aprile 2012

30° anniversario dell'uccisione di Pio La Torre e Rosario Di Salvo




Gli omicidi del segretario del Pci siciliano e del generale nell'82; quelli dei due giudici nel '92. Oggi, venti o trenta anni dopo, ci sono ancora molti misteri sulla loro uccisione. Però sappiamo perché li volevano morti
fonte : LA Repubblica. estratto da un articolo di  ATTILIO BOLZONI


"QUELLA MATTINA sono anch'io là, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di guardare Paolo Borsellino che è con le spalle al muro e si sta accendendo un'altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le dita.
Mi avvicino al commissario Cassarà e gli chiedo: "Ninni, cosa sta succedendo?". Mi risponde, l'amico poliziotto: "Siamo cadaveri che camminano". Un fotografo aspetta che loro - Falcone e Cassarà, Chinnici e Borsellino - siano per un attimo vicini. Poi scatta. Una foto di Palermo. Una foto che dopo trent'anni mi mette sempre i brividi. Sono morti, uno dopo l'altro sono morti tutti e quattro. Ammazzati.
Tutti vivi me li ricordo, tutti ancora vivi intorno a quell'uomo incastrato dentro la berlina scura e con la gamba destra che penzola dal finestrino. Sono lì, in una strada che è un budello in mezzo alla città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della Grande guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso  parlamento dell'isola, Palazzo dei Normanni, cupole arabe e lussureggianti palme.
Chi è l'ultimo cadavere di una Sicilia tragica? È Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista italiano, deputato alla Camera per tre legislature, figlio di contadini, sindacalista, capopopolo negli infuocati anni del separatismo e dell'occupazione delle terre.
È Pio La Torre, nato a Palermo alla vigilia del Natale del 1927 e morto a Palermo alla vigilia del Primo maggio del 1982. L'agguato non ha firma. Forse è un omicidio di stampo mafioso. Forse è un omicidio politico. Chissà, potrebbe anche avere una matrice internazionale. Magari  -  come qualcuno mormora  -  si dovrebbe esplorare la "pista interna". Indagare dentro il suo partito. Nella sua grande famiglia. Cercare gli assassini fra i suoi compagni. Supposizioni. Prove di depistaggio in una Palermo che oramai si è abituata ai morti e ai funerali di Stato, cadaveri eccellenti e cerimonie solenni. Il 30 aprile 1982, trent'anni fa.
Uccidono l'uomo che prima di tutti gli altri intuisce che la mafia siciliana non è un problema di ordine pubblico ma "questione nazionale", il parlamentare che vuole una legge che segnerà per sempre la nostra storia: essere mafioso è reato. Chiede di strappare i patrimoni ai boss, tutti lo prendono per un visionario.
Dicono che è ossessionato da mafia e mafiosi, anche nel suo partito ha fama di "rompicoglioni". Al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini propone di inviare a Palermo come prefetto il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo. Non fa in tempo a vederlo sbarcare, l'ammazzano prima.
Pio La Torre aveva conosciuto dalla Chiesa nel 1949 a Corleone, lui segretario della Camera del lavoro dopo la scomparsa del sindacalista Placido Rizzotto e il capitano volontario nel Cfbr, il Comando forze repressione banditismo. Il loro primo incontro avviene nel cuore della Sicilia. Quindici anni dopo si ritroveranno uno di fronte all'altro in commissione parlamentare antimafia, uno deputato e l'altro comandante dei carabinieri della Sicilia occidentale. Il terzo incontro non ci sarà mai.
Destini che s'incrociano in un'isola che non è ricca ma sfrenatamente ricca, superba, inespugnabile. Il giorno dell'uccisione di Pio La Torre in Sicilia arriva il generale. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde lui.(...)"

giovedì 26 aprile 2012

La 'ndrangheta "riapre" l'aula bunker delle Vallette


Torino. Al via stamattina la maxiudienza per le infiltrazioni delle cosche calabre in Piemonte.
fonte: La Repubblica
Alla sbarra 172 imputati venticinque anni dopo i "catanesi". Sotto accusa politici come l'ex sindaco di Leinì Nevio Coral, boss e superlatitanti. 
Si prevede che l'appello in ordine alfabetico degli indagati durerà un'ora e mezzo. Basta questo per dare l'idea dell'entità del processo "Agostino Nicodemo + 171", divenuto ormai noto come "Minotauro", del quale stamattina si apre alle 9 nell'aula bunker A delle Vallette la gigantesca udienza preliminare. Un kolossal giudiziario: era dai tempi del maxiprocesso al clan dei catanesi, che tra il 1987 e il 1988 aveva giudicato 198 imputati, che l'aula (una delle due costruite nel 1980 a ridosso del carcere Lorusso e Cutugno per ospitare i primi grandi processi a Prima Linea e alle Brigate Rosse) non vedeva tanta partecipazione e un servizio delle forze dell'ordine così massiccio.
Ora alla sbarra ci sono gli esponenti locali della 'ndrangheta: 172 imputati (dei 184 iniziali indagati), di cui 117 detenuti alle Vallette, che ogni giorno saranno trasferiti attraverso un tunnel nelle celle del bunker. Tra loro personaggi noti nel mondo della politica come l'ex sindaco di Leinì, Nevio Coral, e superlatitanti come Rocco Trimboli, arrestato pochi fa giorni fa. E soprattutto 'ndranghetisti di spicco come Adolfo Cosimo Crea, Bruno Iaria, e Giacomo Lo Surdo ed Enzo Argirò, i cui nomi comparivano in altre inchieste sulla malavita organizzata a Torino. A rappresentare la difesa si contano 132 avvocati. L'accusa è invece sostenuta da 5 pubblici ministeri (Monica Abbatecola, Enrico Arnaldi di Balme, Stefano Castellani, Roberto Sparagna e Dionigi Tibone). Al gup, Maria Francesca Christillin (coadiuvata da un cancelliere), impegnata per 25 udienze consecutive fino al 25 maggio, spetterà il compito di decidere della costituzione delle parti, soprattutto se oggi ci saranno parti lese o enti locali che intenderanno costituirsi parte civile al processo. Ma la questione più delicata per il giudice sarà legata alle questioni preliminari che è facile immaginare che gli avvocati solleveranno, prima di tutto quella della competenza territoriale. Poi, nelle udienze successive, saranno i difensori a comunicare al giudice la scelta di andare a dibattimento o di optare per il rito abbreviato.
Se le maxi-aule del palazzo di giustizia di corso Vittorio Emanuele erano state in grado di assorbire l'arrivo di migliaia di persone, tra parti civili e pubblico, per il processo dei record per eccellenza, quello Eternit, ora quello che mancherà sarà proprio il pubblico, visto che si tratta della fase dell'udienza preliminare, a porte chiuse.
Riemersa da anni di abbandono, usata come set cinematografico per "L'uomo sbagliato" e "Il divo", a ottobre del 2010 la grande aula blindata era stata rispolverata per il riconteggio delle schede di Bresso e Cota nelle ultime, contestate, elezioni regionali. E adesso, dopo un intervento di ristrutturazione di circa 100 mila euro a carico del Comune, è stata di nuovo adibita a sede del tribunale per il processo ai No Tav e, da oggi, per Minotauro.
FEDERICA CRAVERO

Appalti e affari, così Leini era in mano alle 'ndrine


Comune sciolto, ecco le carte: sperperato un fiume di soldi pubblici
Fonte: LA Stampa.. Torino

Per capire perché quello di Leini, dal 30 marzo scorso, sia un Comune sciolto per infiltrazioni mafiose, bisogna partire dalla fine di questa brutta storia lunga 178 pagine. E da una considerazione che è il fulcro di sei mesi di lavoro della commissione di accesso agli atti: «A Leini la ’ndrangheta ha condizionato le decisioni e ha saputo efficacemente infiltrarsi tra le maglie dell’ente comunale (e non solo) trattando alla pari con i pubblici amministratori». Come? «Grazie agli stretti rapporti personali instauratisi tra elementi di spicco dell’organizzazione e Nevio Coral (sindaco dal 1994 al 2006)», scrivono i commissari. Aggiungono: «Il mezzo di cui quest’ultimo si è servito per concludere gli affari illeciti con i boss è stata la società Provana s.p.a., attraverso la quale è riuscito a pilotare - e sperperare - una mole impressionante di denaro pubblico (anche contributi regionali ed europei)" 
Il «capolavoro» di Coral 
Nevio Coral è stato sindaco di Leinì dal 1994 al 2006. Nevio «il veneto» avrebbe mantenuto contatti diretti con boss e «mediani» della consorteria criminale, rivelatisi tali dopo l’operazione Minotauro. Gli stessi avrebbero lavorato più e più volte per Provana, la multiservizi comunale che lo stesso Coral ha fondato nel 1998 e che, ai magistrati che lo interrogavano dopo l’arresto, ha definito «il capolavoro della sua vita». Provana, società a capitale interamente pubblico, avrebbe dovuto rispettare le stesse leggi a cui è sottoposto il Comune in materia di assegnazione di appalti. Per i commissari non è andata così. Parlano di «gestione privatistica dell’ente» che avrebbe consentito a esponenti della ’ndrangheta di «aggiudicarsi lavori pubblici artificiosamente frazionati per evitare le procedure concorsuali previste».
Cantieri in mano alle ’ndrine.
Qualche esempio: la costruzione di un intero quartiere (cosiddetto «Il Mulino») per un valore di quasi 5 milioni destinato - amara ironia della sorte - anche alle forze armate, durante la cui realizzazione altre ditte in odore di mafia lavoravano in sub-appalto impiegando anche clandestini irregolari. E poi: interventi nel refettorio della scuola materna di Nole, la tinteggiatura dell’elementare di frazione Tedeschi a Leini, degli spogliatoi della media, una parte di lavori dell’ampliamento del palazzo comunale di San Sebastiano Po, del poliambulatorio di Leini. E tanti altri esempi. Il fulcro è sempre Provana su cui Coral avrebbe mantenuto un assoluto controllo anche nel momento in cui suo figlio Ivano è diventato sindaco.
Nevio, sindaco per sempre
Fu lo stesso Ivano a firmare al padre - allora semplice consigliere - una delega in bianco «a collaborare nei rapporti con Provana e dell’esame delle opere edilizie e delle opere di urbanizzazione al fine di rendere più omogeneo lo sviluppo delle infrastrutture comunali». Plenipotenziario, dunque. Pare lo sapessero anche i presunti mafiosi: «Ivano dovunque va non è il sindaco, ma è il figlio di Nevio», si legge in un’intercettazione ambientale a una cena tra Coral e alcuni rappresentanti delle famiglie, tutti pregiudicati, intercettata grazie alla geniale intuizione di un ufficiale dell’Arma. Sempre Provana gestisce gli appalti per la Cittadella dello Sport, un’opera che «ha determinato quantomeno un notevole esborso di denaro pubblico». Peccato che Leini avesse già un Palasport agibile costruito solo 10 anni fa. «Tuttavia Nevio Coral, approfittando della disponibilità di finanziamenti pubblici ha fatto avviare la progettazione dell’opera». Ancora oggi - si legge nella relazione - i leinicesi non hanno capito quale sia stato l’interesse pubblico, visto che la struttura è stata concessa gratuitamente in gestione ad altro ente». In questo appalto, in misura minoritaria, risulta che avrebbero lavorato due ditte riconducibili rispettivamente a Giuseppe e Urbano Zucco e a Bruno Raschillà, affiliati al locale di Natile di Careri a Torino e tutti e tre coinvolti nell’operazione Minotauro. Totale lavori: 650 mila euro.
GIUSEPPE LEGATO

lunedì 23 aprile 2012

Un laboratorio di saponi per combattere la ‘ndrangheta - La storia di Rosy


Un laboratorio di saponi per combattere la ‘ndrangheta- La storia di Rosy 


Fonte: Corriere della Sera
di Micol Sarfatti

Portare cultura del lavoro e sviluppo dove questi valori non esistono perché alla legalità si preferiscono le leggi non scritte della malavita. Un’impresa ardua, ma non per Rosy Canale, imprenditrice calabrese 38enne che ha fatto della lotta alla ‘ndrangheta  una missione di vita.
A lei lavorare piace da sempre: “ero proprietaria e gestore di un locale a Reggio Calabria -racconta Rosy- inaugurato e fatto crescere con tanti sacrifici” ma un giorno è costretta a smettere. La criminalità organizzata la prende di mira, vuole che il suo locale diventi una base per lo spaccio di droga. Lei si ribella, loro la minacciano.
Una sera Rosy sale in macchina dopo aver finito di lavorare, ad attenderla ci sono due aggressori. “Mi hanno picchiata fino a ridurmi in fin di vita. Ho capito che lì non ero più al sicuro”. Lascia la Calabria, ma alla fine decide di tornarci, e non in un posto a caso.
Nel 2007 si trasferisce nella Locride, a San Luca, roccaforte della ‘ndrangheta. “Volevo dare un’altra chance alla mia terra -spiega- Ho scelto un paese in cui la malavita comanda. Ho pensato che se un seme riesce a germogliare nella roccia, allora può farlo ovunque”.
Qui Rosy fonda il Movimento donne di San Luca e della Locride: un’associazione che vuole salvare madri e figli dalla criminalità e diffondere la cultura della legalità attraverso il lavoro. “Prima ho aperto una ludoteca, un posto sicuro per i bambini abituati a giocare con le pistole”, spiega la Canale.
“Poi ho avviato un laboratorio per la produzione di saponi artigianali e uno di ricamo”. Lavori semplici, ma che possono cambiare la vita di chi vive in una terra dove il tasso di disoccupazione femminile è al 13, 6% (Fonte Istat). Le donne di San Luca oggi sono 18, hanno tra i 35 e i 40 anni. Sono madri, mogli, sorelle di uomini vittime e carnefici della ‘ndrangheta. Fanno le braccianti e vivono dei prodotti che loro stesse coltivano.
“Hanno creduto molto in questo progetto e nel loro lavoro”, precisa Rosy. “All’inizio abbiamo avuto attenzione e fondi per comprare i macchinari. L’obiettivo-spiega la Canale- era dare un primo impiego per creare occupazione, entrare nel mercato dell’equosolidale, partecipare alle fiere di settore”.
Le cose sembravano funzionare, ma poi la crisi non ha risparmiato nemmeno loro. “Vendiamo poco, facciamo fatica a ripagarci le spese. Non voglio che le mie donne lavorino gratis -puntualizza- un compenso è la base di ogni lavoro onesto”. “La difficile congiuntura economica ha reso le persone impermeabili alla solidarietà. Prima c’era più interesse vero la nostra realtà”.
L’imprenditrice si dice stanca e non nasconde la delusione avuta dalle istituzioni locali: “Ci hanno lasciate sole-denuncia- speravamo di ricevere aiuto, almeno nella fase di start up e invece nulla. Vogliono combattere la criminalità, rilanciare il Sud, ma solo a parole”.
Rosy ammette che le cose sono sempre più difficili e la tentazione di mollare tutto ogni tanto c’è. “Per ora proviamo, tutte insieme, a continuare-spiega-fermarsi sarebbe come urlare al mondo “Viva la ‘ndrangheta””.

lunedì 9 aprile 2012

La Torre, dalla Chiesa, Falcone, Borsellino Quattro uomini soli uccisi dalla mafia



La Torre, dalla Chiesa, Falcone, Borsellino


Quattro uomini soli uccisi dalla mafia

fonte : LA Repubblica
Gli omicidi del segretario del Pci siciliano e del generale nell'82; quelli dei due giudici nel '92. Oggi, venti o trenta anni dopo, ci sono ancora molti misteri sulla loro uccisione. Però sappiamo perché li volevano morti
di ATTILIO BOLZONI


QUELLA MATTINA sono anch'io là, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di guardare Paolo Borsellino che è con le spalle al muro e si sta accendendo un'altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le dita.
Mi avvicino al commissario Cassarà e gli chiedo: "Ninni, cosa sta succedendo?". Mi risponde, l'amico poliziotto: "Siamo cadaveri che camminano". Un fotografo aspetta che loro - Falcone e Cassarà, Chinnici e Borsellino - siano per un attimo vicini. Poi scatta. Una foto di Palermo. Una foto che dopo trent'anni mi mette sempre i brividi. Sono morti, uno dopo l'altro sono morti tutti e quattro. Ammazzati.
Tutti vivi me li ricordo, tutti ancora vivi intorno a quell'uomo incastrato dentro la berlina scura e con la gamba destra che penzola dal finestrino. Sono lì, in una strada che è un budello in mezzo alla città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della Grande guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso  parlamento dell'isola, Palazzo dei Normanni, cupole arabe e lussureggianti palme.

Chi è l'ultimo cadavere di una Sicilia tragica? È Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista italiano, deputato alla Camera per tre legislature, figlio di contadini, sindacalista, capopopolo negli infuocati anni del separatismo e dell'occupazione delle terre.

È Pio La Torre, nato a Palermo alla vigilia del Natale del 1927 e morto a Palermo alla vigilia del Primo maggio del 1982. L'agguato non ha firma. Forse è un omicidio di stampo mafioso. Forse è un omicidio politico. Chissà, potrebbe anche avere una matrice internazionale. Magari  -  come qualcuno mormora  -  si dovrebbe esplorare la "pista interna". Indagare dentro il suo partito. Nella sua grande famiglia. Cercare gli assassini fra i suoi compagni. Supposizioni. Prove di depistaggio in una Palermo che oramai si è abituata ai morti e ai funerali di Stato, cadaveri eccellenti e cerimonie solenni. Il 30 aprile 1982, trent'anni fa.
Uccidono l'uomo che prima di tutti gli altri intuisce che la mafia siciliana non è un problema di ordine pubblico ma "questione nazionale", il parlamentare che vuole una legge che segnerà per sempre la nostra storia: essere mafioso è reato. Chiede di strappare i patrimoni ai boss, tutti lo prendono per un visionario.
Dicono che è ossessionato da mafia e mafiosi, anche nel suo partito ha fama di "rompicoglioni". Al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini propone di inviare a Palermo come prefetto il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo. Non fa in tempo a vederlo sbarcare, l'ammazzano prima.
Pio La Torre aveva conosciuto dalla Chiesa nel 1949 a Corleone, lui segretario della Camera del lavoro dopo la scomparsa del sindacalista Placido Rizzotto e il capitano volontario nel Cfbr, il Comando forze repressione banditismo. Il loro primo incontro avviene nel cuore della Sicilia. Quindici anni dopo si ritroveranno uno di fronte all'altro in commissione parlamentare antimafia, uno deputato e l'altro comandante dei carabinieri della Sicilia occidentale. Il terzo incontro non ci sarà mai.
Destini che s'incrociano in un'isola che non è ricca ma sfrenatamente ricca, superba, inespugnabile. Il giorno dell'uccisione di Pio La Torre in Sicilia arriva il generale. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde lui.
È il cinquantottesimo prefetto di Palermo dall'Unità d'Italia. L'hanno mandato giù "per combattere la mafia". Informa il capo del governo che non avrà riguardi per la "famiglia politica più inquinata del luogo". È la Dc di Salvo Lima e di Giulio Andreotti. Non gli concedono i poteri promessi, solo contro tutti Carlo Alberto dalla Chiesa resisterà per centoventi giorni. Il 3 settembre 1982 tocca anche a lui. E alla sua giovane moglie Emmanuela.
Omicidio premeditato, annunciato, dichiarato. Omicidio fortemente voluto per chiudere un conto con un generale diventato troppo ingombrante. Una leggenda per i suoi carabinieri, una minaccia permanente per un'Italia che sopravvive fra patti e ricatti. Dicono che a farlo fuori è stata la Cupola. Come per Pio La Torre. Un alibi perfetto per seppellire e dimenticare un generale fatto a pezzi dallo Stato.
Nei giorni precedenti al 3 settembre le sabbie mobili siciliane se lo sono divorato Carlo Alberto dalla Chiesa. Le prime pagine del giornale L'Ora, sono fotocopie con numeri al posto dei titoli: 81...84...87... Gli omicidi a Palermo dall'inizio dell'anno. L'11 agosto sono già 93, il 14 sono 95. A fine mese l'inchiostro rosso si spande sulla foto dell'ultima vittima. Il titolo che va in stampa dice 100.
 "L'operazione da noi chiamata Carlo Alberto l'abbiamo quasi conclusa, dico: quasi conclusa", è la telefonata che arriva dopo una "sparatina" a Villabate. Una rivendicazione così a Palermo non l'hanno fatta mai. Sembra un proclama terroristico. Una dichiarazione di guerra, in stile militare. Sono a Casteldaccia quando arriva quella telefonata. Mi arrampico su una stradina che sale fino alla caserma dei carabinieri. Lì c'è già il capitano Tito Baldo Honorati, il comandante del nucleo operativo di Palermo.
È davanti a un'utilitaria impolverata, la parte posteriore dell'auto è "abbassata", schiacciata verso l'asfalto. Ormai si riconoscono anche da lontano le macchine con un grosso peso nel bagagliaio. Significa che lì dentro c'è un uomo. Il capitano apre. È un "incaprettato", mani e piedi legati con una corda che gli passa intorno al collo. Quando i muscoli delle gambe cedono, la vittima finisce per strangolarsi.
"È un altro regalo per il nostro generale", dice l'ufficiale mentre via radio gli arriva la notizia che è stato ritrovato un cadavere sulla piazza di Trabia. Ed è già morto anche lui - l'agguato a colpi di kalashnikov in via Isidoro Carini, una settimana dopo - Carlo Alberto dalla Chiesa, carabiniere figlio di carabiniere, nato a Saluzzo, provincia di Cuneo, Piemonte. Dall'altro capo dell'Italia.
Palermo è laboratorio criminale e terra di sperimentazione politica, è porto franco, capitale mondiale del narcotraffico, regno di latitanti in combutta con questori e prefetti, onorevoli mafiosi e mafiosi onorevoli. Il giudice Falcone indaga sui "delitti politici" siciliani, indaga sulla morte di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa. Scopre tutto e niente. Sospetti. Trame. Mandanti sempre invisibili. Palermo è dentro una guerra permanente. Poi, l'atto finale. Nel 1992.

Il 23 maggio, vent'anni fa. Alle 17, 56 minuti e 48 secondi gli strumenti dell'Istituto di Geofisica e di Vulcanologia di monte Erice registrano "un piccolo evento sismico con epicentro fra i comuni di Isola delle Femmine e Capaci". Non è un terremoto. È una carica di cinquecento chili di tritolo che fa saltare in aria Giovanni Falcone. È il magistrato più amato e più odiato del Paese. Da vivo è solo. Da morto è esaltato e osannato, il più delle volte dagli stessi nemici che ne hanno voluto le sconfitte.

Sepolto in una piccola stanza dietro una porta blindata, in mezzo ai codici e alla sua collezione di papere di terracotta, è il primo italiano che mette veramente paura alla mafia. Prigioniero nella sua Palermo, è l'uomo che cambia Palermo. Porta i boss alla sbarra con il maxi processo. Vengono condannati in massa. Detestato, denigrato, guardato con sospetto dai suoi stessi colleghi in toga, temuto e adulato dalla politica, resiste fra i tormenti schivando attentati e tranelli governativi.
Prima tremano per la forza delle sue idee, poi si impossessano della sua eredità. È celebrato come eroe nazionale solo quando è nella tomba. Mario Pirani lo descrive come l'Aureliano Buendìa di Cent'anni di solitudine, che ha combattuto trentadue battaglie e le ha perse tutte. Giuseppe D'Avanzo ricorda "l'umiliante sottrazione di cadavere" compiuta dopo la strage di Capaci. Chi l'ha violentemente intralciato in vita, lo invoca in morte. Ha cinquantatré anni e cinque giorni quando vede per l'ultima volta la sua Sicilia.
Al suo funerale c'è una folla straripante nella basilica di San Domenico, il Pantheon di Palermo. Una pioggia violenta lava la città. Sono quasi le due del pomeriggio, la piazza adesso è deserta. C'è solo un uomo, inzuppato, che avanza guardando nel vuoto. È Paolo Borsellino, l'amico e l'erede di Giovanni Falcone. Altri due uomini con lo stesso destino.
Nascono alla Kalsa a distanza di pochi mesi uno dall'altro, da ragazzini si rincorrono fra i vicoli, si ritrovano trentacinque anni dopo in un bunker di tribunale. Se ne vanno insieme, nella stessa estate. Cinquantasette giorni di dolore. Per il fratello perso e per uno Stato che tratta. Paolo Borsellino si sente abbandonato, mandato allo sbaraglio da gente di Roma che nell'ombra sta negoziando la resa. Sono in molti a tremare per i suoi segreti. Sa che è già arrivato l'esplosivo anche per lui. Si getta nel vuoto il procuratore di Palermo, assassinato da un'autobomba e dal cinismo di un'Italia canaglia che l'ha visto morire senza fare nulla. Tradito e venduto.
Il 19 luglio del 1992 salta in aria. Come Falcone. L'agenda rossa che ha sempre con sé non si troverà mai. Dicono che è stata ancora la Cupola. È sempre e solo la Cupola che ha deciso la sorte di tutti loro. Così ci hanno raccontato. Così ci hanno portato sempre lontano dalla verità. Depistando. Inventandosi falsi pentiti. Scaricando tutto addosso a Totò Riina e ai suoi corleonesi. Prima usati e poi sacrificati, sepolti per sempre nei bracci speciali.
Trent'anni dopo, non sappiamo ancora chi ha voluto morti Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa. Vent'anni dopo, non sappiamo ancora chi ha voluto morti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sappiamo solo che erano quattro italiani che facevano paura al potere.

lunedì 2 aprile 2012

Sporcarsi le mani con la terra strappata alla mafia

Cosa Nostra ha contribuito a rendere la Sicilia, terra ricca di risorse, una delle regioni tra le più povere d’Italia. Enormi quantità di ricchezza sono state sottratte per esser investite in tutto il mondo. Eppure, grazie alla Legge d’iniziativa popolare n.109 del 1996, voluta dall’associazione Libera, dai beni confiscati alla mafia è partita una vera e propria rivoluzione.
Concetto di rivoluzione inteso non solo come sovvertimento di un ordine preesistente ma, come ha detto il filosofo Walter Benjamin, “ritorno all’origine, ripristino del punto di partenza, restaurazione e ricomposizione dell’inizio”. Infatti, oggi i beni che sono stati sottratti alla collettività, frutto di illeciti, ritornano a quei territori.

domenica 1 aprile 2012

Vituzzu torna a casa

Il figlio di Tano Badalamenti è libero: il reato è stato prescritto . Per la verità non sappiamo se ci torna davvero: se ne sta da alcuni anni tranquillo, in Australia, non sappiamo che attività svolga per mantenersi, a meno che non disponga di parte dell'immenso patrimonio lasciatogli dal padre, in gran parte sequestrato. Vito Badalamenti, 55 anni, figlio del defunto boss di Cinisi don Tano era libero, ma latitante, adesso è solamente libero.

Era inserito nella lista dei dieci latitanti più pericolosi d'Italia , stilata dal Ministero degli Interni, non si sa in base a quali criteri, dopo la condanna, a sei anni, per associazione mafiosa, a seguito del processo maxi-quater , l'ultimo dei giudizi istruiti dal pool di Falcone, Borsellino e del giudice istruttore Leonardo Guarnotta, oggi presidente del tribunale di Palermo, che firmò il rinvio a giudizio ad una quarta parte del maxiprocesso.

Per sfuggire alla cattura, Badalamenti jr si diede alla latitanza, nel 1995: fu così condannato in contumacia, e la pena divenne definitiva il 17 dicembre 1999. Dal 22 novembre 2000 è stato spiccato nei suoi confronti un mandato d'arresto internazionale. Agli avvocati difensori è bastato attendere 12 anni, esattamente il doppio della pena inflitta per presentare, proprio la domanda di estinzione del reato il 17 dicembre scorso ed ottenere facilmente una sentenza di estinzione del reato.

Infatti la prima sezione della Corte d'appello di Palermo, presieduta da Gianfranco Garofalo, ha accolto il ricorso dei legali di Badalamenti, Paolo Gullo e Vito Ganci, i quali hanno chiesto la prescrizione appellandosi a una norma che prevede la libertà per il latitante che riesce a non finire in galera per un tempo doppio rispetto a quello della condanna. Trascorsi 12 anni di latitanza il reato è prescritto e Vituzzu è libero di poter tornare in Italia quando vuole, senza alcun conto da regolare con la giustizia. La sola misura ancora attiva – dopo che è caduta anche l'interdizione perpetua dai pubblici servizi – è la sorveglianza speciale, che lo costringerebbe a non allontanarsi da Cinisi, senza il permesso del giudice, a rientrare a casa prima delle 20 e a uscire dopo le 7. Dovrà comunque essere depennato dalla lista dei latitanti, facendo scorrere la graduatoria.

Lo stesso metodo è stato seguito più volte nella giurisprudenza italiana, come nel caso dei responsabili del delitto di Primavalle, non più perseguiti per lo stesso motivo. In questo caso la pericolosità oggettiva del soggetto lascia perplessi, ma lascia più stupefatti l'esistenza di una legge che premia la latitanza, anziché condannarla.

Il senatore Beppe Lumia, componente della Commissione Parlamentare Antimafia, ha detto: " È insopportabile vedere il figlio del boss Tano Badalamenti tornare in libertà a causa della prescrizione. Quel Tano Badalamenti che fece uccidere Peppino Impastato e che per troppi anni è rimasto impunito. Quanti sforzi sono stati fatti dai magistrati e dalle forze dell'ordine per fare giustizia, sforzi oggi andati in fumo". La prescrizione ,– ha aggiunto, – è il fallimento della giustizia italiana. Un problema del nostro Paese che deve essere superato con serietà e rigore. Ci sono diverse soluzioni legislative e amministrative per limitare i danni, dobbiamo trovare il coraggio di adottarle e metterle in pratica".

Vito, nato a Cinisi il 29 aprile 1954, è vissuto all'ombra del padre e lo ha seguito, assieme al fratello minore Leonardo, in tutte le sue vicissitudini e peregrinazioni dallo scoppio della seconda guerra di mafia, cioè da quando i corleonesi di Totò Riina decisero di far fuori la vecchia generazione di mafiosi, il cui rappresentante più autorevole era Gaetano Badalamenti, padre di Vito. Nel corso della guerra vennero eliminati, a Cinisi, una trentina di parenti e soldati dell'esercito di quelli che Mario Francese chiamava "guanti di velluto", cioè dei badalamentiani, e Vito lasciò Cinisi insieme al padre nel 1981 per emigrare prima in Brasile, poi in Spagna dove venne arrestato, l'8 aprile 1984 a seguito di una complessa operazione internazionale concordata da funzionari della Squadra Mobile, della Criminalpol palermitana, della Guardia di Finanza, della DEA (dipartimento antinarcotici americano), della polizia spagnola e di quella svizzera: l'imputazione era di avere organizzato il colossale traffico di droga definito "Pizza connection". Malgrado don Tano fosse richiesto dalla giustizia italiana, venne estradato dalla Spagna negli Stati Uniti nel 1984, assieme al figlio Vito, il quale ha trascorso 4 anni in carcere poiché non ha pagato la cauzione fissata in diversi milioni di dollari. Alla fine del processo, mentre Don Tano è stato condannato a 45 anni di prigione, Vito è stato assolto da tutte le accuse e, non sappiamo se risarcito. Su Wikipedia leggiamo: "La stampa lo accredita come latitante all'estero, in Brasile o forse in Australia, da dove continuerebbe a gestire affari con la mafia americana e con quella siciliana". Di fatto, dovunque sia, adesso Vituzzu potrà tornare in Sicilia, quantomeno per rivedere l'anziana madre Teresa Vitale. In quale casa non si sa, visto che la casa di Corso Umberto 180 a Cinisi è stata confiscata e affidata in parte al Comune e in parte alle due associazioni di amici e parenti di Peppino Impastato, vittima della ferocia assassina del padre Tano. Da questo aspetto l'avvocato Gullo, che non è riuscito a fare assolvere don Tano dall'accusa di omicidio, che non è riuscito a fermare il sequestro della casa di don Tano, dopo 15 anni di ricorsi, è riuscito invece a fare liberare Vituzzo, il quale, se vuole, potrà dimorare nelle stalle malconce del feudo di Dainasturi, non sequestrato perché acquistato o posseduto prima del 1952, anno in cui Badalamenti padre avrebbe iniziato la sua carriera criminale.

Lo scrivente, che è presidente di una delle due associazioni e che pertanto ha la chiave della casa, è disposto a fargliela visitare, per tutto il tempo che crede, qualora egli avesse nostalgia di rivedere i luoghi in cui è nato ed è cresciuto. Che non vada però oltre un'intera giornata. Poi abbiamo da fare altre cose. Rimane da chiedersi se, nel caso di rientro di Vituzzu, il sindaco di Cinisi non si comporterà come il sindaco di Corleone Jannazzo, che ha giudicato negativamente il ritorno del figlio di Totò Riina, giudicandolo "indesiderabile", oppure se se ne starà zitto, mentre, magari, qualche cinisaro andrà a scrivere sui muri, come è stato fatto a Corleone: "Bentornato Vituzzu".Salvo Vitale Anitmafia2000

venerdì 30 marzo 2012

Torna libero il figlio del boss Badalamenti


Vito, 55 anni, era stato condannato nel 1999 ed era fuggito in Australia. Accolto il ricorso dei legali: può usufruire del diritto di chi è riuscito a non finire in galera per un tempo doppio rispetto a quello della condanna. E' nella lista dei dieci latitanti più pericolosi stilata dal Viminale. 

 

Il figlio del defunto boss di Cinisi Tano Badalamenti, Vito, 55 anni, sul quale dal 1999 pendeva una condanna definitiva a sei anni per mafia - mai eseguita - è un uomo libero: la prima sezione della Corte d'appello di Palermo, presieduta da Gianfranco Garofalo, ha accolto il ricorso dei legali di Badalamenti, Paolo Gullo e Vito Ganci.

Nella lista dei dieci latitanti più pericolosi stilata dal Viminale e condannato al "maxiquater", Badalamenti jr. ora può usufruire del diritto di chi è riuscito a non finire in galera per un tempo doppio rispetto a quello della condanna. La non esecuzione della pena, passati 12 anni, gli garantisce di poter tornare in Italia, dall'Australia, dove ha trovato rifugio, come uomo libero. L'unica misura ancora attiva - dopo che è caduta anche l'interdizione perpetua dai pubblici servizi - è la sorveglianza speciale, che lo costringerebbe a non allontanarsi da Cinisi, senza il permesso del giudice, a rientrare a casa prima delle 20 e a uscire dopo le 7.

Il figlio di don Tano era stato condannato a sei anni di reclusione nell'ultimo dei giudizi istruiti dal pool di Falcone, Borsellino e del giudice istruttore Leonardo Guarnotta. Nel 1995 Badalamenti si diede alla latitanza, la pena a sua carico divenne definitiva il 17 dicembre del 1999. Ora, dopo 12 anni in fuga, i suoi legali si sono presentati alla Corte d'appello ottenendo la prescrizione.


Fonte: La Repubblica