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martedì 26 febbraio 2013

Il presidio "Rita Atria" incontra alcune classi della Scuola Media "F. Brignone"

Abbiamo accolto con entusiasmo l'invito di alcune professoresse della Scuola Media  "F. Brignone" di Pinerolo, per incontrare le loro classi: far conoscere LIBERA e il presidio "RITA ATRIA" Pinerolo. 
Anche questo è stato un passo che ci porterà al 23 marzo 2013, il giorno in cui celebreremo a Pinerolo la "Giornata della Memoria e dell'Impegno in Ricordo delle Vittime delle mafie". 


Dalle parole di Peppino Impastato: " La mafia è una montagna di merda!"...
Alle parole che abbiamo regalato per stimolare il confronto: Bullismo e Regole 




Dividendosi in gruppi, i ragazzi hanno riflettuto sulle parole proposte. 
La sintesi dei pensieri che le "parole" hanno stimolato:


le sintesi dei quattro gruppi
Abbiamo così compreso le parole di Rita Atria: "(...) la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci . E poi: "(...) L'unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti.(...) Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo"

Infine, nel ricordo dei due eroi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la conferma  del pensiero di Paolo Borsellino l'abbiamo ritrovata, ancora una volta, nella attenzione, nella partecipazione attenta e meditata dei ragazzi ai pensieri che derivavano "dalle parole"(...) le nostre giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità". 


mercoledì 6 febbraio 2013

TESTIMONI DI GIUSTIZIA. Perché? Come e quando lo Stato li ha scaricati?

(...) vivono ai margini, dimenticati da tutti e col rischio che la malavita possa colpirli in ogni momento. Perché? Come e quando lo Stato li ha scaricati? 

Ignazio Cutrò
Per difendere i 78 testimoni di giustizia italiani, proprio in questi giorni (il 4 febbraio) è nata una nuova associazione nazionale "Testimoni di giustizia" presieduta da Ignazio Cutrò, l'imprenditore siciliano, Pietro Di Costa, imprenditore di Tropea, titolare dell'istituto di vigilanza Sycurpol, pure lui nome noto tra le vittime del racket, affiancherà alla presidenza dell'associazione Cutrò, così come Pietra Aiello, collaboratrice del giudice Borsellino, che di "Testimoni di giustizia" sarà la segretaria.

FONTE : LA REPUBBLICA

In fuga perenne dalla propria vita. 
Soli e dimenticati i testimoni di giustizia

Sono 78 persone che, con le loro testimonianze hanno inchiodato pericolosi criminali legati alla malavita organizzata. Ma quando i processi finiscono lo Stato tende ad abbandonarli a se stessi. E, in periodo di crisi e di spending review, è anche peggio. C'è chi va avanti a fatica, chi ha paura e chi si è ridotto a vivere da clochard. Ora nasce un'associazione per difenderli


ROMA - "Abbiamo assistito a un omicidio di malavita a Crotone: due uomini (zio e nipote) furono trucidati in strada davanti ai nostri occhi. Era il 1992. Io e mia sorella siamo andate a testimoniare, sapevamo molte cose dei mandanti, appartenenti a una pericolosissima 'ndrina. Gli assassini e i boss che li avevano ingaggiati per quel delitto sono finiti in carcere a vita, noi abbiamo testimoniato fino in Cassazione. Avevano detto che ci avrebbero acquistato casa, aiutato a trovare un lavoro. Invece dopo quattro anni ci hanno lasciato sole, con in mano solo dei finti documenti. Insieme alla nostra identità abbiamo perso la nostra vita". Giuliana e Maria sono due sorelle, due "testimoni di giustizia", così le ha bollate lo Stato con la legge del 2001. Due donne che hanno avuto il coraggio di mandare in carcere boss, pezzi grossi della malavita calabrese e che oggi sono completamente sole, abbandonate dalle istituzioni, tagliate fuori dalla società. Non sono le sole. Più della metà dei testimoni di giustizia italiani, a processi chiusi, si sono ritrovati nella stessa situazione. E ora vivono ai margini, dimenticati da tutti e col rischio che la malavita possa colpirli in ogni momento. Perché? Come e quando lo Stato li ha scaricati? Quanti sono i testimoni di giustizia in Italia che oggi si trovano nello stesso incubo di Giuliana e Maria?

I testimoni di giustizia. In Italia sono 78 in tutto i testimoni di giustizia: persone la cui testimonianza nelle aule dei tribunali è stata fondamentale per inchiodare il gotha della criminalità italiana. Uomini e donne che hanno scelto di far prevalere il senso di giustizia su tutto. Individui che per aver creduto nella magistratura e nello Stato hanno rinunciato alla loro città, alle loro amicizie, alla loro normalità. E ora, come se il prezzo pagato per quella scelta non fosse stato già abbastanza salato, quelle istituzioni alle quali si sono votati gli hanno girato le spalle. "Ci hanno detto: "lo Stato non vi può più mantenere, gli italiani non possono più pagare per voi.  -  prosegue la calabrese Giuliana  -  Se avessi saputo come sarebbero andate a finire le cose, mi sarei alleata con la mafia: loro almeno continuano a mantenere le famiglie di chi è in carcere". Parole dure, parole amare quelle di Giuliana, che ora vive in un paesino del centro Italia, senza la sua vera identità, senza una protezione, senza mezzi di sostentamento, tanto che da qualche settimana è senza elettricità nel suo piccolo appartamento perché da mesi ha smesso di pagare le bollette.

Vita di clochard. Gaetano fu il testimone chiave nel maxi processo che inchiodò boss calabresi che avevano messo le mani sugli appalti per la costruzione delle autostrade nel sud. Un giro di tangenti milionario che impediva a qualsiasi ditta non collusa con l'organizzazione di avvicinarsi alla costruzione delle strade nel meridione. Da quattro anni vive in mezzo a una strada. Il ministero dell'Interno lo ha liquidato offrendogli un camper: questo il riconoscimento in cambio del suo sacrificio. "Avrebbero dovuto darmi il corrispettivo del valore del mio appartamento, visto che sono stato costretto a lasciare la mia città. Mentre il processo era in corso sono stato ospitato in un alloggio messo a disposizione dallo stato e poi... "Poi un giorno arriverà il tuo risarcimento economico", mi hanno promesso. Nel frattempo grazie a una colletta di alcuni poliziotti mi è stato dato un camper dove dormo. E quando, qualche giorno fa, il controllore del treno mi ha trovato senza biglietto e mi ha multato ho detto: "quando avrò il mio risarcimento dallo Stato giuro che pagherò la multa"".

La spending review. La spending review, da due anni a questa parte, ha tagliato via via tutti gli indennizzi destinati destinati ai testimoni di giustizia, "in barba ai proclami anti mafia di cui tutta la politica italiana si riempie la bocca", denuncia Antonio Turri, presidente dell'associazione "I cittadini contro le mafie e la corruzione". Prosegue: "più della metà dei 78 testimoni di giustizia non ha più la protezione e le garanzie che lo Stato gli aveva promesso prima che iniziassero i processi. La lotta alle organizzazioni malavitose si fa soprattutto con i testimoni, ma con politiche di tagli di questo tipo non si fa altro che disincentivare la collaborazione. Gente con la vita rovinata è ora caduta nel baratro, completamente sola. E tutto per aver creduto in valori e in una solidarietà che nel nostro paese, a differenza di tutto il resto d'Europa dove sono previsti degli indennizzi, non esiste. Allora mi chiedo: chi da oggi, a fronte di questa situazione, affiderà per senso di giustizia la propria vita nelle mani dello Stato? È con congressi e proclami che si intende sconfiggere le mafie?". 

L'associazione. Per difendere i 78 testimoni di giustizia italiani, proprio in questi giorni (il 4 febbraio) è nata una nuova associazione nazionale "Testimoni di giustizia" presieduta da Ignazio Cutrò, l'imprenditore siciliano sottoposto a un programma speciale di protezione per aver denunciato i suoi estorsori che per sette anni lo torturarono con intimidazioni e minacce di ogni tipo per non essersi piegato alla legge del pizzo. Fu a seguito della sua denuncia e della sua testimonianza che venne avviata l'operazione "Face off" nella quale arrestarono i fratelli Luigi, Marcello e Maurizio Panepinto, condannati nel 2011 a un totale di 66 anni e mezzo di carcere. Il suo destino è diverso da quello degli altri testimoni di giustizia: nel 2012 infatti, grazie all'intervento della Regione Sicilia riprese la propria attività imprenditoriale, ottenendo un contratto con il Consorzio per le Autostrade Siciliane e ancora oggi è sotto tutela. Pietro Di Costa, imprenditore di Tropea, titolare dell'istituto di vigilanza Sycurpol, pure lui nome noto tra le vittime del racket, affiancherà alla presidenza dell'associazione Cutrò, così come Pietra Aiello, collaboratrice del giudice Borsellino, che di "Testimoni di giustizia" sarà la segretaria.




lunedì 22 ottobre 2012

La rabbia di Piera, testimone di giustizia per orgoglio e per amore


"Piera Aiello, testimone di giustizia, è la cognata di Rita Atria. In questi giorni viene pubblicato il suo libro "Maledetta mafia".
Partanna (Trapani). Piera Aiello ha solo 18 anni quando giorni dopo il matrimonio il suocero, Vito Atria un piccolo mafioso locale, viene assassinato. Nel 1991 la stessa sorte tocca a Nicolò, sotto gli occhi impotenti di Piera. "Dopo quell’omicidio in Piera scatta qualcosa:"come impongono le regole della mia terra, con una bimba di tre anni da crescere e una rabbia immensa nel cuore. In quel momento il destino ha messo un bivio lungo il mio percorso: dovevo scegliere quale futuro dare a mia figlia Vita"

Il momento di svolta è l’incontro con un uomo che una mattina, scrive Piera: "mi ha preso sottobraccio e mi ha piazzato davanti ad uno specchio, eravamo in una caserma dei Carabinieri”. 
Quell’uomo è Paolo Borsellino”."Da quando lo"zio Paolo"mi ha piazzato davanti a quello specchio e mi ha ricordato chi ero, da dove venivo e dove sarei dovuta andare, sono diventata una testimone di giustizia. Io non ho mai commesso reati, né sono mai stata complice dei crimini di mio marito e dei suoi amici, gli stessi che poi ho accusato nelle aule dei tribunali e nelle corti d’assise. Quel che è certo è che la mia storia, la mia vita, è stata rivoluzionata dalla morte”.
La morte: la morte di Paolo Borsellino e  la morte di Rita Atria, sua cognata, che a 17 anni decide di ribellarsi al sistema mafioso, ma dopo l’assassinio di Borsellino non riesce a reggere al dolore e si toglie la vita.
Nonostante tutto Piera continua ad andare avanti, sostenuta da una determinazione incrollabile e dalla
consapevolezza che l’eredità di Falcone, Borsellino e Rita non puo' andare perduta:''Ecco perche' oggi ho due nomi e due cognomi che corrono paralleli, che a volte si incrociano, si sovrappongono, che si respingono e si fondono”.(Fonte: Antimafiaduemila)

 Fonte: Corriere della Sera
La rabbia di Piera testimone di giustizia per orgoglio e per amore

Piera Aiello è una donna coraggiosa. Una donna che ha sempre sfidato le regole non scritte della sua terra. Di quella Sicilia degli anni ’80, in cui la parola “mafioso” poteva essere sinonimo di “paciere”. Una ribelle nei gesti e nelle parole che si “permette” di rispondere a suo suocero, don Vito Atria, che non accetta i tradimenti di quello che diventerà suo marito, Nicola. E si piega al matrimonio per far sì che smettano “gli atti di ritorsione contro di me e la mia famiglia”. Accetta il suo destino. “Penso che vivrò una vita tranquilla, pianificata come quelle di molte altre mie amiche. Invece mi sbaglio”. Così non esita nemmeno un secondo a prendere a calci il fucile per cercare di salvare la vita a Nicola. Un gesto disperato che però non serve a nulla. E quindi sceglie. Non vuole “diventare un vedova di mafia”. Ma decide per lei e la figlia di tre anni una nuova vita. Un percorso che le porta lontano da casa. E che si incrocia con il destino di Paolo Borsellino. Piera diventa la prima testimone di giustizia in Italia. Piera, è una donna che non si è mai arresa. Nemmeno quando lo Stato l’ha “abbandonata”.
Lei, continua a lottare. Ed è per questo che ha scritto il libro, con Umberto Lucentini, “Maledetta Mafia” (edizione SanPaolo, 176 pagine euro12,00). “Ho voluto raccontare la mia vita anche perché vorrei che si continuasse a parlare dei testimoni di giustizia, quei cittadini che hanno scelto di aiutare la magistratura, non per uno sconto di pena. Ma perché abbiamo voluto fare il nostro dovere. E quando non siamo più utili, lo Stato ti butta via come se fossimo un limone spremuto”. C’è tanta rabbia nella sua voce. Amarezza per le “delusioni” che le hanno dato “burocrati e persino carabinieri”. Uomini dell’arma che “per leggerezza hanno rivelato la mia vera identità nel Paese in cui vivo”. Già, Piera ha dovuto cambiare nome, città, vita. Perché “la mafia non dimentica”. E il suo è un segreto da non rivelare. Lei e la figlia Vita Maria, oggi ventenne, potrebbero essere in pericolo.
Ma la frustrazione per uno “Stato assente” è stata ripagata “con la solidarietà della società civile”. Nel libro racconta anche questo. Tutte quelle persone che, in un percorso lungo più di vent’anni, l’hanno sostenuta, aiutata anche rischiando la propria incolumità. Dal dirigente scolastico che accetta di iscrivere la figlia a scuola sotto falso nome (l’identità non le era ancora stata cambiata) a quella vicina di casa che, oggi, sapendo la sua storia la protegge con il suo silenzio
Ma “l’incontro più bello della vita” è stato con Paolo Borsellino. È stato lui, proprio quando  Piera era incerta se continuare o no il percorso di testimone, a metterladavanti a uno specchio” e domandarle: “Cosa vedi?”. Era il 1991, aveva 21 anni. Una figlia di tre. E quella voglia di portare avanti i valori trasmessi dai genitori: “L’onestà, il servizio per gli altri, la correzione dei comportamenti sbagliati”. Il suocero era stato assassinato mentre lei era in viaggio di nozze. Da quel momento il marito non ha fatto altro che pensare alla “vendetta”. E lei non è riuscito a convincerlo. “Vai a denunciare tutto ai carabinieri”, continuava a ripetergli. Non è successo. E lui è stato ucciso. Comincia il suo percorso, appunto, con Borsellino. La segue la cognata Rita, 18 anni. Erano legatissime. Insieme lasciano la Sicilia per Roma. E quando Borsellino viene ucciso, dopo una settimana, questa giovane si butta dalla finestra.
Per Piera è un nuovo dolore. Una ferita che non si rimarginerà mai. Ma è riuscita comunque ad andare avanti. Nel 1997 Piera si è resa autonoma dal sistema. E con una certa fierezza spiega: “Io vivo del mio lavoro. Ho fatto tutto da sola, lo Stato non mi ha aiutata”. Nel frattempo ha continuato a testimoniare. Ha onorato quell’impegno preso con Borsellino e portato avanti “con quei procuratori coraggiosi”. Oggi è portavoce dei testimoni di giustizia. “Noi abbiamo fatto il nostro dovere, oggi vogliamo i diritti”. La invitano dovunque. Lei va nelle scuole, parla con i giovani. Racconta la sua storia. “Mai una volta i ragazzi hanno violato la mia privacy. Non mi hanno mai fotografato né hanno divulgato mie immagini”. Ogni volta in classe ripete: “Anche se lo Stato non c’è, dobbiamo essere puliti dentro. Non è necessario essere degli eroi. Basta fare la nostra piccola parte ogni giorno e non ci sarebbe bisogno di nessun testimone”.

mercoledì 17 ottobre 2012

Yvan Sagnet. L'eroe qualunque, il ragazzo africano che si è ribellato ai "caporali" del Sud



Quando gli stranieri ci insegnano le regole della democrazia: rischiare la vita per una democrazia diversa. Una battaglia che molti italiani hanno rinunciato a combattere. 
Accadde già con Anne Marie Tsagueu, la  donna che ebbe il coraggio di testimoniare contro gli agenti nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Federico Aldrovandi, sebbene all'epoca fosse una "clandestina"


Fonte : LA Repubblica
di ROBERTO SAVIANO
L'eroe qualunque, il ragazzo africano che si è ribellato ai "caporali" del Sud
la copertina del libro
Yvan Sagnet arriva dal Camerun anche grazie alla passione per il calcio. Ma scopre il lato peggiore dell'Italia. La sua storia è diventata un libro che racconta la rivolta contro lo sfruttamento dei migranti nelle campagne pugliesi. http://www.migrantitorino.it/?p=16753
 QUESTA è una storia d'amore nata per caso tra un bambino e un Paese, la racconta Yvan Sagnet nel suo libro Ama il tuo sogno (Fandango). Il bambino è Yvan che nel 1990 aveva 5 anni e il Paese è l'Italia. È una storia d'amore che parte dal calcio. Yvan è nato Douala, in Camerun, nel 1985 e nel 1990, come molti bambini camerunensi, visse la cavalcata trionfale dei Leoni d'Africa nel mondiale, dalla prima partita con l'Argentina di Maradona fino ai quarti di finale contro l'Inghilterra. Napoli, domenica primo luglio. Ancora oggi chi c'era ricorda i tifosi del Camerun, coloratissimi, sportivi e con l'espressione di chi non poteva credere a ciò che stava accadendo. 
Essere arrivati fino a lì aveva del miracoloso: il Camerun era la prima squadra africana a raggiungere i quarti di finale in Coppa del Mondo. E Napoli, dove si svolse la partita, tifò con loro sperando nel miracolo. La partita fu incredibile, con il Camerun in vantaggio per 2-1 fino a otto minuti dal termine dei tempi regolamentari. Poi il primo rigore all'Inghilterra, i supplementari, il secondo rigore e la sconfitta. A Yvan quella partita ha cambiato la vita. Il ricordo del rientro in patria della nazionale, che pur non avendo vinto il mondiale aveva ottenuto il rispetto di tutto il mondo, per Yvan significava una sola cosa: un nuovo sguardo sul suo paese, maggiore attenzione su un Camerun in crisi economica e politica. E questo nuovo sguardo era stato possibile proprio grazie al mondiale e al paese che lo aveva ospitato.A scuola il programma di economia dei licei camerunensi prevedeva lo studio del sistema economico francese, ma lui decise per conto suo di specializzarsi sull'economia italiana. 

Dal calcio all'economia. Yvan impara l'italiano e con un permesso di studio si iscrive all'università di Torino perché vuole diventare ingegnere. Finalmente può conoscere dal vivo il calcio italiano che ha amato da bambino. Tifa Juventus ma la prima partita dal vivo della sua vita la vede di spalle, come steward, allo stadio. Sono i primi di luglio del 2011 e i soldi della borsa di studio non bastano. Alcuni amici di Torino gli dicono che al Sud si può andare a lavorare per la raccolta del pomodoro perché serve manodopera. Così Yvan decide di trasferirsi nelle campagne salentine, a Nardò, dove sa di una masseria che accoglie i braccianti che fanno la stagione, togliendoli dalla strada, dove spesso dormono accampati sotto gli alberi, dentro case di cartone, senza acqua né corrente elettrica. Eppure anche alla Masseria Boncuri, nonostante l'impegno di tante associazioni di volontariato, la longa manus dei caporali detta le sue leggi.

   Appena arrivati, i caporali requisiscono i documenti ai braccianti e li usano per procurarsi altra mano d'opera, altri immigrati, ma clandestini. Il rischio che i documenti vadano persi è altissimo e quando accade i braccianti diventano schiavi. Le condizioni di lavoro sono agghiaccianti: diciotto ore consecutive, di cui molte sotto il sole cocente. Chi sviene non è assistito e se vuole raggiungere l'ospedale deve pagare il trasporto ai caporali. Il guadagno è di appena 3,5 euro a cassone, un cassone è da tre quintali e per riempirlo ci vuole molto tempo, ore. Si lavora con questi ritmi anche durante il Ramadan, quando molti lavoratori di religione islamica non bevono e non mangiano. In Italia la disoccupazione è una piaga che sembra insanabile. Eppure questi ragazzi trovano lavoro, trovano un lavoro a condizioni inaccettabili per quasi la totalità dei disoccupati italiani.
Si crede che i ragazzi africani siano abituati a una vita di disumanità, sporcizia, alloggi immondi e quindi questa attitudine alla suburra la sopportino in Italia perché medesima nel loro paese. 
Nulla di più falso. Yvan scrive: "Mentre nel mio paese la dignità è sacra, a tutti livelli della scala sociale, il sistema dei campi di lavoro (in Italia, ndr) è appositamente studiato per togliere ai braccianti anche l'ultimo scampolo di umanità". Ma accade qualcosa che i caporali non hanno previsto. I braccianti in genere strappano le piantine alla radice per batterle sulle cassette così che i pomodori cadono tutti. Ma quel giorno il caporale impone un altro metodo. Servono pomodori da vendere ai supermercati per le insalate, quindi devono essere presi e selezionati uno a uno. Si tratta di riempire gli stessi cassoni di sempre, ma selezionare i pomodori significa raddoppiare la fatica. Il caporale impone tutto questo lavoro allo stesso prezzo: Yvan e gli altri braccianti non trovano alternative, si sollevano. È l'inizio della rivolta e Masseria Boncuri ne diventerà il simbolo con l'enorme striscione "Ingaggiami contro il lavoro nero". Ma lo sciopero non è facile da gestire soprattutto perché è quasi impossibile comunicare tra i diversi gruppi etnici. Gli unici a esprimersi facilmente in italiano sono i tunisini; per altri (bukinabé, togolesi, ivoriani, ghanesi, nigeriani, etiopi, somali) è necessario parlare in inglese e francese; altri capiscono solo la lingua araba. Eppure, nonostante le diversità, lo sciopero continua: tante culture e tante visioni della lotta hanno finito per essere non la debolezza ma la forza della protesta, che a un anno e mezzo da quella di Rosarno, è più organizzata e riesce a guadagnare un'eco nazionale.
Gli italiani sembrano prendere finalmente coscienza delle condizioni difficili di chi lavora nei campi e le istituzioni sono costrette ad ammettere che il problema caporalato esiste.

La magistratura trova la forza per continuare le indagini già in corso, spesso protette da omertà e scarsa collaborazione, e a maggio 2012 i carabinieri del Ros arrestano 16 persone  -  presunti caporali e imprenditori agricoli  -  nell'ambito dell'operazione "Sabr" che ha colpito un'organizzazione criminale attiva tra Rosarno, Nardò e altre città della Puglia. Ma la reazione alla rivolta, allo sciopero, al clamore mediatico, all'inchiesta della magistratura e agli arresti, non si fa attendere. Alessandro Leogrande (autore peraltro di un importante reportage Uomini e caporali sui desaparecidos polacchi nel triangolo del pomodoro vicino Foggia) nell'intervista finale che accompagna il libro di Yvan Sagnet, svela che c'è un piano per uccidere Yvan e lo hanno ordito alcuni caporali tunisini che ancora operano a Nardò. 
La vita del primo leader nero italiano è, oggi, seriamente in pericolo. 
Quello che sento di poter fare con queste righe è non lasciarlo solo. Senza il suo impegno, senza questo ragazzo africano e gli altri che hanno lottato con lui, non esisterebbe la legge contro il caporalato, eppure i caporali esistono al Sud da più di un secolo. 
La speranza del mezzogiorno italiano sta proprio in questa parte d'Africa che arrivata al Sud, trasforma il Sud e rimette in gioco interi territori, migliorandoli.
Rischia la vita per una democrazia diversa, una battaglia che molti italiani hanno rinunciato a combattere

lunedì 3 settembre 2012

L'ultima intervista del generale Dalla Chiesa.


Il 10 agosto 1982 Giorgio Bocca, allora giornalista de La Repubblica, intervista il gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, nominato Prefetto di Palermo. 
Nell'intervista, il generale Dalla Chiesa mostra a quale profondità fosse giunta la sua analisi del fenomeno mafioso. Nelle risposte del generale sono presenti tutti i temi, tutti i filoni, su cui si doveva indirizzare l'azione dello Stato, se davvero si voleva combattere la mafia: dall'inutilità del "soggiorno obbligato", all'espansione delle mafie al Nord; dall'accumulazione primitiva del capitale mafioso all'attività di riciclaggio per mezzo di attività e soggetti "insospettabili". Infine, l'affermazione che più di altre sottolinea l'inefficienza e le mancate risposte ai cittadini da parte delle istituzioni: "(...)Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato."(...)Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati".

PALERMO, 10 agosto 1982.
La Mafia non fa vacanza, macina ogni giorno i suoi delitti; tre morti ammazzati giovedì 5 fra Bagheria, Casteldaccia e Altavilla Milicia, altri tre venerdì, un morto e un sequestrato sabato, ancora un omicidio domenica notte, sempre lì, alle porte di Palermo, mondo arcaico e feroce che ignora la Sicilia degli svaghi, del turismo internazionale, del "wind surf" nel mare azzurro di Mondello. Ma è soprattutto il modo che offende, il "segno" che esso dà al generale Carlo Alberto dalla Chiesa e allo Stato: i killer girano su potenti motociclette, sparano nel centro degli abitati, uccidono come gli pare, a distanza di dieci minuti da un delitto all'altro. 
Dalla Chiesa è nero:Da oggi la zona sarà presidiata, manu militari. Non spero certo di catturare gli assassini ad un posto di blocco, ma la presenza dello Stato deve essere visibile, l'arroganza mafiosa deve cessare”.
Questo Dalla Chiesa in doppio petto blu prefettizio vive con un certo disagio la sua trasformazione: dai bunker catafratti di Via Moscova, in Milano, guardati da carabinieri in armi, a questa villa Wittaker, un po’ lasciata andare, un po’ leziosa, fra alberi profumati, poliziotti assonnati, un vecchio segretario che arriva con le tazzine del caffè e sorride come a dire: ne ho visti io di prefetti che dovevano sconfiggere la Mafia.

- Generale, vorrei farle una domanda pesante. Lei è qui per amore o per forza? Questa quasi impossibile scommessa contro la Mafia è sua o di qualcuno altro che vorrebbe bruciarla? Lei cosa è veramente, un proconsole o un prefetto nei guai ?
Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell'interesse dello Stato
- Credevo che il governo si fosse impegnato, se ricordo bene il Consiglio dei Ministri del 2 aprile scorso ha deciso che lei deve ”coordinare sia sul piano nazionale che su quello locale” la lotta alla Mafia.

Non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati.

- Vediamo un po’ generale, lei forse vuol dirmi che stando alla legge il potere di un prefetto è identico a quello di un altro prefetto ed è la stessa cosa di quello di un questore. Ma è implicito che lei sia il sovrintendente, il coordinatore.

Preferirei l'esplicito

- Se non ottiene l'investitura formale che farà? Rinuncerà alla missione?

Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla Mafia, non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più.

- No, parliamone, queste faccende all'italiana vanno chiarite. Lei cosa chiede? Una sorta di dittatura antimafia? I poteri speciali del prefetto Mori?

Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza. Mio padre al tempo di Mori comandava i carabinieri di Agrigento. Mori poteva servirsi di lui ad Agrigento e di altri a Trapani a Enna o anche Messina, dove occorresse. Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel "pascolo" palermitano e non nel resto d'Italia non farebbe che perdere tempo.

Lei cosa chiede? L'autonomia e l'ubiquità di cui ha potuto disporre nella lotta al terrorismo?

Ho idee chiare, ma capirà che non è il caso di parlarne in pubblico. Le dico solo che le ho già, e da tempo, convenientemente illustrate nella sede competente. Spero che si concretizzino al più presto. Altrimenti non si potranno attendere sviluppi positivi.

Ritorna con la Mafia il modulo antiterrorista? Nuclei fidati, coordinati in tutte le città calde?

Il generale fa un gesto con la mano, come a dire, non insista, disciplina giovinetto: questo singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali. Difficile da capire.

- Generale, noi ci siamo conosciuti qui negli anni di Corleone e di Liggio, lei è stato qui fra il '66 e il '73 in funzione antimafia, il giovane ufficiale nordista de Il giorno della civetta. Che cosa ha capito allora della Mafia e che cosa capisce oggi, 1982?

Allora ho capito una cosa, soprattutto: che l'istituto del soggiorno obbligatorio era un boomerang, qualcosa superato dalla rivoluzione tecnologica, dalle informazioni, dai trasporti. Ricordo che i miei corleonesi, i Liggio, i Collura, i Criscione si sono tutti ritrovati stranamente a Venaria Reale, alle porte di Torino, a brevissima distanza da Liggio con il quale erano stati da me denunziati a Corleone per più omicidi nel 1949. Chiedevo notizie sul loro conto e mi veniva risposto: " Brave persone". Non disturbano. Firmano regolarmente. Nessuno si era accorto che in giornata magari erano venuti qui a Palermo o che tenevano ufficio a Milano o, chi sa, erano stati a Londra o a Parigi.
-E oggi?

Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?
- Scusi la curiosità, generale. Ma quel Ferlito mafioso, ucciso nell'agguato sull'autostrada, si quando ammazzarono anche i carabinieri di scorta, non era il cugino dell'assessore ai lavori pubblici di Catania ?
- E come andiamo generale, con i piani regolatori delle grandi città? È vero che sono sempre nel cassetto dell'assessore al territorio e all'ambiente?
Così mi viene denunziato dai sindaci costretti da anni a tollerare l'abusivismo.


IL CASO MATTARELLA 


- Senta Generale, lei ed io abbiamo la stessa età e abbiamo visto, sia pure da ottiche diverse, le stesse vicende italiane, alcune prevedibili, altre assolutamente no. Per esempio che il figlio di Bernardo Mattarella venisse ucciso dalla Mafia. Mattarella junior è stato riempito di piombo mafioso. Cosa è successo, generale?

- È accaduto questo: che il figlio, certamente consapevole di qualche ombra avanzata nei confronti del padre, tutto ha fatto perché la sua attività politica e l'impegno del suo lavoro come pubblico amministratore fossero esenti da qualsiasi riserva. E quando lui ha dato chiara dimostrazione di questo suo intento, ha trovato il piombo della Mafia. Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la Mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del "palazzo". Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato.
- Mi spieghi meglio.

Il caso di Mattarella è ancora oscuro, si procede per ipotesi. Forse aveva intuito che qualche potere locale tendeva a prevaricare la linearità dell'amministrazione. Anche nella DC aveva più di un nemico. Ma l'esempio più chiaro è quello del procuratore Costa, che potrebbe essere la copia conforme del caso Coco.
- Lei dice che fra filosofia mafiosa e filosofia brigatista esistono affinità elettive?

Direi di sì. Costa diventa troppo pericoloso quando decide, contro la maggioranza della procura, di rinviare a giudizio gli Inzerillo e gli Spatola. Ma è isolato, dunque può essere ucciso, cancellato come un corpo estraneo. Così è stato per Coco: magistratura, opinione pubblica e anche voi garantisti eravate favorevoli al cambio fra Sossi e quelli della XXII ottobre. Coco disse no. E fu ammazzato.
- Generale, mi sbaglio o lei ha una idea piuttosto estesa dei mandanti morali e dei complici indiretti? No, non si arrabbi, mi dica piuttosto perché fu ucciso il comunista Pio La Torre.


Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge, di mettere accanto alla "associazione a delinquere" la associazione mafiosa.
- Non sono la stessa cosa? Come si può perseguire una associazione mafiosa se non si hanno le prove che sia anche a delinquere?
E' materia da definire. Magistrati, sociologi, poliziotti, giuristi sanno benissimo che cosa è l'associazione mafiosa. La definiscono per il codice e sottraggono i giudizi alle opinioni personali. 
- Come si vede lei generale Dalla Chiesa di fronte al padrino del Giorno della civetta?
Stiamo studiandoci, muovendo le prime pedine. La Mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana. Un altro non se ne accorgerebbe, ma io questo mondo lo conosco.
- Mi faccia un esempio.
Certi inviti. Un amico con cui hai avuto un rapporto di affari, di ufficio, ti dice, come per combinazione: perché non andiamo a prendere il caffè dai tali. Il nome è illustre. Se io non so che in quella casa l'eroina corre a fiumi ci vado e servo da copertura. Ma se io ci vado sapendo, è il segno che potrei avallare con la sola presenza quanto accade.
- Che mondo complicato. Forse era meglio l'antiterrorismo.

In un certo senso si, allora avevo dietro di me l'opinione pubblica, l'attenzione dell'Italia che conta. I gambizzati erano tanti e quasi tutti negli uffici alti, giornalisti, magistrati, uomini politici. Con la Mafia è diverso, salvo rare eccezioni  la Mafia uccide i malavitosi, l'Italia per bene può disinteressarsene. E sbaglia.
- Perché sbaglia, generale?
La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa "accumulazione primitiva" del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti a la page
Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere.
- E deposita nelle banche coperte dal segreto bancario, no, generale ?
Il segreto bancario. La questione vera non è lì. Se ne parla da due anni e ormai i mafiosi hanno preso le loro precauzioni. E poi che segreto di Pulcinella è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono i loro clienti mafiosi. La lotta alla Mafia non si fa nelle banche o a Bagheria o volta per volta, ma in modo globale.
Generale dalla Chiesa, da dove nascono le sue grandissime ambizioni Mi guarda incuriosito.
Voglio dire, generale: questa lotta alla Mafia l'hanno persa tutti, da secoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le democrazie pre e post fasciste , Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e il bandito Giuliani, l'ala socialista dell'Evis indipendente e la sinistra sindacale dei Rizzuto e dei Cannavale, la Commissione parlamentare di inchiesta e Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto dalla Chiesa si mette il doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare.
Ma sì, e con un certo ottimismo sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire. Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati.

Si va a pranzo in un ristorante della Marina con la signora dalla Chiesa, oggetto misterioso della Palermo del potere. Milanese, giovane, bella. Mah! In apparenza non ci sono guardie, precauzioni. Il generale assicura che non c'erano neppure negli anni dell'antiterrorismo. Dice che è stata la fortuna a salvarlo le tre o quattro volte che cercarono di trasferirlo a un mondo migliore.

(gen. Dalla Chiesa)-Doveva uccidermi Piancone la sera che andai al convegno dei Lyons. Ma ci andai in borghese e mi vide troppo tardi. Peci, quando lo arrestai, aveva in tasca l'elenco completo di quelli che avevano firmato il necrologio per la mia prima moglie. Di tutti sapevano indirizzo, abitudini, orari. Nel caso mi fossi rifugiato da uno di loro, per precauzione. Ma io precauzioni non ne prendo. Non le ho prese neppure nei giorni in cui su "Rosso" appariva la mia faccia al centro del bersaglio da tirassegno,con il punteggio dieci, il massimo  Se non è istigazione ad uccidere questa?.
- Generale, sinceramente, ma a lei i garantisti piacciono ?
Dagli altri tavoli ci osservano in tralice. Quando usciamo qualcuno accenna un inchino e mormora: “Eccellenza”.









giovedì 2 agosto 2012

2 AGOSTO 1980. STAZIONE DI BOLOGNA. LA STRAGE

2 AGOSTO 1980  STRAGE DI BOLOGNA



Cortometraggio disponibile per gentile concessione dell'Associazione tra i familiari delle vittime strage alla stazione di Bologna del 2 Agosto 1980.



fonte del testo: ASSOCIAZIONE TRA I FAMIGLIARI DELLE VITTIME DELLA STRAGE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA 2 AGOSTO 1980

Il 2 agosto 1980, alle ore 10,25, una bomba esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. 
Lo scoppio fu violentissimo, provocò il crollo delle strutture sovrastanti le sale d'aspetto di prima e seconda classe dove si trovavano gli uffici dell'azienda di ristorazione Cigar e di circa 30 metri di pensilina. L'esplosione investì anche il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario.
Il soffio arroventato prodotto da una miscela di tritolo e T4 tranciò i destini di persone provenienti da 50 città diverse italiane e straniere.
Il bilancio finale fu di 85 morti e 200 feriti.(testimonianze di Biacchesi e da "Il giorno")
La violenza colpì alla cieca cancellando a casaccio vite, sogni, speranze.
Marina Trolese, 16 anni, venne ricoverata all'ospedale Maggiore, il corpo devastato dalle ustioni. Con la sorella Chiara, 15 anni, era in partenza per l'Inghilterra. Le avevano accompagnate il fratello Andrea e la madre Anna Maria Salvagnini. Il corpo di quest'ultima venne ritrovato dopo ore di scavo tra le macerie. Andrea e Chiara portano ancora sul corpo e nell'anima i segni dello scoppio. Marina morì dieci giorni dopo l'esplosione tra atroci sofferenze.

Angela Fresu, la vittima
più giovane  della strage
Maria Fresu si trovava nella sala della bomba con la figlia Angela di tre anni. Stavano partendo con due amiche per una breve vacanza sul lago di Garda. Il corpicino della piccola, la più giovane delle vittime, venne ritrovato subito. Solo il 29 dicembre furono riconosciuti i resti della madre.

Torquato Secci, impiegato alla Snia di Terni, venne allertato dalla telefonata di un amico del figlio Sergio, Ferruccio, che si trovava a Verona. Sergio lo aveva informato che a causa del ritardo del treno sul quale viaggiava, proveniente dalla Toscana, aveva perso una coincidenza a Bologna e aveva dovuto aspettare il treno successivo.
Poi non ne aveva più saputo nulla.
Solo il giorno successivo, telefonando all'Ufficio assistenza del Comune di Bologna, Secci scoprì che suo figlio era ricoverato al reparto Rianimazione dell'ospedale Maggiore.
"Mi venne incontro un giovane medico, che con molta calma cercò di prepararmi alla visione che da lì a poco mi avrebbe fatto inorridire", ha scritto Secci, "la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. Solo dopo un po' mi ripresi e riuscii a dire solo poche e incoraggianti parole accolte da Sergio con l'evidente, espressa consapevolezza di chi, purtroppo teme di non poter subire le conseguenze di tutte le menomazioni e lacerazioni che tanto erano evidenti sul suo corpo".
Nel 1981 Torquato Secci diventò presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage.
La città si trasformò in una gigantesca macchina di soccorso e assistenza per le vittime, i sopravvissuti e i loro parenti.
I vigili del fuoco dirottarono sulla stazione un autobus, il numero 37, che si trasformò in un carro funebre.
E' lì che vennero deposti e coperti da lenzuola bianche i primi corpi estratti dalle macerie.
Alle 17,30, il presidente della Repubblica Sandro Pertini arrivò in elicottero all'aeroporto di Borgo Panigale e si precipitò all'ospedale Maggiore dove era stata allestita una delle tre camere mortuarie.
Per poche ore era circolata l'ipotesi che la strage fosse stata provocata dall'esplosione di una caldaia ma, quando il presidente arrivò a Bologna, era già stato trovato il cratere provocato da una bomba.
Incontrando i giornalisti Pertini non nasconse lo sgomento: "Signori, non ho parole" disse,"siamo di fronte all'impresa più criminale che sia avvenuta in Italia".
Ancora prima dei funerali, fissati per il 6 agosto, si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città.
Il giorno fissato per la cerimonia funebre nella basilica di San Petronio, si mescolano in piazza rabbia e dolore.
Solo 7 vittime ebbero il funerale di stato.
Il 17 agosto "l'Espresso" uscì con un numero speciale sulla strage. In copertina un quadro a cui Guttuso ha dato lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: "Il sonno della ragione genera mostri". Guttuso ha solo aggiunto una data: 2 agosto 1980.
Cominciò una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana.

 Marina Gamberini appena estratta dalle macerie della stazione di Bologna.  una delle immagine-simbolo della strage di Bologna.  Nella strage Marina ha perso sei colleghe e per anni ha combattuto contro il senso di colpa: “perché io ero viva e le mie colleghe no?" 



mercoledì 18 luglio 2012

Paolo Borsellino: 'Io non vedrò i risultati del mio lavoro, li vedrete voi dopo la mia morte, perché la gente si ribellerà, si ribelleranno le coscienze degli uomini di buona volontà "


giudice Paolo Borsellino,  52 anni
Presidio Libera "RITA ATRIA" Pinerolo. Per fare Memoria, domani 19 luglio 2012, nel ventennale della strage di Via D'amelio saremo presenti in Piazza Facta, a Pinerolo.
“(...) ricordare non basta. Memoria è un ricordo “attivo” che vuole comprendere i meccanismi, le cause e dunque le ragioni che determinarono una storia, e sa rileggerle nel presente per capirne le “mutazioni” e le mimetizzazioni nelle forme nuove in cui quella stessa violenza torna e tornerà ad esercitarsi. " Mario Ciancarella
Fare memoria dei volti e delle vite di coloro che hanno dato la vita per difendere i valori che sono a fondamento delle nostre comunità.

       
Emanuela Loi , 24 anni 
       gente Polizia di Stato      
















Agostino Catalano, 43 anni 
assistente capo Polizia di stato  
















Walter Eddie Cosina, 31 anni
agente scelto polizia di Stato















Claudio Traina, 27 anni 
agente Polizia di Stato







Vincenzo Li Muli, 22 anni
agente polizia di Stato    

sabato 9 giugno 2012

Trattativa tra Stato e mafia: indagato l'ex ministro Mancino


Dopo la deposizione in aula al processo Mori, la sua posizione è cambiata. Il pm aveva lasciato chiaramente intendere di ritenere falsa la testimonianza dell'ex titolare del Viminale. Che ancora una volta nega il suo coinvolgimento


L'ipotesi di reato è quella di falsa testimonianza. Con questa accusa è stato indagato dalla procura di Palermo l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta "trattativa" tra Stato e mafia. Ma lui, ancora una volta, nega ogni suo coinvolgimento. L'indagine dovrebbe essere chiusa nel giro di pochi giorni.     La posizione di Mancino, è cambiata nelle ultime settimane, dopo la sua deposizione al processo al generale Mario Mori il 24 febbraio scorso. In tribunale quel giorno i pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo avevano detto che "qualche uomo delle istituzioni mente".


I pm ritengono che Mancino, insediatosi al Viminale il primo luglio 1992, sapesse della trattativa che prevedeva di cedere al ricatto dei boss in cambio della rinuncia all'aggressione terroristica e ai progetti di uccisione di altri uomini politici. E che ora l'ex presidente del Senato ed ex vicepresidente del Csm neghi l'evidenza per coprire "responsabilità proprie e di altri". 
L'ex ministro della Giustizia Claudio Martelli ha più volte sostenuto di essersi lamentato con lui per il comportamento dei Ros. Nel giugno '92, secondo i magistrati, Mori e il capitano Giuseppe De Donno avrebbero infatti comunicato all'allora direttore degli affari penali del Ministero di via Arenula, Liliana Ferraro l'avvio dell'interlocuzione con Vito Ciancimino "per ottenere una copertura politica - sostengono i pm - dall'ex sindaco mafioso sulla trattativa". 



Mancino ha sempre negato. Il 24 febbraio aveva però detto che Martelli gli avrebbe accennato di "attività non autorizzate del Ros" e che lui gli avrebbe risposto di parlarne alla procura di Palermo. Mancino inoltre ha sempre negato di avere incontrato il giudice Paolo Borsellino il giorno del suo insediamento al Viminale.
La decisione di iscrivere Mancino è stata adottata dai magistrati del pool coordinato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia, alla vigilia della chiusura dell'indagine sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. Tutte le posizioni dei nove personaggi sotto indagine sono ancora al vaglio dei pm: da stabilire infatti, spiega la procura quale sarà, per ciascuno dei coinvolti, l'imputazione finale.
Si va da un ventaglio di ipotesi di reato che, oltre alla falsa testimonianza, abbracciano il favoreggiamento aggravato, il concorso nella violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o - ipotesi estrema - il concorso in associazione mafiosa.
Nell'indagine sono coinvolti i generali Mario Mori e Antonio Subranni, l'ex tenente colonnello Giuseppe De Donno, l'ex ministro dc Calogero Mannino, il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri, i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano e Nino Cinà. E ora anche Mancino.



Proprio ieri, poi, è stato riascoltato come teste, dai pm del pool, un altro ex ministro dell'Interno, Vincenzo Scotti, a proposito di alcuni fatti da lui raccontati nel recente libro "Pax mafiosa o guerra?", e per altre circostanze raccolte dai magistrati negli ultimi giorni. Obiettivo dell'accusa, chiarire le ragioni del siluramento del "duro" Scotti, sostituito al Viminale, nei giorni caldi del '92, tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio, proprio da Mancino.