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venerdì 4 novembre 2016

Samia Umar e Fatim Jawara: vittime innocenti del buio delle coscienze dell'Occidente

"(...) bambine e bambini , ragazze eragazzi , donne e uomini che raccolgono le loro speranze per deporle su una barca che viaggia nel buio delle coscienze dell'occidente.Vergogna!"  Così avevamo scritto nell'ottotbre del 2013, quando la strage dei migranti aveva scosso per un attimo le nostre coscienze.
Roberto Saviano, poche ore fa, scrive di due "vite perdute". Due vite perdute, fra le migliaia di vite perdute, che per una piccola particolarità emergono, per un attimo, dalle acque di quel cimitero senza croci che è diventato il Mediterraneo. Due "vite perdute" riemergono ai nostri occhi,per un attimo,  per "il merito" di essere state illuminate (per un attimo) dalle luci di uno degli "spettacoli" dellOccidente: le Olimpiadi. Samia e Fatim avevano sognato, sorriso e gareggiato per i rispettivi paese nelle Olompiadi. Adesso sono morte, entrambe, cancellate dal buio delle coscienze ottenebrate dell'Occidente.
Samia e Fatim
Roberto Saviano: "Samia Umar gareggiò alle Olimpiadi di Pechino 2008. Nel 2012, quattro anni dopo, quando lei di anni ne aveva solo 21, il suo corpo riemerse dalle acque di Lampedusa. Samia perse la vita su un barcone mentre tentava di raggiungere l'Europa. 
Fatim Jawara, 19 anni, portiera del Gambia, è tra i 97 cadaveri ritrovati al largo della Libia lo scorso 27 ottobre. Samia ha gareggiato a Pechino, Fatim ha difeso la porta della nazionale del Gambia. 
Samia e Fatim erano giovani, piene di sogni, di speranze. Avevano talento, un talento sportivo che, se fossero nate altrove, avrebbe permesso loro di realizzarsi. Ma erano nate nel posto sbagliato e per questo decidono di partire. 
Samia e Fatim sono morte perché in Somalia e in Gambia per loro non c'era spazio. Ma forse nemmeno qui da noi di spazio ne avrebbero trovato. 
Forse anche a loro sarebbero state chiuse porte in faccia. 
Non lo sapremo mai, perché il loro talento e i loro occhi, ora li custodisce il mare." 

venerdì 8 maggio 2015

Da Berlinguer a Saviano: i partiti e la questione morale

Troppi segnali ci dicono che la questione morale, l'etica della classe politica e dirigente di questo paese, non è fondamento prioritario nè per quanto riguarda la condotta di coloro che sono "nominati" ( eletti) a ricoprire cariche pubbliche, nè per quanto riguarda la scelta di costoro, operata dai partiti che hanno monopolizzato la vita e le espressioni della politica. Prova ne sono anche le leggi scaturite da un parlamento formato nella sua maggioranza proprio da "nominati"; i quali nominati debbono la loro elezione spesso al mero, e poco nobile, criterio di "appartenenza e lealtà" al capo di turno.
Anche il provvedimento deciso ieri sull'abolizione del vitalizio ai parlamentari condannati pare essere stato annacquato dall'ennesimo (vergognoso) accordo sottobanco fra partiti, tanto che oggi il presidente del Senato Pietro Grasso dichiara " Avrei voluto di più, ma ci vuole il consenso". Questo sappiamo: che anche ieri, aldilà delle dichiarazioni di facciata, nel parlamento italiano è  mancato il consenso per agire con decisione su una legge vergognosa. Vergogna!

Enrico Belinguer così diceva nella celebre intervista a E. Scalfari, pubblicata da La repubblica il 28 luglio 1981: "(...) I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss".(...)"

Di ieri la denuncia di Roberto Saviano: "Gomorra è nelle liste di Vincenzo De Luca. La lotta alla mafia non è una priorità di Matteo Renzi. (...) Nel Pd e nelle liste c’è tutto il sistema di Gomorra, indipendentemente se ci sono o meno le volontà dei boss. Il Pd nel Sud Italia non ha avuto alcuna intenzione di interrompere una tradizione consolidata. Il Pd non sta facendo la battaglia promessa. Ha creduto che utilizzare le figure di Grasso o di Cantone fosse la garanzia di un’immagine diversa. Ed è questo che Renzi vuole: un’immagine diversa. Sicuramente c’è una parte di mondo del Pd in prima linea contro le mafie, ma questo governo ha fatto poco contro le mafie".

 Fonte HUFFINGTON POST

Roberto Saviano: "Gomorra è nelle liste di Vincenzo De Luca. La lotta alla mafia non è una priorità di Matteo Renzi"

Roberto Saviano, cinque anni fa fu De Luca ad accusare Caldoro di avere in casa i casalesi. Ora i termini si sono ribaltati?
Le liste di De Luca non sono affatto liste con nomi nuovi e in nessun caso trasformano il modo di fare politica in Campania. Direi che ricalcano le solite vecchie logiche di clientele. E non c’è niente da fare. E' sempre stato questo e questo sarà: le liste si fanno su chi è in grado di portare pacchetti di voti.
Vedendo le liste elettorali a sostegno di De Luca, direi che il caso più imbarazzante è quello di Enrico Maria Natale. Che cosa rappresenta a Casal di Principe la sua famiglia?
È certamente quello di Natale il nome più eclatante perché la sua famiglia è stata più volte accusata di essere in continuità con la famiglia Schiavone. Negli anni Novanta hanno avuto un ruolo nel mondo dell’imprenditoria grigia. Questa candidatura a dimostrazione che De Luca non sta affatto cambiando il modo di fare politica in Campania.

E poi ci sono gli uomini di Cosentino che puntano sul centro-sinistra.
Gli uomini di Cosentino che puntano al centrosinistra per vendetta contro Caldoro ci sono sempre stati. Cosentino ha sempre considerato Caldoro uno dei responsabili della sua messa in crisi nel partito e quindi c’è sempre stato questo flusso apparentemente contrario a ogni logica. Nicola Turco ad esempio è un fedelissimo di Cosentino, ora sua moglie è candidata e ha dichiarato apertamente in un'intervista a Concita Sannino che "De Luca non è di sinistra, non ha nulla di sinistra…". E quindi ci sta bene. Pure la Criscuolo era legata a Cosentino e Scajola. Insomma c’è di tutto.

Insomma c’è di tutto.
Sì, pure Aveta, uno che si è sempre dichiarato neo-fascista.

Te lo chiedo senza tanti giri di parole: nelle liste del Pd e della coalizione che sostiene De Luca c’è Gomorra?
Ti rispondo senza giri di parole: assolutamente sì. Nel Pd e nelle liste c’è tutto il sistema di Gomorra, indipendentemente se ci sono o meno le volontà dei boss. Il Pd nel Sud Italia non ha avuto alcuna intenzione di interrompere una tradizione consolidata. E cioè alla politica ci si rivolge per ottenere diritti: il lavoro, un posto in ospedale… Il diritto non esiste. Il diritto si ottiene mediando: io ti do il voto, in cambio ricevo un diritto. Il politico non dà visioni, prospettive, percorsi, ma dà opportunità in cambio di consenso. E De Luca, in questo, è uno che ci sa fare. La politica dovrebbe essere tutt’altro. Dovrebbe ottenere consenso in cambio di trasformazioni complesse e complessive della società. Invece dando il proprio voto l'elettore rinuncia a chiedere progetto e trasformazione in cambio di una e una sola cosa.

Tu hai fatto un elenco di nomi e hai detto che il sistema Gomorra è anche nel centrosinistra. Significa, facendo il passaggio successivo, che non serve aspettare i processi per dire che con certe persone non si può neanche prendere il caffè al bar.
Al di là delle condanne e delle manette che sono altra cosa e mi interessa meno, non avendo mai avuto l’ossessione manettara di tanta parte del giornalismo italiano, lì si tratta proprio di opportunità politica. De Luca ha capito che per vincere deve portare clientele, attraverso persone modeste, senza visione e deve togliere le clientele a Caldoro. Ecco: la guerra che si stanno facendo Caldoro e De Luca è tutta qui, sulle clientele, ed è per questo che De Luca ha avuto bisogno di De Mita. Non c’è bisogno di andare in questura per dire che le persone di cui abbiamo parlato, a Casal di Principe e non solo, sono incandidabili se appartieni a un partito che dice, o meglio millanta, di trasformare. Non scherziamo. Ora: De Luca sa benissimo che sono impresentabili e forse, dopo questi articoli, farà la mossa di toglierne qualcuno ma non può fare a meno del voto di scambio.

Potremmo proseguire con altri nomi, come gli ex responsabili del governo Berlusconi a sostegno di De Luca: Iannaccone, Cesario o Pisacane che ha candidato la moglie. O l’ex mastelliano Barbato. Ma vorrei fare con te un ragionamento di fondo. Si può dire che siamo oltre il trasformismo? Qui stiamo di fronte a un blocco di potere e interessi che si lega allo schieramento finora alternativo, determinandone la mutazione genetica.
Secondo me la triste verità è che non si sposta nulla, resta tutto identico dove è sempre stato. Cambiano gli orientamenti ma tutto resta sempre lì, fermo, immobile. Il trasformismo nasce come una opportunità per chi fa politica, per fare cassa, ma non è solo un fatto economico. La tradizione meridionale, in questo senso, è tipica: il primo figlio fa il medico, quindi ha un ruolo importante; il secondo, che deve difendere gli affari di famiglia, fa l’avvocato; il più incapace il politico. È sempre stato così, nella tradizione meridionale. Ma il riciclo del ceto politico nasce non semplicemente dalla volontà delle persone, ma anche dalla volontà degli elettori. Può sembrare paradossale ma è così. L’elettore meridionale medio non ne vuole sapere di un politico nuovo che magari ha progetti e idee. Vuole il vecchio che gli garantisca il posto di lavoro, il posto alla nonna all’ospedale, la mensa, l’asilo, quello che ti dà di volta in volta il favore, in cambio del voto. Quindi l’elettorato non si fida del nuovo e preferisce il vecchio che vede come garanzia. Da qui nascono i nomi che abbiamo detto. Un vecchio arnese della politica garantisce favori più di un nuovo politico con idee e progetti che spesso nessuno gli farà realizzare.

E da qui l’allarme che lanciasti alle primarie.
Lanciai l’allarme perché sapevo che sarebbe successo questo. Dissi: non legittimate politici che hanno già in mente come vincere e come posizionarsi. E quindi l’invito a non votare era l’invito a non legittimare questo sistema. Le primarie non si sono svolte con una competizione su argomenti: tutti ci raccontavano la stessa storia, non era una questione di contenuti, erano solo una battaglia tra le fazioni e tra le clientele di uno e dell’altro.

Una volta il Pci era il partito della lotta alla mafia, il Pci di La Torre, il Pci che selezionava la propria classe dirigente prima che arrivasse la magistratura. Ora questo Pd cosa è?
Il Pd non sta facendo la battaglia promessa. Ha creduto che utilizzare le figure di Grasso o di Cantone fosse la garanzia di un’immagine diversa. Ed è questo che Renzi vuole: un’immagine diversa. Sicuramente c’è una parte di mondo del Pd in prima linea contro le mafie, ma questo governo ha fatto poco contro le mafie. In un certo senso si è trovato in una congiuntura anche positiva: non ci sono stragi o faide mafiose e quindi l’opinione pubblica non chiede a questo governo di rispondere con urgenza. Ma davvero non c’è stata una mossa vera per contrastare il riciclaggio, per contrastare la presenza endemica della mafia nelle banche o negli appalti. Questo Pd non ha un’anima che sente come una priorità l’antimafia. Ovviamente non mi sentirei di dire che stiamo parlando di collusioni come succedeva in Forza Italia, però da qui a considerarsi, appunto, un partito antimafia… ce ne passa. Anche la vicenda De Luca, lo dimostra.

Andiamo dritti alla narrazione renziana cui accennavi. Uno dei simboli è Cantone, magistrato di punta nelle inchieste sui casalesi, ora molto esposto col governo sulla terreno della lotta alla corruzione. Cantone da un lato e queste liste dall’altro. Come leggi questa fotografia?
Cantone aveva avuto un rapporto già con Enrico Letta poi con Renzi, quindi ha chiara la visione della situazione. La fotografia la spiego così: sembra esserci molta prudenza da parte del governo e da parte di Cantone, che è un amico, a prendere posizione. È come se tutti fossero in attesa di essere nel prossimo governo eletto dal popolo. Uso una metafora: oggi ci dobbiamo fare incudine e ci dobbiamo stare, domani quando saremo martello batteremo. Ho molto questa sensazione, si preferisce intervenire su De Gennaro, difendendolo, piuttosto che sulla vicenda Campania, che è un dramma incredibile. È come se ci fosse una specie di compromesso. In questo momento noi non possiamo agire perché il rischio di perdere e di farci male sarebbe troppo, quindi glissiamo e aspettiamo quando ci si darà il potere vero, con un governo eletto. Credo che Renzi speri in cuor suo che vinca Caldoro così da risolvergli il problema De Luca. Il grande rimosso del governo è il Sud Italia.

In conclusione: chi votare in Campania? Alle primarie dicesti: non partecipate. Lo dici anche oggi sperando che l’indignazione civica si esprima con l’astensionismo?
Non votare alle primarie aveva senso per mostrare che le primarie erano una competizione farlocca. Alle elezioni bisogna andare e prendere parte. Mi sento di dire che ognuno scelga nel migliore dei modi tra Cinque Stelle, Sel, Pd, Caldoro. Ormai la Campania è in una situazione drammatica. Si sta anche spostando l’attenzione mediatica e la narrazione che sta vincendo è quella cui ha contribuito anche De Magistris: chi racconta le cose sta in qualche modo diffamando e si deve parlare solo di cose belle, come il Maschio Angioino, la musica, l’arte. Ma queste bellezze non sono merito del sindaco, non sono merito di coloro che mi spingono a celebrarle. Ecco, anche questa narrazione ha contribuito a costruire la classe dirigente che strozza Napoli e la città è affogata tra l’estremismo di una minoranza ricca che almanacca su impossibili rivoluzioni e palingenesi e una piccola borghesia spesso compromessa e corrotta. In mezzo la parte maggiore onesta e assediata che un po' spera un po' subisce, un po' sta a guardare per capire se vince il toro o il torero. Penso che l’unico che potrebbe oggi descrivere la situazione se ne è andato qualche tempo fa e mi manca molto: Franco Rosi.

mercoledì 17 ottobre 2012

Yvan Sagnet. L'eroe qualunque, il ragazzo africano che si è ribellato ai "caporali" del Sud



Quando gli stranieri ci insegnano le regole della democrazia: rischiare la vita per una democrazia diversa. Una battaglia che molti italiani hanno rinunciato a combattere. 
Accadde già con Anne Marie Tsagueu, la  donna che ebbe il coraggio di testimoniare contro gli agenti nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Federico Aldrovandi, sebbene all'epoca fosse una "clandestina"


Fonte : LA Repubblica
di ROBERTO SAVIANO
L'eroe qualunque, il ragazzo africano che si è ribellato ai "caporali" del Sud
la copertina del libro
Yvan Sagnet arriva dal Camerun anche grazie alla passione per il calcio. Ma scopre il lato peggiore dell'Italia. La sua storia è diventata un libro che racconta la rivolta contro lo sfruttamento dei migranti nelle campagne pugliesi. http://www.migrantitorino.it/?p=16753
 QUESTA è una storia d'amore nata per caso tra un bambino e un Paese, la racconta Yvan Sagnet nel suo libro Ama il tuo sogno (Fandango). Il bambino è Yvan che nel 1990 aveva 5 anni e il Paese è l'Italia. È una storia d'amore che parte dal calcio. Yvan è nato Douala, in Camerun, nel 1985 e nel 1990, come molti bambini camerunensi, visse la cavalcata trionfale dei Leoni d'Africa nel mondiale, dalla prima partita con l'Argentina di Maradona fino ai quarti di finale contro l'Inghilterra. Napoli, domenica primo luglio. Ancora oggi chi c'era ricorda i tifosi del Camerun, coloratissimi, sportivi e con l'espressione di chi non poteva credere a ciò che stava accadendo. 
Essere arrivati fino a lì aveva del miracoloso: il Camerun era la prima squadra africana a raggiungere i quarti di finale in Coppa del Mondo. E Napoli, dove si svolse la partita, tifò con loro sperando nel miracolo. La partita fu incredibile, con il Camerun in vantaggio per 2-1 fino a otto minuti dal termine dei tempi regolamentari. Poi il primo rigore all'Inghilterra, i supplementari, il secondo rigore e la sconfitta. A Yvan quella partita ha cambiato la vita. Il ricordo del rientro in patria della nazionale, che pur non avendo vinto il mondiale aveva ottenuto il rispetto di tutto il mondo, per Yvan significava una sola cosa: un nuovo sguardo sul suo paese, maggiore attenzione su un Camerun in crisi economica e politica. E questo nuovo sguardo era stato possibile proprio grazie al mondiale e al paese che lo aveva ospitato.A scuola il programma di economia dei licei camerunensi prevedeva lo studio del sistema economico francese, ma lui decise per conto suo di specializzarsi sull'economia italiana. 

Dal calcio all'economia. Yvan impara l'italiano e con un permesso di studio si iscrive all'università di Torino perché vuole diventare ingegnere. Finalmente può conoscere dal vivo il calcio italiano che ha amato da bambino. Tifa Juventus ma la prima partita dal vivo della sua vita la vede di spalle, come steward, allo stadio. Sono i primi di luglio del 2011 e i soldi della borsa di studio non bastano. Alcuni amici di Torino gli dicono che al Sud si può andare a lavorare per la raccolta del pomodoro perché serve manodopera. Così Yvan decide di trasferirsi nelle campagne salentine, a Nardò, dove sa di una masseria che accoglie i braccianti che fanno la stagione, togliendoli dalla strada, dove spesso dormono accampati sotto gli alberi, dentro case di cartone, senza acqua né corrente elettrica. Eppure anche alla Masseria Boncuri, nonostante l'impegno di tante associazioni di volontariato, la longa manus dei caporali detta le sue leggi.

   Appena arrivati, i caporali requisiscono i documenti ai braccianti e li usano per procurarsi altra mano d'opera, altri immigrati, ma clandestini. Il rischio che i documenti vadano persi è altissimo e quando accade i braccianti diventano schiavi. Le condizioni di lavoro sono agghiaccianti: diciotto ore consecutive, di cui molte sotto il sole cocente. Chi sviene non è assistito e se vuole raggiungere l'ospedale deve pagare il trasporto ai caporali. Il guadagno è di appena 3,5 euro a cassone, un cassone è da tre quintali e per riempirlo ci vuole molto tempo, ore. Si lavora con questi ritmi anche durante il Ramadan, quando molti lavoratori di religione islamica non bevono e non mangiano. In Italia la disoccupazione è una piaga che sembra insanabile. Eppure questi ragazzi trovano lavoro, trovano un lavoro a condizioni inaccettabili per quasi la totalità dei disoccupati italiani.
Si crede che i ragazzi africani siano abituati a una vita di disumanità, sporcizia, alloggi immondi e quindi questa attitudine alla suburra la sopportino in Italia perché medesima nel loro paese. 
Nulla di più falso. Yvan scrive: "Mentre nel mio paese la dignità è sacra, a tutti livelli della scala sociale, il sistema dei campi di lavoro (in Italia, ndr) è appositamente studiato per togliere ai braccianti anche l'ultimo scampolo di umanità". Ma accade qualcosa che i caporali non hanno previsto. I braccianti in genere strappano le piantine alla radice per batterle sulle cassette così che i pomodori cadono tutti. Ma quel giorno il caporale impone un altro metodo. Servono pomodori da vendere ai supermercati per le insalate, quindi devono essere presi e selezionati uno a uno. Si tratta di riempire gli stessi cassoni di sempre, ma selezionare i pomodori significa raddoppiare la fatica. Il caporale impone tutto questo lavoro allo stesso prezzo: Yvan e gli altri braccianti non trovano alternative, si sollevano. È l'inizio della rivolta e Masseria Boncuri ne diventerà il simbolo con l'enorme striscione "Ingaggiami contro il lavoro nero". Ma lo sciopero non è facile da gestire soprattutto perché è quasi impossibile comunicare tra i diversi gruppi etnici. Gli unici a esprimersi facilmente in italiano sono i tunisini; per altri (bukinabé, togolesi, ivoriani, ghanesi, nigeriani, etiopi, somali) è necessario parlare in inglese e francese; altri capiscono solo la lingua araba. Eppure, nonostante le diversità, lo sciopero continua: tante culture e tante visioni della lotta hanno finito per essere non la debolezza ma la forza della protesta, che a un anno e mezzo da quella di Rosarno, è più organizzata e riesce a guadagnare un'eco nazionale.
Gli italiani sembrano prendere finalmente coscienza delle condizioni difficili di chi lavora nei campi e le istituzioni sono costrette ad ammettere che il problema caporalato esiste.

La magistratura trova la forza per continuare le indagini già in corso, spesso protette da omertà e scarsa collaborazione, e a maggio 2012 i carabinieri del Ros arrestano 16 persone  -  presunti caporali e imprenditori agricoli  -  nell'ambito dell'operazione "Sabr" che ha colpito un'organizzazione criminale attiva tra Rosarno, Nardò e altre città della Puglia. Ma la reazione alla rivolta, allo sciopero, al clamore mediatico, all'inchiesta della magistratura e agli arresti, non si fa attendere. Alessandro Leogrande (autore peraltro di un importante reportage Uomini e caporali sui desaparecidos polacchi nel triangolo del pomodoro vicino Foggia) nell'intervista finale che accompagna il libro di Yvan Sagnet, svela che c'è un piano per uccidere Yvan e lo hanno ordito alcuni caporali tunisini che ancora operano a Nardò. 
La vita del primo leader nero italiano è, oggi, seriamente in pericolo. 
Quello che sento di poter fare con queste righe è non lasciarlo solo. Senza il suo impegno, senza questo ragazzo africano e gli altri che hanno lottato con lui, non esisterebbe la legge contro il caporalato, eppure i caporali esistono al Sud da più di un secolo. 
La speranza del mezzogiorno italiano sta proprio in questa parte d'Africa che arrivata al Sud, trasforma il Sud e rimette in gioco interi territori, migliorandoli.
Rischia la vita per una democrazia diversa, una battaglia che molti italiani hanno rinunciato a combattere