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giovedì 26 luglio 2018

RITA ATRIA - testimone di giustizia- il cambiamento e la speranza

RITA  ATRIA
TESTIMONE DI GIUSTIZIA
 "(...) Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. (...)".


Il contributo di Rita Atria alla lotta culturale contro le mafie è essenziale perché Rita Atria aiuta a comprende "la verità" su uno dei drammi che segnano ancora oggi la storia del nostro paese.
Quando ci chiediamo cosa sono le mafie la risposta più semplice, essenziale, la troviamo “facendo memoria” delle parole scritte da Paolo Borsellino la mattina del 19 luglio 1992, rispondendo alla lettera che gli era giunta da parte di una preside, poche ore prima di essere ucciso insieme agli agenti della sua scorta: “(…) La mafia è essenzialmente ingiustizia.(...)”
Ma provando a rispondere a quella domanda (cos'è la mafia?) dobbiamo “fare memoria” di un altro “pezzo di verità” che emerge proprio dalla storia di questa ragazzina siciliana, divenuta testimone di giustizia grazie all'esempio della cognata Piera Aiello e dal loro incontro col giudice Paolo Borsellino. Nelle ore che seguirono la strage di Via D'Amelio, la morte dello “zio Paolo”, Rita Atria scrive nel suo diario il “pezzo di verità” dinanzi alla quale tutti siamo chiamati a confrontarci: “(...) Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, perché la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi.
Ma l'insegnamento di Rita Atria è strettamente legato alla “presa di coscienza” e alla volontà di cambiamento che la sua stessa vita esprimono. Lo avevamo scritto sette anni or sono quando avevamo scelto di dedicare il nostro impegno alla sua figura: pur essendo nata in una famiglia mafiosa,  Rita Atria scelse di denunciare per tentare di “cambiare” il mondo nel quale era nata e che la soffocava (….) Il valore del messaggio contenuto nelle parole di Rita Atria, la sua figura di “giovane donna”, ci paiono anche rispecchiare la speranza di cambiamento che leghiamo all'immagine della componente femminile della nostra società, della donna.
Volendo sostenere la prova di maturità nel luglio del 1992, poche settimane dopo la strage di Capaci, Rita dimostra di essere una ragazza-donna forte, presente e partecipe del momento storico che vive,nonostante i drammi della sua vita personale. Le sue riflessioni sulle conseguenze immediate che l'uccisione di Giovanni Falcone potrà produrre nella lotta alle mafie sono analisi lucide e profonde: le ritrattazioni, le misure necessarie per sostenere coloro che vorrebbero denunciare i mafiosi; la debolezza organizzativa e di mezzi che palesa lo stato italiano nella lotta alle mafie. E poi, sempre nel suo tema di maturità, l'appello, le parole rivolte ai ragazzi e alle ragazze che, come lei, vivevano in “famiglie mafiose”: (...) L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.
Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo".
Piera Aiello
Rita vive la sua vita con coraggio e forza, rivolgendo sempre lo sguardo fuori da sé; vive sino all'ultima speranza, speranza riposta nella vita stessa dell'uomo in cui Lei stessa e l'Italia onesta si riconoscevano: Paolo Borsellino. Ma Rita Atria continua a vivere accanto alle tante vite di tanti, primi fra tutto lo “zio Paolo”, Paolo Borsellino, e Giovani Falcone.
Piera Aiello è stata eletta deputata nelle ultime elezioni politiche e siede nel Parlamento Italiano: dopo lunghi anni di anonimato, vissuti sotto protezione in una località segreta, sotto,  ha potuto riavere il suo vero nome, mostrare finalmente il suo volto (leggi qui)




                   (...) la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi.
Il nostro modo sbagliato di comportarci, l'ottenere quello che non ci meritiamo, costituisce quello che noi del presidio LIBERA “Rita Atria” Pinerolo abbiamo definito come “pensiero mafioso”: l'ingiustizia piccola o grande commessa ai danni di qualcun altro per per trarne qualche beneficio immeritato. Si tratta di un meccanismo semplice, primitivo ma efficacissimo in un “sistema malato” quale quello italiano, soggiogato da mafie e corruzione. Talmente efficace, quel “pensiero”, che da tempo viene utilizzato anche da coloro che “mafiosi” in senso stretto non sono e non possono essere definiti.
Fare memoria di Rita Atria per noi del presidio LIBERA “Rita Atria” Pinerolo non significa commemorare la morte della ragazzina siciliana quanto rispondere  e rendere concreto l'insegnamento della sua vita, agendo per liberarci, noi per primi, dal "pensiero mafioso", cercando poi di riconoscerlo e contrastarlo negli atti della vita quotidiana. Perche, come diciamo spesso, se è vero che pochi di noi avranno la ventura di trovarsi dinanzi ad un mafioso propriamente detto, tutti noi -quotidianamente- ci scontriamo col “pensiero mafioso”.
La domanda essenziale, la traccia che lega i momenti e gli atti del nostro impegno diviene pertanto la seguente: "Come provare ad essere “sentinelle”, contro mafie e pensiero mafioso, nella nostra comunità? Cosa cambia per una comunità se ad usare il “pensiero mafioso” è un mafioso propriamente detto oppure uno (o un gruppo!) che persegue gli stessi obiettivi, per ottenere ciò che non si merita?
Questo, a nostro parere, il significato della vita di Rita Atria, questo l'impegno del presidio LIBERA "Rita Atria" Pinerolo
Rita Atria
Il giorno dopo la strage di via D'Amelio, Rita scrive nel suo diario nel diario le parole che costituiscono il suo testamento spirituale, parole che da allora -come abbiamo spesso detto- si impongono alla riflessione di ognuno: "(…)Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita …Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta. " 
Nonostante l'affetto e la vicinanza di Piera Aiello, con Paolo Borsellino muore anche “la speranza" del cambiamento possibile che Rita Atria aveva riposto nel giudice. "Un'altra delle mie stelle è volata via., me l'hanno strappata dal cuore". Queste sono le parole che Rita confiderà singhiozzando a Piera, dopo aver appreso della morte del giudice e degli agenti della sua scorta, le parole riportate dal Piera Aiello nel suo libro "Maledetta mafia"
Sabato 25 luglio 1992. Rita aveva deciso di restare a Roma e non seguire Piera Aiello che ha bisogno di andare in Sicilia: tornare per rivedere la madre e cercare di attenuare in qualche modo l'angoscia della morte dello "zio paolo". All'aeroporto, improvvisamente, Rita dice a Piera:  "Io non parto".  E ritorna nella casa di Via Amelia, nel quartiere Tuscolano.

Domenica 26 luglio 1992, la domenica successiva alla strage di via D'Amelio. In quel pomeriggio Rita si lascia cadere, lascia cadere l'ultima speranza, dal balcone dell'appartamento di Via Amelia regalando per sempre la sua vita a noi.


Tema di maturità di Rita Atria
Titolo
"La morte del giudice Falcone ripropone in termini drammatici il problema della mafia. Il candidato esprima le sue idee sul fenomeno e sui possibili rimedi per eliminare tale piaga".
Svolgimento
"La morte di una qualsiasi altra persona sarebbe apparsa scontata davanti ai nostri occhi, saremmo rimasti quasi impassibili davanti a quel fenomeno naturale che è la morte del giudice Falcone, per chi aveva riposto in lui fiducia, speranza, la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto, era un esempio di grandissimo coraggio, un esempio da seguire. Con lui è morta l'immagine dell'uomo che combatteva con armi lecite contro chi ti colpisce alle spalle, ti pugnala e ne è fiero. 
Mi chiedo per quanto tempo ancora si parlerà della sua morte, forse un mese, un anno, ma in tutto questo tempo solo pochi avranno la forza di continuare a lottare. Giudici, magistrati, collaboratori della giustizia, pentiti di mafia, oggi più che mai hanno paura, perché sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno se parlano troppo potrà salvarli da qualcosa che chiamano mafia.
 Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un'immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare. Ascoltiamo, vediamo, facciamo ciò che ci comandano, alcuni per soldi, altri per paura, magari perché tuo padre volgarmente parlando è un boss e tu come lui sarai il capo di una grande organizzazione, il capo di uomini che basterà che tu schiocchi un dito e faranno ciò che vorrai.
Ti serviranno, ti aiuteranno a fare soldi senza tener conto di nulla e di niente, non esiste in loro cuore, e tanto meno anima. La loro vera madre è la mafia, un modo di essere comprensibile a pochi. Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. 
I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c'e chi ha paura come Contorno, che accusa la giustizia di dargli poca protezione. Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per rassicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un'altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.
L'unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.
Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.
Rita Atria
Erice 5 giugno 1992

lunedì 5 marzo 2018

Piera Aiello, testimone di giustizia è stata eletta in Parlamento!

Ogni volta che raccontiamo la storia di Rita Atria, testimone di giustizia, sottolineiamo il fatto che la storia di Rita molto probabilmente non sarebbe stata quella che conosciamo se non ci fosse stato l'esempio di Piera Aiello,  anche Lei -e prima di Rita- testimone di giustizia per aver denunciato gli assassini di suo marito Nicola Atria, il fratello maggiore di Rita. 
Ogni volta che raccontiamo quella storia diciamo che di Piera Aiello non possiamo mostrare il volto perchè, ancora oggi, per motivi di sicurezza Piera Aiello vive sotto protezione, in una località segreta e con false generalità.
Quando l'abbiamo conosciuta, confidò che il suo sogno era quello di potere riavere il suo nome vero. Oggi quel sogno si avvera perché Piera Aiello è stata eletta deputata al Parlamento, proprio nella terra dell’ultimo padrino di mafia latitante, Matteo Messina Denaro: nel collegio uninominale di Marsala, nel Trapanese, Piera Aiello ha raccolto oltre il 51 per cento delle preferenze.
Anche da parte del presidio LIBERA "Rita Atria" Pinerolo, un abbraccio, complimenti all'Onorevole Piera Aiello e auguri di buon lavoro a servizio del bene lungimirante del nostro Paese.

Piera Aiello con una fotografia di Rita Atria
  

Sicilia, Piera Aiello eletta con il M5S Stravince la candidata «senza volto»

Testimone di giustizia nella terra di Messina Denaro si afferma con il 51% delle preferenze, raccolte proprio nella terra del padrino mafioso latitanteIl M5S stravince in Sicilia e porta in Parlamento anche Piera Aiello, candidata che fa il pieno di nonostante in campagna elettorale non si sia mai potuta esporre mettendoci la faccia, nel senso letterale dell’espressione. Negli incontri pubblici parlava senza mostrare il suo volto, e la sua foto non era nemmeno sui fac-simile delle schede elettorali e i “santini” per la propaganda: solo il nome, accanto al simbolo del Movimento. Piera Aiello ha sempre dovuto nascondere il suo volto per ragioni di sicurezza, perché è stata testimone di giustizia nella terra dell’ultimo padrino di mafia latitante, Matteo Messina Denaro. Ed è proprio in quelle zone, precisamente nel collegio uninominale di Marsala, nel Trapanese, che è stata eletta, raccogliendo oltre il 51 per cento delle preferenze e distaccando di 20 punti Tiziana Pugliese di Forza Italia e l’uscente Pamela Orrù del centro sinistra, ferma al 13,5 per cento. 

Nuora di un boss.

Rita Atria

Piera Aiello, vedova del figlio di un boss e cognata della collaboratrice di giustizia Rita Atria, morta suicida, si è ribellata alla mafia denunciandone traffici, affari e delitti dopo l’omicidio del marito. «Mi sono ritrovata a essere testimone di giustizia quasi per caso», ha raccontato, «quando ho iniziato a parlare con il capitano dei carabinieri di Montevago, il paese dove vivevo, un far west». Poi c’è stato l’incontro con Paolo Borsellino, e la decisione del magistrato di tutelarla facendola trasferire lontano dalla Sicilia, con la sua bambina. La testimone di giustizia ha vissuto immersa nell’anonimato, in una località protetta, per 26 anni. Della sua storia, raccontata anche nel libro «Maledetta mafia» scritto con il giornalista Umberto Lucentini, si è occupato anche The Guardian e molte tv nazionali. Ora Piera Aiello potrà mostrarsi in Parlamento, e il suo volto piano piano diverrà noto, ma le misure di sicurezza resteranno alte.


mercoledì 6 febbraio 2013

TESTIMONI DI GIUSTIZIA. Perché? Come e quando lo Stato li ha scaricati?

(...) vivono ai margini, dimenticati da tutti e col rischio che la malavita possa colpirli in ogni momento. Perché? Come e quando lo Stato li ha scaricati? 

Ignazio Cutrò
Per difendere i 78 testimoni di giustizia italiani, proprio in questi giorni (il 4 febbraio) è nata una nuova associazione nazionale "Testimoni di giustizia" presieduta da Ignazio Cutrò, l'imprenditore siciliano, Pietro Di Costa, imprenditore di Tropea, titolare dell'istituto di vigilanza Sycurpol, pure lui nome noto tra le vittime del racket, affiancherà alla presidenza dell'associazione Cutrò, così come Pietra Aiello, collaboratrice del giudice Borsellino, che di "Testimoni di giustizia" sarà la segretaria.

FONTE : LA REPUBBLICA

In fuga perenne dalla propria vita. 
Soli e dimenticati i testimoni di giustizia

Sono 78 persone che, con le loro testimonianze hanno inchiodato pericolosi criminali legati alla malavita organizzata. Ma quando i processi finiscono lo Stato tende ad abbandonarli a se stessi. E, in periodo di crisi e di spending review, è anche peggio. C'è chi va avanti a fatica, chi ha paura e chi si è ridotto a vivere da clochard. Ora nasce un'associazione per difenderli


ROMA - "Abbiamo assistito a un omicidio di malavita a Crotone: due uomini (zio e nipote) furono trucidati in strada davanti ai nostri occhi. Era il 1992. Io e mia sorella siamo andate a testimoniare, sapevamo molte cose dei mandanti, appartenenti a una pericolosissima 'ndrina. Gli assassini e i boss che li avevano ingaggiati per quel delitto sono finiti in carcere a vita, noi abbiamo testimoniato fino in Cassazione. Avevano detto che ci avrebbero acquistato casa, aiutato a trovare un lavoro. Invece dopo quattro anni ci hanno lasciato sole, con in mano solo dei finti documenti. Insieme alla nostra identità abbiamo perso la nostra vita". Giuliana e Maria sono due sorelle, due "testimoni di giustizia", così le ha bollate lo Stato con la legge del 2001. Due donne che hanno avuto il coraggio di mandare in carcere boss, pezzi grossi della malavita calabrese e che oggi sono completamente sole, abbandonate dalle istituzioni, tagliate fuori dalla società. Non sono le sole. Più della metà dei testimoni di giustizia italiani, a processi chiusi, si sono ritrovati nella stessa situazione. E ora vivono ai margini, dimenticati da tutti e col rischio che la malavita possa colpirli in ogni momento. Perché? Come e quando lo Stato li ha scaricati? Quanti sono i testimoni di giustizia in Italia che oggi si trovano nello stesso incubo di Giuliana e Maria?

I testimoni di giustizia. In Italia sono 78 in tutto i testimoni di giustizia: persone la cui testimonianza nelle aule dei tribunali è stata fondamentale per inchiodare il gotha della criminalità italiana. Uomini e donne che hanno scelto di far prevalere il senso di giustizia su tutto. Individui che per aver creduto nella magistratura e nello Stato hanno rinunciato alla loro città, alle loro amicizie, alla loro normalità. E ora, come se il prezzo pagato per quella scelta non fosse stato già abbastanza salato, quelle istituzioni alle quali si sono votati gli hanno girato le spalle. "Ci hanno detto: "lo Stato non vi può più mantenere, gli italiani non possono più pagare per voi.  -  prosegue la calabrese Giuliana  -  Se avessi saputo come sarebbero andate a finire le cose, mi sarei alleata con la mafia: loro almeno continuano a mantenere le famiglie di chi è in carcere". Parole dure, parole amare quelle di Giuliana, che ora vive in un paesino del centro Italia, senza la sua vera identità, senza una protezione, senza mezzi di sostentamento, tanto che da qualche settimana è senza elettricità nel suo piccolo appartamento perché da mesi ha smesso di pagare le bollette.

Vita di clochard. Gaetano fu il testimone chiave nel maxi processo che inchiodò boss calabresi che avevano messo le mani sugli appalti per la costruzione delle autostrade nel sud. Un giro di tangenti milionario che impediva a qualsiasi ditta non collusa con l'organizzazione di avvicinarsi alla costruzione delle strade nel meridione. Da quattro anni vive in mezzo a una strada. Il ministero dell'Interno lo ha liquidato offrendogli un camper: questo il riconoscimento in cambio del suo sacrificio. "Avrebbero dovuto darmi il corrispettivo del valore del mio appartamento, visto che sono stato costretto a lasciare la mia città. Mentre il processo era in corso sono stato ospitato in un alloggio messo a disposizione dallo stato e poi... "Poi un giorno arriverà il tuo risarcimento economico", mi hanno promesso. Nel frattempo grazie a una colletta di alcuni poliziotti mi è stato dato un camper dove dormo. E quando, qualche giorno fa, il controllore del treno mi ha trovato senza biglietto e mi ha multato ho detto: "quando avrò il mio risarcimento dallo Stato giuro che pagherò la multa"".

La spending review. La spending review, da due anni a questa parte, ha tagliato via via tutti gli indennizzi destinati destinati ai testimoni di giustizia, "in barba ai proclami anti mafia di cui tutta la politica italiana si riempie la bocca", denuncia Antonio Turri, presidente dell'associazione "I cittadini contro le mafie e la corruzione". Prosegue: "più della metà dei 78 testimoni di giustizia non ha più la protezione e le garanzie che lo Stato gli aveva promesso prima che iniziassero i processi. La lotta alle organizzazioni malavitose si fa soprattutto con i testimoni, ma con politiche di tagli di questo tipo non si fa altro che disincentivare la collaborazione. Gente con la vita rovinata è ora caduta nel baratro, completamente sola. E tutto per aver creduto in valori e in una solidarietà che nel nostro paese, a differenza di tutto il resto d'Europa dove sono previsti degli indennizzi, non esiste. Allora mi chiedo: chi da oggi, a fronte di questa situazione, affiderà per senso di giustizia la propria vita nelle mani dello Stato? È con congressi e proclami che si intende sconfiggere le mafie?". 

L'associazione. Per difendere i 78 testimoni di giustizia italiani, proprio in questi giorni (il 4 febbraio) è nata una nuova associazione nazionale "Testimoni di giustizia" presieduta da Ignazio Cutrò, l'imprenditore siciliano sottoposto a un programma speciale di protezione per aver denunciato i suoi estorsori che per sette anni lo torturarono con intimidazioni e minacce di ogni tipo per non essersi piegato alla legge del pizzo. Fu a seguito della sua denuncia e della sua testimonianza che venne avviata l'operazione "Face off" nella quale arrestarono i fratelli Luigi, Marcello e Maurizio Panepinto, condannati nel 2011 a un totale di 66 anni e mezzo di carcere. Il suo destino è diverso da quello degli altri testimoni di giustizia: nel 2012 infatti, grazie all'intervento della Regione Sicilia riprese la propria attività imprenditoriale, ottenendo un contratto con il Consorzio per le Autostrade Siciliane e ancora oggi è sotto tutela. Pietro Di Costa, imprenditore di Tropea, titolare dell'istituto di vigilanza Sycurpol, pure lui nome noto tra le vittime del racket, affiancherà alla presidenza dell'associazione Cutrò, così come Pietra Aiello, collaboratrice del giudice Borsellino, che di "Testimoni di giustizia" sarà la segretaria.




martedì 11 dicembre 2012

Ierisera, alla "Fabbrica delle e" Piera Aiello, testimone di giustizia, ha presentato il libro 'Maledetta Mafia', scritto insieme al giornalista Umberto Lucentini.

Abbiamo ascoltato le parole coraggiose di una donna che ha scelto di raccontare la mafia.
Piera Aiello aveva solo 18 anni quando ha sposato Nicolò. Nove giorni dopo il matrimonio, il suocero, Vito Atria, un piccolo mafioso locale, viene assassinato. Nel 1991 la stessa sorte tocca al marito, sotto i suoi occhi.
Il momento di svolta è l'incontro con un uomo che una mattina, scrive Piera: "mi ha preso sottobraccio e mi ha piazzato davanti ad uno specchio, eravamo in una caserma dei Carabinieri". Quell'uomo è Paolo Borsellino.


"Da quando lo "zio Paolo" mi ha piazzato davanti a quello specchio e mi ha ricordato chi ero, da dove venivo e dove sarei dovuta andare, sono diventata una testimone di giustizia. Io non ho mai commesso reati, né sono mai stata complice dei crimini di mio marito e dei suoi amici, gli stessi che poi ho accusato nelle aule dei tribunali e nelle corti d'assise. Quel che è certo è che la mia storia, la mia vita, è stata rivoluzionata dalla morte", compresa la morte di Rita Atria, sua cognata, che a 17 anni decide di ribellarsi al sistema mafioso, ma dopo l'assassinio di Borsellino Rita non riesce a reggere al dolore e si toglie la vita. Rita Atria, come Piera Aiello,  diventano l'esempio del "testimone di giustizia" , figura che sarà introdotta nell'ordinamento giuridico italiano con la legge n. 45 del 13 febbraio 2001 

giovedì 6 dicembre 2012

A Torino, "Fabbrica delle e", la storia di Piera Aiello: "Maledetta mafia"

Senza "la storia" di Piera Aiello forse non ci sarebbe stata "la storia" di Rita Atria. Le loro vite si legano per sempre a quella di Paolo Borsellino



- Paolo Borsellino: " Piera, tu cosa vedi allo specchio?"
- Piera: " Vedo una ragazza con un passato turbolento, un presente inesistente e un futuro con un punto interrregotivo grande quanto il mondo. Che futuro posso avere io?"
- Paolo Borsellino: "io vedo una ragazza che ha avuto un passato turbolento, che però si è ribellata a questo passato che non ha mai accettato. Vedo una ragazza che ha un presente e avrà un futuro pieno di felicità. Non per altro: hai diritto ad avere felicità per tutto quello che stai facendo"

Partanna (Trapani). Piera Aiello ha solo 18 anni quando sposa Nicolò. Nove giorni dopo il matrimonio il suocero, Vito Atria, un piccolo mafioso locale, viene assassinato. Nel 1991 la stessa sorte tocca a Nicolò, sotto gli occhiimpotenti di Piera. Dopo quell'omicidio in Piera scatta qualcosa: "vedova di un mafioso, vestita a lutto come impongono le regole della mia terra, con una bimba di tre anni da crescere e una rabbia immensa nel cuore. In quel momento il destino ha messo un bivio lungo il mio percorso: dovevo scegliere quale futuro dare a mia figlia Vita Maria". Il momento di svolta è l'incontro con un uomo che una mattina, scrive Piera: "mi ha preso sottobraccio e mi ha piazzato davanti ad uno specchio, eravamo in una caserma dei Carabinieri". Quell'uomo è Paolo Borsellino. "Da quando lo "zio Paolo" mi ha piazzato davanti a quello specchio e mi ha ricordato chi ero, da dove venivo e dove sarei dovuta andare, sono diventata una testimone di giustizia. Io non ho mai commesso reati, né sono mai stata complice dei crimini di mio marito e dei suoi amici, gli stessi che poi ho accusato nelle aule dei tribunali e nelle corti d'assise. Quel che è certo è che la mia storia, la mia vita, è stata rivoluzionata dalla morte", compresa la morte di Rita Atria, sua cognata, che a 17 anni decide di ribellarsi al sistema mafioso, ma dopo l'assassinio di Borsellino Rita non riesce a reggere al dolore e si toglie la vita. Rita Atria, come Piera Aiello,  diventano l'esempio del "testimone di giustizia" , figura che sarà introdotta nell'ordinamento giuridico italiano con la legge n. 45 del 13 febbraio 2001 



lunedì 22 ottobre 2012

La rabbia di Piera, testimone di giustizia per orgoglio e per amore


"Piera Aiello, testimone di giustizia, è la cognata di Rita Atria. In questi giorni viene pubblicato il suo libro "Maledetta mafia".
Partanna (Trapani). Piera Aiello ha solo 18 anni quando giorni dopo il matrimonio il suocero, Vito Atria un piccolo mafioso locale, viene assassinato. Nel 1991 la stessa sorte tocca a Nicolò, sotto gli occhi impotenti di Piera. "Dopo quell’omicidio in Piera scatta qualcosa:"come impongono le regole della mia terra, con una bimba di tre anni da crescere e una rabbia immensa nel cuore. In quel momento il destino ha messo un bivio lungo il mio percorso: dovevo scegliere quale futuro dare a mia figlia Vita"

Il momento di svolta è l’incontro con un uomo che una mattina, scrive Piera: "mi ha preso sottobraccio e mi ha piazzato davanti ad uno specchio, eravamo in una caserma dei Carabinieri”. 
Quell’uomo è Paolo Borsellino”."Da quando lo"zio Paolo"mi ha piazzato davanti a quello specchio e mi ha ricordato chi ero, da dove venivo e dove sarei dovuta andare, sono diventata una testimone di giustizia. Io non ho mai commesso reati, né sono mai stata complice dei crimini di mio marito e dei suoi amici, gli stessi che poi ho accusato nelle aule dei tribunali e nelle corti d’assise. Quel che è certo è che la mia storia, la mia vita, è stata rivoluzionata dalla morte”.
La morte: la morte di Paolo Borsellino e  la morte di Rita Atria, sua cognata, che a 17 anni decide di ribellarsi al sistema mafioso, ma dopo l’assassinio di Borsellino non riesce a reggere al dolore e si toglie la vita.
Nonostante tutto Piera continua ad andare avanti, sostenuta da una determinazione incrollabile e dalla
consapevolezza che l’eredità di Falcone, Borsellino e Rita non puo' andare perduta:''Ecco perche' oggi ho due nomi e due cognomi che corrono paralleli, che a volte si incrociano, si sovrappongono, che si respingono e si fondono”.(Fonte: Antimafiaduemila)

 Fonte: Corriere della Sera
La rabbia di Piera testimone di giustizia per orgoglio e per amore

Piera Aiello è una donna coraggiosa. Una donna che ha sempre sfidato le regole non scritte della sua terra. Di quella Sicilia degli anni ’80, in cui la parola “mafioso” poteva essere sinonimo di “paciere”. Una ribelle nei gesti e nelle parole che si “permette” di rispondere a suo suocero, don Vito Atria, che non accetta i tradimenti di quello che diventerà suo marito, Nicola. E si piega al matrimonio per far sì che smettano “gli atti di ritorsione contro di me e la mia famiglia”. Accetta il suo destino. “Penso che vivrò una vita tranquilla, pianificata come quelle di molte altre mie amiche. Invece mi sbaglio”. Così non esita nemmeno un secondo a prendere a calci il fucile per cercare di salvare la vita a Nicola. Un gesto disperato che però non serve a nulla. E quindi sceglie. Non vuole “diventare un vedova di mafia”. Ma decide per lei e la figlia di tre anni una nuova vita. Un percorso che le porta lontano da casa. E che si incrocia con il destino di Paolo Borsellino. Piera diventa la prima testimone di giustizia in Italia. Piera, è una donna che non si è mai arresa. Nemmeno quando lo Stato l’ha “abbandonata”.
Lei, continua a lottare. Ed è per questo che ha scritto il libro, con Umberto Lucentini, “Maledetta Mafia” (edizione SanPaolo, 176 pagine euro12,00). “Ho voluto raccontare la mia vita anche perché vorrei che si continuasse a parlare dei testimoni di giustizia, quei cittadini che hanno scelto di aiutare la magistratura, non per uno sconto di pena. Ma perché abbiamo voluto fare il nostro dovere. E quando non siamo più utili, lo Stato ti butta via come se fossimo un limone spremuto”. C’è tanta rabbia nella sua voce. Amarezza per le “delusioni” che le hanno dato “burocrati e persino carabinieri”. Uomini dell’arma che “per leggerezza hanno rivelato la mia vera identità nel Paese in cui vivo”. Già, Piera ha dovuto cambiare nome, città, vita. Perché “la mafia non dimentica”. E il suo è un segreto da non rivelare. Lei e la figlia Vita Maria, oggi ventenne, potrebbero essere in pericolo.
Ma la frustrazione per uno “Stato assente” è stata ripagata “con la solidarietà della società civile”. Nel libro racconta anche questo. Tutte quelle persone che, in un percorso lungo più di vent’anni, l’hanno sostenuta, aiutata anche rischiando la propria incolumità. Dal dirigente scolastico che accetta di iscrivere la figlia a scuola sotto falso nome (l’identità non le era ancora stata cambiata) a quella vicina di casa che, oggi, sapendo la sua storia la protegge con il suo silenzio
Ma “l’incontro più bello della vita” è stato con Paolo Borsellino. È stato lui, proprio quando  Piera era incerta se continuare o no il percorso di testimone, a metterladavanti a uno specchio” e domandarle: “Cosa vedi?”. Era il 1991, aveva 21 anni. Una figlia di tre. E quella voglia di portare avanti i valori trasmessi dai genitori: “L’onestà, il servizio per gli altri, la correzione dei comportamenti sbagliati”. Il suocero era stato assassinato mentre lei era in viaggio di nozze. Da quel momento il marito non ha fatto altro che pensare alla “vendetta”. E lei non è riuscito a convincerlo. “Vai a denunciare tutto ai carabinieri”, continuava a ripetergli. Non è successo. E lui è stato ucciso. Comincia il suo percorso, appunto, con Borsellino. La segue la cognata Rita, 18 anni. Erano legatissime. Insieme lasciano la Sicilia per Roma. E quando Borsellino viene ucciso, dopo una settimana, questa giovane si butta dalla finestra.
Per Piera è un nuovo dolore. Una ferita che non si rimarginerà mai. Ma è riuscita comunque ad andare avanti. Nel 1997 Piera si è resa autonoma dal sistema. E con una certa fierezza spiega: “Io vivo del mio lavoro. Ho fatto tutto da sola, lo Stato non mi ha aiutata”. Nel frattempo ha continuato a testimoniare. Ha onorato quell’impegno preso con Borsellino e portato avanti “con quei procuratori coraggiosi”. Oggi è portavoce dei testimoni di giustizia. “Noi abbiamo fatto il nostro dovere, oggi vogliamo i diritti”. La invitano dovunque. Lei va nelle scuole, parla con i giovani. Racconta la sua storia. “Mai una volta i ragazzi hanno violato la mia privacy. Non mi hanno mai fotografato né hanno divulgato mie immagini”. Ogni volta in classe ripete: “Anche se lo Stato non c’è, dobbiamo essere puliti dentro. Non è necessario essere degli eroi. Basta fare la nostra piccola parte ogni giorno e non ci sarebbe bisogno di nessun testimone”.