Pio La Torre e Rosario Di Salvo: vite senze compromessi, contro le mafie ed i "poteri forti". Sono le 9:20 del 30 aprile 1982. Pio La Torre sta raggiungendo la sede del PCI, a Palermo, a bordo di una Fiat 131 guidata da Rosario Di Salvo. A Pio La Torre si deve, fra le altre cose, il disegno di legge che prevedeva per la prima volta il reato di "associazione mafiosa" e la confisca dei patrimoni mafiosi: La legge, come spesso accade in Italia, verrà approvata solo dopo la sua uccisione.
Salvo Vitale, amico fraterno e compagno di lotta di Peppino Impastato: "Pio La Torre e Rosario Di Salvo. Un dubbio lancinante che mi perseguita da 35 anni: sono stati i mafiosi o gli americani? Sono stati i cosiddetti "servizi deviati" o, come ha ipotizzato qualcuno, alcuni mai identificati compagni del suo partito? E' stato Salvatore Cucuzza, che non sapeva chi fosse, è stato Lorenzo Plicato, che venne ucciso tre giorni dopo, è stato Giovan Battista Pullarà che, secondo Mannoia quel giorno si trovava in carcere con lui? Chi è stato e chi erano i mandanti?"
Fonte: Antimafiaduemila
Falcone, Chinnici e Cassarà un presagio nella scena del delitto
di Attilio Bolzoni - 29 aprile 2015
Sono lì anch’io quella mattina, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Giro e rigiro intorno alla berlina scura, provo a non guardare quella gamba che penzola dal finestrino. Mi fa troppo paura.
Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di avvicinarmi a Paolo Borsellino, è con le spalle al muro mentre si accende un’altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le dita. C’è anche Cassarà dell’Investigativa. Gli chiedo: «Ninni, cosa sta succedendo?». Mi risponde: «Questa è una città di cadaveri che camminano».
C’è un fotografo sulla strada. Aspetta che loro, Falcone e Cassarà, Chinnici , siano per un attimo tutti vicini. Poi scatta.
Ogni tanto mi capita di rivedere quella foto su qualche vecchio giornale. Dopo più di trent’anni, ho sempre un brivido. Erano tutti vicini in una strada che è un budello in mezzo alla città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della grande guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso parlamento dell’isola. Erano tutti lì, silenziosi e immobili intorno all’ultimo cadavere di una Sicilia tragica. Me ne sono andato da quella strada pensando al movente della sua uccisione. Pio La Torre (in foto) lo volevano morto perché aveva capito prima degli altri che la Sicilia era diventata un laboratorio criminale, terra di sperimentazione per accordi di governo da esportare a Roma, porto franco, regno di latitanti in combutta con questori e prefetti, onorevoli mafiosi e mafiosi onorevoli. Dopo più di tre decenni la penso ancora come quella mattina di primavera: Pio La Torre è morto perché parlava due lingue, sapeva tradurre il siciliano in italiano. E aveva tutta l’autorevolezza per rappresentare a Roma quello che lui aveva capito di Palermo e della sua Sicilia.
Non fanno in tempo a incontrarsi. Il giorno dopo l'uccisione di Pio La Torre, arriva a Palermo il generale Dalla Chiesa. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde Dalla Chiesa.
Cesare Terranova, finita la sesta legislatura, che gli aveva consentito di operare in seno alla Commissione Antimafia e di collaborare con La Torre e altri parlamentari della Sinistra alla stesura della relazione di minoranza, rientrava al palazzo di giustizia di Palermo con l'incarico di consigliere istruttore presso la Corte d'Appello. Da procuratore della Repubblica era riuscito a fermare Luciano Liggio, e con il nuovo incarico, oltre che con il bagaglio di conoscenze acquisite all'Antimafia, avrebbe potuto infliggere danni non meno significativi ai poteri criminali della città. La Guardia di Finanza aveva schedato intanto circa tremila imprese sospettate di collusione mafiosa, mentre da diverse parti si rivendicava una legge che consentisse di portare le indagini oltre i santuari delle banche. La bancarotta di Sindona, che registrava un clamoroso colpo di scena nel giugno 1979, con l'assassinio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, nominato commissario liquidatore della BPI, restava infine un nervo scoperto. E su tale sfondo di tensioni e timori cresceva con rapidità, fino a occupare in poco tempo il centro della scena, la presenza politica e legislativa di Pio La Torre.
E due giorni dopo l'assassinio di Piersanti Mattarella sottolineava, ancora alla Camera, che in Sicilia era in corso una battaglia cruciale «fra le forze impegnate per il cambiamento contro il sistema di potere mafioso per il rinnovamento economico, sociale e democratico delle strutture dell'isola, e quanti invece difendono tenacemente il sistema di potere mafioso». Il dirigente politico non limitava però il proprio intervento all'analisi e alla denuncia. Egli riteneva che per sostenere lo scontro occorressero strumenti nuovi, soprattutto di livello normativo. Il 6 marzo alla Camera dei Deputati annunciava quindi una legge che avrebbe proposto «misure di prevenzione e di accertamento e misure patrimoniali nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, la modifica del codice penale, con la definizione di associazione mafiosa, con l'obiettivo di perseguire come reato la semplice appartenenza all'associazione stessa». La legge nota come 416 bis, di cui Pio La Torre era il redattore e il primo firmatario, veniva presentata alla Camera dei Deputati il 31 marzo 1980.
Rompendo ogni indugio, tornava poi in Sicilia, a dirigere il comitato regionale del partito. Finiva quindi sotto una pressante minaccia, mentre si accendeva nel Paese la vicenda dei missili Cruise e Pershing che la NATO, con l'avallo del governo italiano, intendeva installare nei pressi di Comiso. L'uccisione di Pio La Torre e Rosario Di Salvo avveniva appena otto mesi dopo l'arrivo del primo a Palermo. Quale ne era il significato? Ugo Pecchioli, responsabile del partito per il problemi dello Stato, in un'intervista su «L'Ora» del 2 maggio 1982, parlava di una decisione presa in alto, «dai burattinai della mafia, perché piena di implicazioni politiche». In una relazione interna dell'11 maggio rilevava inoltre che non poteva essere esclusa nessuna ipotesi, «neppure quella da qualche parte affacciatasi di connessioni straniere». E da allora l'argomento delle possibili convergenze, politiche e atlantiche, ha attraversato i decenni. Mancati però i riscontri, la morte di La Torre e del suo compagno di partito, addebitata in via definitiva a Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca e altri capimafia, resiste tra i segreti di Palermo e della Repubblica.