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lunedì 30 aprile 2018

Il dovere della Memoria: Pio La Torre e Rosario Di Salvo, due vite senza compromessi contro mafie e "poteri forti".

Pio La Torre e Rosario Di Salvo: vite senze compromessi, contro le mafie ed i "poteri forti". Sono le 9:20 del 30 aprile 1982. Pio La Torre sta raggiungendo la sede del PCI, a Palermo, a bordo di una Fiat 131 guidata da Rosario Di Salvo. A Pio La Torre si deve, fra le altre cose,  il disegno di legge che prevedeva per la prima volta il reato di "associazione mafiosa" e la confisca dei patrimoni mafiosi: La legge, come spesso accade in Italia, verrà approvata solo dopo la sua uccisione.

Salvo Vitale, amico fraterno e compagno di lotta di Peppino Impastato: "Pio La Torre e Rosario Di Salvo. Un dubbio lancinante che mi perseguita da 35 anni: sono stati i mafiosi o gli americani? Sono stati i cosiddetti "servizi deviati" o, come ha ipotizzato qualcuno, alcuni mai identificati compagni del suo partito? E' stato Salvatore Cucuzza, che non sapeva chi fosse, è stato Lorenzo Plicato, che venne ucciso tre giorni dopo, è stato Giovan Battista Pullarà che, secondo Mannoia quel giorno si trovava in carcere con lui? Chi è stato e chi erano i mandanti?"

Quando la macchina si trovò in una strada stretta, una moto di grossa cilindrata obbligò Di Salvo a fermarsi. L'auto venne investita da una raffica di proiettili. Da un'auto scesero altri killer a completare il duplice omicidio. Pio La Torre morì all'istante mentre Di Salvo ebbe il tempo per estrarre una pistola e sparare alcuni colpi, prima di soccombere.
Erano i giorni della "seconda guerra di mafia": la "mattanza" condotta dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, mieteva centinaia di vittime in Sicilia . Pio La Torre propone al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini  di inviare a Palermo -come prefetto- il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo. 
Non fanno in tempo a incontrarsi.Il giorno dopo l'uccisione di Pio La Torre, arriva a Palermo il generale Dalla Chiesa. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde lui.

 Fonte: Antimafiaduemila 

Falcone, Chinnici e Cassarà un presagio nella scena del delitto

 di Attilio Bolzoni - 29 aprile 2015

Sono lì anch’io quella mattina, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Giro e rigiro intorno alla berlina scura, provo a non guardare quella gamba che penzola dal finestrino. Mi fa troppo paura.


Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di avvicinarmi a Paolo Borsellino, è con le spalle al muro mentre si accende un’altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le dita. C’è anche Cassarà dell’Investigativa. Gli chiedo: «Ninni, cosa sta succedendo?». Mi risponde: «Questa è una città di cadaveri che camminano».
C’è un fotografo sulla strada. Aspetta che loro, Falcone e Cassarà, Chinnici , siano per un attimo tutti vicini. Poi scatta.
Ogni tanto mi capita di rivedere quella foto su qualche vecchio giornale. Dopo più di trent’anni, ho sempre un brivido. Erano tutti vicini in una strada che è un budello in mezzo alla città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della grande guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso parlamento dell’isola. Erano tutti lì, silenziosi e immobili intorno all’ultimo cadavere di una Sicilia tragica.
 Me ne sono andato da quella strada pensando al movente della sua uccisione. Pio La Torre (in foto) lo volevano morto perché aveva capito prima degli altri che la Sicilia era diventata un laboratorio criminale, terra di sperimentazione per accordi di governo da esportare a Roma, porto franco, regno di latitanti in combutta con questori e prefetti, onorevoli mafiosi e mafiosi onorevoli. Dopo più di tre decenni la penso ancora come quella mattina di primavera: Pio La Torre è morto perché parlava due lingue, sapeva tradurre il siciliano in italiano. E aveva tutta l’autorevolezza per rappresentare a Roma quello che lui aveva capito di Palermo e della sua Sicilia.

 

Erano le 9:20 del 30 aprile 1982. Pio La Torre stava raggiungendo la sede del PCI, a Palermo, a bordo di una Fiat 131 guidata da Rosario Di Salvo.
Quando la macchina si trovò in una strada stretta, una moto di grossa cilindrata obbligò Di Salvo a fermarsi. L'auto venne investita da una raffica di proiettili. Da un'auto scesero altri killer a completare il duplice omicidio. Pio La Torre morì all'istante mentre Di Salvo ebbe il tempo per estrarre una pistola e sparare alcuni colpi, prima di soccombere.
Erano i giorni della "seconda guerra di mafia": la "mattanza" condotta dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, mieteva centinaia di vittime in Sicilia . Pio La Torre propone al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini  di inviare a Palermo -come prefetto- il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo. 
Non fanno in tempo a incontrarsi. Il giorno dopo l'uccisione di Pio La Torre, arriva a Palermo il generale Dalla Chiesa. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde Dalla Chiesa.

 Fonte : Narcomafie
A oltre tre decenni dalla morte, gli interrogativi rimangono aperti sul delitto e l'eredità civile del dirigente politico italiano. Ripercorriamo la storia di quei giorni. 
La storia
L'uccisione di Pio La Torre e del suo collaboratore Rosario Di Salvo avveniva in un clima convulso. Dalla fine degli anni settanta nella capitale siciliana era stata una sequela di delitti che avevano scosso l'opinione pubblica dell'intero Paese. Erano stati assassinati il segretario provinciale della DC Michele Reina, il giornalista Mario Francese, il vicequestore Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il giudice Gaetano Costa. Tutto questo evocava già allora un disegno coeso. Lo stesso La Torre ne era in convinto, e interpretava i delitti di quel periodo come «terrorismo mafioso».
Dopo l'uccisione di Mattarella intitolava un editoriale di Rinascita: "Se terrorismo e mafia si scambiano le tecniche". Poi venne il suo turno, e dopo di lui, ancora con ritmi incalzanti, fu la volta del generale Dalla Chiesa, dei magistrati Ciaccio Montalto e Rocco Chinnici, dei poliziotti Calogero ZucchettoBeppe Montana e Ninni Cassarà, del giornalista Giuseppe Fava, dell'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco. Infine, nel pieno dell'offensiva giudiziaria di Falcone e Borsellino, che avrebbe prodotto il maxiprocesso alla mafia, il gioco cambiava. Ma era stato decapitato a quel punto il ceto politico e istituzionale della Sicilia.
Si era arrivati in realtà a uno snodo. I proventi del narcotraffico e del contrabbando incrostavano ormai da anni l'economia regionale, e le famiglie mafiose, a loro modo, avevano giocato la carta della «modernizzazione», attraverso la partecipazione alle grandi opere, sullo sfondo dei patti che correvano da decenni con la politica. Ma da tempo, tanto più dopo l'implosione del sistema Sindona, qualcosa scricchiolava. Nella relazione di minoranza della Commissione Antimafia, del 1976, Pio La Torre, dopo aver documentato gli affari illeciti della capitale siciliana, chiamando in causa tra gli altri Vito Ciancimino, Giovanni Gioia, Salvo Lima e Giovanni Matta, affermava: «Il sistema di potere mafioso è entrato ormai irrimediabilmente in crisi anche a Palermo. Ne sono una testimonianza gli ultimi sviluppi della lotta politica all'interno della DC palermitana». L'analisi, molto lucida, riusciva a interpretare una tensione reale, che sarebbe divenuta esplosiva a fine decennio, quando dentro il partito democristiano andavano polarizzandosi due visioni della politica. Da una parte era la DC di Piersanti Mattarella, presidente della Regione, che, come era nelle ispirazioni del popolarismo cattolico, guardava in avanti, in direzione di una modernizzazione conseguente, che tenesse conto dei principi di trasparenza e di moralità. Dall'altra era quella andreottiana di Salvo Lima e Mario D'Acquisto, che con varie declinazioni si ergeva a difesa del sistema che a lungo aveva retto Palermo e la Sicilia.
Insediatosi a palazzo d'Orleans il 20 marzo 1978 con l'appoggio esterno del Pci, Piersanti Mattarella per le cosche e i loro referenti diventava in poco tempo, per l'incisività della sua azione, un problema di difficile gestione. Venivano fermati appalti sospetti, si cominciava a rivoluzionare la macchina burocratica e arrivavano atti politici conseguenti, come nell'autunno del 1978, quando il presidente della Regione rimuoveva dalla sua giunta l'assessore ai Lavori Pubblici Rosario Cardillo, repubblicano, ritenuto a capo di un sistema illecito di controllo degli appalti. Ma erano percepiti altri pericoli.
Cesare Terranova, finita la sesta legislatura, che gli aveva consentito di operare in seno alla Commissione Antimafia e di collaborare con La Torre e altri parlamentari della Sinistra alla stesura della relazione di minoranza, rientrava al palazzo di giustizia di Palermo con l'incarico di consigliere istruttore presso la Corte d'Appello. Da procuratore della Repubblica era riuscito a fermare Luciano Liggio, e con il nuovo incarico, oltre che con il bagaglio di conoscenze acquisite all'Antimafia, avrebbe potuto infliggere danni non meno significativi ai poteri criminali della città. La Guardia di Finanza aveva schedato intanto circa tremila imprese sospettate di collusione mafiosa, mentre da diverse parti si rivendicava una legge che consentisse di portare le indagini oltre i santuari delle banche. La bancarotta di Sindona, che registrava un clamoroso colpo di scena nel giugno 1979, con l'assassinio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, nominato commissario liquidatore della BPI, restava infine un nervo scoperto. E su tale sfondo di tensioni e timori cresceva con rapidità, fino a occupare in poco tempo il centro della scena, la presenza politica e legislativa di Pio La Torre.
Dopo la conclusione dei lavori della Commissione Antimafia, nel 1976, il politico siciliano, allora responsabile nazionale dell'Ufficio agricoltura del PCI, aveva continuato a seguire con scrupolo il fenomeno mafioso nel Sud, denunciandone l'evoluzione nelle sedi di partito, sulla stampa e in diverse sedute parlamentari. Egli sostenne quindi con convinzione la ricerca delle sinergie che resero possibile l'esperimento del Governo Mattarella, facendo arrivare, quando necessario, la propria voce sui percorsi della Regione, con suggerimenti anche forti. Alla Conferenza dell'agricoltura che si tenne a Villa Igea il 9 febbraio 1979, Pio La Torre non esitò a denunciare l'assessorato regionale al ramo di illeciti gravi, additandone il capo, l'andreottiano Giuseppe Aleppo, come colluso alla criminalità organizzata. E in quella occasione, Piersanti Mattarella, che chiuse i lavori con un'ampia relazione, si guardò bene dal difendere il proprio assessore, sconcertando i presenti. Il segnale che giungeva alle consorterie era chiaro.
Quando si mise in moto a Palermo la macchina degli omicidi, Pio La Torre fu tra i primi, appunto, a comprendere la complessità strategica del progettoIntervenendo alla Camera il 26 settembre 1979, appena un giorno dopo l'uccisione di Cesare Terranova e del maresciallo Lenin Mancuso, egli affermava che si era di fronte a un salto qualitativo, «ad una sfida frontale allo Stato democratico da parte dell'organizzazione mafiosa».
E due giorni dopo l'assassinio di Piersanti Mattarella sottolineava, ancora alla Camera, che in Sicilia era in corso una battaglia cruciale «fra le forze impegnate per il cambiamento contro il sistema di potere mafioso per il rinnovamento economico, sociale e democratico delle strutture dell'isola, e quanti invece difendono tenacemente il sistema di potere mafioso». Il dirigente politico non limitava però il proprio intervento all'analisi e alla denuncia. Egli riteneva che per sostenere lo scontro occorressero strumenti nuovi, soprattutto di livello normativo. Il 6 marzo alla Camera dei Deputati annunciava quindi una legge che avrebbe proposto «misure di prevenzione e di accertamento e misure patrimoniali nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, la modifica del codice penale, con la definizione di associazione mafiosa, con l'obiettivo di perseguire come reato la semplice appartenenza all'associazione stessa»La legge nota come 416 bis, di cui Pio La Torre era il redattore e il primo firmatario, veniva presentata alla Camera dei Deputati il 31 marzo 1980.
Gli eventi incalzavano. Ancora nel Palermitano venivano assassinati Emanuele Basile a Gaetano Costa, e il dirigente del PCI, mentre faceva il possibile per allontanare dalle secche il suo disegno di legge, continuava ad esporsi pericolosamente. In una Tribuna politica televisiva del 30 maggio 1981 egli si domandava: «Perché sottovalutare la spaventosa coincidenza tra la presenza di Sindona a Palermo e l'esecuzione mafiosa del giudice Terranova?».
Rompendo ogni indugio, tornava poi in Sicilia, a dirigere il comitato regionale del partito. Finiva quindi sotto una pressante minaccia, mentre si accendeva nel Paese la vicenda dei missili Cruise e Pershing che la NATO, con l'avallo del governo italiano, intendeva installare nei pressi di Comiso. L'uccisione di Pio La Torre e Rosario Di Salvo avveniva appena otto mesi dopo l'arrivo del primo a Palermo. Quale ne era il significato? Ugo Pecchioli, responsabile del partito per il problemi dello Stato, in un'intervista su «L'Ora» del 2 maggio 1982, parlava di una decisione presa in alto, «dai burattinai della mafia, perché piena di implicazioni politiche». In una relazione interna dell'11 maggio rilevava inoltre che non poteva essere esclusa nessuna ipotesi, «neppure quella da qualche parte affacciatasi di connessioni straniere». E da allora l'argomento delle possibili convergenze, politiche e atlantiche, ha attraversato i decenni. Mancati però i riscontri, la morte di La Torre e del suo compagno di partito, addebitata in via definitiva a Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca e altri capimafia, resiste tra i segreti di Palermo e della Repubblica.
La considerazione del lavoro politico e civile di Pio La Torre è cresciuta di molto lungo gli anni, maggiormente per l'evoluzione, abnorme, registrata dalle narco-economie e dagli imperi criminali. In numerosi Paesi il dirigente del PCI è riconosciuto come un legislatore che ha anticipato i tempi, per avere inaugurato la storia delle leggi di contrasto alla criminalità finanziariaLa Torre ebbe tuttavia una vicenda complessa, che solo in parte è riferibile al suo impegno contro la mafia. Egli fu, prima di tutto, un meridionalista, che dagli anni del latifondo operò per il riscatto del Sud

domenica 30 aprile 2017

Pio La Torre e Rosario Di Salvo. 30 aprile 1982

Pio La Torre e Rosario Di Salvo: vite senze compromessi, contro le mafie ed i "poteri forti". 

Sono le 9:20 del 30 aprile 1982. Pio La Torre sta raggiungendo la sede del PCI, a Palermo, a bordo di una Fiat 131 guidata da Rosario Di Salvo. Quando la macchina si trovò in una strada stretta, una moto di grossa cilindrata obbligò Di Salvo a fermarsi. L'auto venne investita da una raffica di proiettili. Da un'auto scesero altri killer a completare il duplice omicidio. Pio La Torre morì all'istante mentre Di Salvo ebbe il tempo per estrarre una pistola e sparare alcuni colpi, prima di soccombere.

Erano i giorni della "seconda guerra di mafia": la "mattanza" condotta dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, mieteva centinaia di vittime in Sicilia . Pio La Torre propone al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini  di inviare a Palermo -come prefetto- il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo. Non fanno in tempo a incontrarsi.Il giorno dopo l'uccisione di Pio La Torre, arriva a Palermo il generale Dalla Chiesa. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde lui.

A Pio La Torre si deve, fra le altre cose,  il disegno di legge che prevedeva per la prima volta il reato di "associazione mafiosa" e la confisca dei patrimoni mafiosi: La legge, come spesso accade in Italia, verrà approvata solo dopo la sua uccisione.

Salvo Vitale, amico fraterno e compagno di lotta di Peppino Impastato: "Pio La Torre e Rosario Di Salvo. Un dubbio lancinante che mi perseguita da 35 anni: sono stati i mafiosi o gli americani? Sono stati i cosiddetti "servizi deviati" o, come ha ipotizzato qualcuno, alcuni mai identificati compagni del suo partito? E' stato Salvatore Cucuzza, che non sapeva chi fosse, è stato Lorenzo Plicato, che venne ucciso tre giorni dopo, è stato Giovan Battista Pullarà che, secondo Mannoia quel giorno si trovava in carcere con lui? Chi è stato e chi erano i mandanti?"

 



 Fonte: Antimafiaduemila 

Falcone, Chinnici e Cassarà un presagio nella scena del delitto

 di Attilio Bolzoni - 29 aprile 2015

Sono lì anch’io quella mattina, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Giro e rigiro intorno alla berlina scura, provo a non guardare quella gamba che penzola dal finestrino. Mi fa troppo paura.


Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di avvicinarmi a Paolo Borsellino, è con le spalle al muro mentre si accende un’altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le dita. C’è anche Cassarà dell’Investigativa. Gli chiedo: «Ninni, cosa sta succedendo?». Mi risponde: «Questa è una città di cadaveri che camminano».
C’è un fotografo sulla strada. Aspetta che loro, Falcone e Cassarà, Chinnici , siano per un attimo tutti vicini. Poi scatta.
Ogni tanto mi capita di rivedere quella foto su qualche vecchio giornale. Dopo più di trent’anni, ho sempre un brivido. Erano tutti vicini in una strada che è un budello in mezzo alla città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della grande guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso parlamento dell’isola. Erano tutti lì, silenziosi e immobili intorno all’ultimo cadavere di una Sicilia tragica.
 Me ne sono andato da quella strada pensando al movente della sua uccisione. Pio La Torre (in foto) lo volevano morto perché aveva capito prima degli altri che la Sicilia era diventata un laboratorio criminale, terra di sperimentazione per accordi di governo da esportare a Roma, porto franco, regno di latitanti in combutta con questori e prefetti, onorevoli mafiosi e mafiosi onorevoli. Dopo più di tre decenni la penso ancora come quella mattina di primavera: Pio La Torre è morto perché parlava due lingue, sapeva tradurre il siciliano in italiano. E aveva tutta l’autorevolezza per rappresentare a Roma quello che lui aveva capito di Palermo e della sua Sicilia.


 Fonte : Narcomafie
A oltre tre decenni dalla morte, gli interrogativi rimangono aperti sul delitto e l'eredità civile del dirigente politico italiano. Ripercorriamo la storia di quei giorni. 
La storia
L'uccisione di Pio La Torre e del suo collaboratore Rosario Di Salvo avveniva in un clima convulso. Dalla fine degli anni settanta nella capitale siciliana era stata una sequela di delitti che avevano scosso l'opinione pubblica dell'intero Paese. Erano stati assassinati il segretario provinciale della DC Michele Reina, il giornalista Mario Francese, il vicequestore Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il giudice Gaetano Costa. Tutto questo evocava già allora un disegno coeso. Lo stesso La Torre ne era in convinto, e interpretava i delitti di quel periodo come «terrorismo mafioso».
Dopo l'uccisione di Mattarella intitolava un editoriale di Rinascita: "Se terrorismo e mafia si scambiano le tecniche". Poi venne il suo turno, e dopo di lui, ancora con ritmi incalzanti, fu la volta del generale Dalla Chiesa, dei magistrati Ciaccio Montalto e Rocco Chinnici, dei poliziotti Calogero ZucchettoBeppe Montana e Ninni Cassarà, del giornalista Giuseppe Fava, dell'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco. Infine, nel pieno dell'offensiva giudiziaria di Falcone e Borsellino, che avrebbe prodotto il maxiprocesso alla mafia, il gioco cambiava. Ma era stato decapitato a quel punto il ceto politico e istituzionale della Sicilia.
Si era arrivati in realtà a uno snodo. I proventi del narcotraffico e del contrabbando incrostavano ormai da anni l'economia regionale, e le famiglie mafiose, a loro modo, avevano giocato la carta della «modernizzazione», attraverso la partecipazione alle grandi opere, sullo sfondo dei patti che correvano da decenni con la politica. Ma da tempo, tanto più dopo l'implosione del sistema Sindona, qualcosa scricchiolava. Nella relazione di minoranza della Commissione Antimafia, del 1976, Pio La Torre, dopo aver documentato gli affari illeciti della capitale siciliana, chiamando in causa tra gli altri Vito Ciancimino, Giovanni Gioia, Salvo Lima e Giovanni Matta, affermava: «Il sistema di potere mafioso è entrato ormai irrimediabilmente in crisi anche a Palermo. Ne sono una testimonianza gli ultimi sviluppi della lotta politica all'interno della DC palermitana». L'analisi, molto lucida, riusciva a interpretare una tensione reale, che sarebbe divenuta esplosiva a fine decennio, quando dentro il partito democristiano andavano polarizzandosi due visioni della politica. Da una parte era la DC di Piersanti Mattarella, presidente della Regione, che, come era nelle ispirazioni del popolarismo cattolico, guardava in avanti, in direzione di una modernizzazione conseguente, che tenesse conto dei principi di trasparenza e di moralità. Dall'altra era quella andreottiana di Salvo Lima e Mario D'Acquisto, che con varie declinazioni si ergeva a difesa del sistema che a lungo aveva retto Palermo e la Sicilia.
Insediatosi a palazzo d'Orleans il 20 marzo 1978 con l'appoggio esterno del Pci, Piersanti Mattarella per le cosche e i loro referenti diventava in poco tempo, per l'incisività della sua azione, un problema di difficile gestione. Venivano fermati appalti sospetti, si cominciava a rivoluzionare la macchina burocratica e arrivavano atti politici conseguenti, come nell'autunno del 1978, quando il presidente della Regione rimuoveva dalla sua giunta l'assessore ai Lavori Pubblici Rosario Cardillo, repubblicano, ritenuto a capo di un sistema illecito di controllo degli appalti. Ma erano percepiti altri pericoli. Cesare Terranova, finita la sesta legislatura, che gli aveva consentito di operare in seno alla Commissione Antimafia e di collaborare con La Torre e altri parlamentari della Sinistra alla stesura della relazione di minoranza, rientrava al palazzo di giustizia di Palermo con l'incarico di consigliere istruttore presso la Corte d'Appello. Da procuratore della Repubblica era riuscito a fermare Luciano Liggio, e con il nuovo incarico, oltre che con il bagaglio di conoscenze acquisite all'Antimafia, avrebbe potuto infliggere danni non meno significativi ai poteri criminali della città. La Guardia di Finanza aveva schedato intanto circa tremila imprese sospettate di collusione mafiosa, mentre da diverse parti si rivendicava una legge che consentisse di portare le indagini oltre i santuari delle banche. La bancarotta di Sindona, che registrava un clamoroso colpo di scena nel giugno 1979, con l'assassinio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, nominato commissario liquidatore della BPI, restava infine un nervo scoperto. E su tale sfondo di tensioni e timori cresceva con rapidità, fino a occupare in poco tempo il centro della scena, la presenza politica e legislativa di Pio La Torre.
Dopo la conclusione dei lavori della Commissione Antimafia, nel 1976, il politico siciliano, allora responsabile nazionale dell'Ufficio agricoltura del PCI, aveva continuato a seguire con scrupolo il fenomeno mafioso nel Sud, denunciandone l'evoluzione nelle sedi di partito, sulla stampa e in diverse sedute parlamentari. Egli sostenne quindi con convinzione la ricerca delle sinergie che resero possibile l'esperimento del Governo Mattarella, facendo arrivare, quando necessario, la propria voce sui percorsi della Regione, con suggerimenti anche forti. Alla Conferenza dell'agricoltura che si tenne a Villa Igea il 9 febbraio 1979, Pio La Torre non esitò a denunciare l'assessorato regionale al ramo di illeciti gravi, additandone il capo, l'andreottiano Giuseppe Aleppo, come colluso alla criminalità organizzata. E in quella occasione, Piersanti Mattarella, che chiuse i lavori con un'ampia relazione, si guardò bene dal difendere il proprio assessore, sconcertando i presenti. Il segnale che giungeva alle consorterie era chiaro.
Quando si mise in moto a Palermo la macchina degli omicidi, Pio La Torre fu tra i primi, appunto, a comprendere la complessità strategica del progettoIntervenendo alla Camera il 26 settembre 1979, appena un giorno dopo l'uccisione di Cesare Terranova e del maresciallo Lenin Mancuso, egli affermava che si era di fronte a un salto qualitativo, «ad una sfida frontale allo Stato democratico da parte dell'organizzazione mafiosa».
E due giorni dopo l'assassinio di Piersanti Mattarella sottolineava, ancora alla Camera, che in Sicilia era in corso una battaglia cruciale «fra le forze impegnate per il cambiamento contro il sistema di potere mafioso per il rinnovamento economico, sociale e democratico delle strutture dell'isola, e quanti invece difendono tenacemente il sistema di potere mafioso». Il dirigente politico non limitava però il proprio intervento all'analisi e alla denuncia. Egli riteneva che per sostenere lo scontro occorressero strumenti nuovi, soprattutto di livello normativo. Il 6 marzo alla Camera dei Deputati annunciava quindi una legge che avrebbe proposto «misure di prevenzione e di accertamento e misure patrimoniali nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, la modifica del codice penale, con la definizione di associazione mafiosa, con l'obiettivo di perseguire come reato la semplice appartenenza all'associazione stessa»La legge nota come 416 bis, di cui Pio La Torre era il redattore e il primo firmatario, veniva presentata alla Camera dei Deputati il 31 marzo 1980.
Gli eventi incalzavano. Ancora nel Palermitano venivano assassinati Emanuele Basile a Gaetano Costa, e il dirigente del PCI, mentre faceva il possibile per allontanare dalle secche il suo disegno di legge, continuava ad esporsi pericolosamente. In una Tribuna politica televisiva del 30 maggio 1981 egli si domandava: «Perché sottovalutare la spaventosa coincidenza tra la presenza di Sindona a Palermo e l'esecuzione mafiosa del giudice Terranova?».
Rompendo ogni indugio, tornava poi in Sicilia, a dirigere il comitato regionale del partito. Finiva quindi sotto una pressante minaccia, mentre si accendeva nel Paese la vicenda dei missili Cruise e Pershing che la NATO, con l'avallo del governo italiano, intendeva installare nei pressi di Comiso. L'uccisione di Pio La Torre e Rosario Di Salvo avveniva appena otto mesi dopo l'arrivo del primo a Palermo. Quale ne era il significato? Ugo Pecchioli, responsabile del partito per il problemi dello Stato, in un'intervista su «L'Ora» del 2 maggio 1982, parlava di una decisione presa in alto, «dai burattinai della mafia, perché piena di implicazioni politiche». In una relazione interna dell'11 maggio rilevava inoltre che non poteva essere esclusa nessuna ipotesi, «neppure quella da qualche parte affacciatasi di connessioni straniere». E da allora l'argomento delle possibili convergenze, politiche e atlantiche, ha attraversato i decenni. Mancati però i riscontri, la morte di La Torre e del suo compagno di partito, addebitata in via definitiva a Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca e altri capimafia, resiste tra i segreti di Palermo e della Repubblica.
La considerazione del lavoro politico e civile di Pio La Torre è cresciuta di molto lungo gli anni, maggiormente per l'evoluzione, abnorme, registrata dalle narco-economie e dagli imperi criminali. In numerosi Paesi il dirigente del PCI è riconosciuto come un legislatore che ha anticipato i tempi, per avere inaugurato la storia delle leggi di contrasto alla criminalità finanziariaLa Torre ebbe tuttavia una vicenda complessa, che solo in parte è riferibile al suo impegno contro la mafia. Egli fu, prima di tutto, un meridionalista, che dagli anni del latifondo operò per il riscatto del Sud

mercoledì 8 ottobre 2014

Quanto vale la Legalità?

LA LEGALITA' LIBERA TUTTI
Ce lo siamo dimenticati. Ce lo hanno fatto dimenticare le cosche, le cricche, le caste: LA LEGALITA' LIBERA TUTTI.
Anche questa, Legalità, è una di quelle parole speso abusate e -paraddossalmente- sempre presente proprio nei discorsi di coloro che poi si scordano poi di farla seguire da atti di Giustizia vera.
"Quanto vale la Legalità" se lo chiede anche Leonardo La Rocca, esponente di LIBERA Milano, impegnato sul tema dei  "beni confiscati". Riportiamo una sua riflessione, nella quale egli cerca si dare  peso e forma alla parola Legalità

Leonardo La Rocca
Tutte le volte che mi viene chiesto di parlare di legalità, ho una difficoltà enorme a trovare il modo. Mi sembra sempre che tutte le parole non riescano a spiegare il significato profondo e le sfumature meravigliose di questo termine. In effetti credo che il problema stia nel fatto che spesso si ha difficoltà a dare un connotato alla legalità: in un mondo così legato all’immagine, all’immediatezza del concreto, se non vedi è tanto difficile misurare. Ecco perché questa volta ho deciso di approcciare in un modo diverso: vedere quanto misura la legalità.
Ecco la prima misura: con 120 miliardi di Euro, considerando che una moneta da un euro è circa 2 cm di diametro, potremmo coprire la circonferenza terrestre con monete da un euro per ben 40 volte. Con 120 miliardi potremmo creare tre torri di monetine da un euro che vanno dalla Terra alla Luna. Potemmo addirittura coprire di monete da un euro, come fece Pollicino, la strada che parte da Peschiera Borromeo, porta a Lisbona, torna a Barcellona, va a Parigi e poi Amburgo, Mosca, Bucarest, Atene, Roma e torna a Peschiera per ben 200 volte.
Ma perché ho scelto 120 MILIARDI di euro? Semplice, perché si stima che il peso della corruzione, del sommerso, del lavoro nero, dell’economia in nero, in Italia (soltanto in Italia), valga circa 120 miliardi l’anno. Ecco, adesso comincio a misurarla questa legalità. Ma non sono ancora sazio, perché non mi serve a nulla coprire l’equatore con monete da un euro, non percepisco ancora il valore ma solo la grandezza.
E allora faccio una seconda misura: considerato che la mia bimba il prossimo anno inizierà le scuole medie, mi sono informato sul costo dei libri. 300 euro. Con 120 miliardi ci compro i libri per 400 milioni di bambini. Secondo quello spione di google, pare che ci riuscirei a pagare i libri per la metà dei bambini di età scolare (6/14 anni) del mondo.
Ma non mi basta mandare a scuola tutti i bambini, al momento ho speso solo i soldi di un anno di illegalità: voglio immaginarmi almeno tre anni di legalità totale!
E allora penso che ho dovuto cambiare gli ammortizzatori della macchina perché ho le strade piene di buche. Ed ecco che scopro che con 120 miliardi potrei asfaltare 800.000 km di strade. Caspità! più economico del gioco di pollicino. E siamo a due anni. 
Ed al terzo anno? Al terzo anno mi occupo di wellfare! Ecco che mi rispondono quegli spioni di google tramite Unicredit. Pare che il valore economico del Wellfare italiano nel 2013 (e se lo dice una banca direi che ci possiamo credere) si aggiri intorno ai 400 milioni di euro annui. Quindi con la mia brava calcolatrice faccio due conti e scopro che, se da domani smettessero tutti di comportarsi illegalmente, io potrei avere un wellfare del terzo settore pagato per 300 anni. E che me ne faccio? Non so potrei per esempio aumentare di 10 volte il peso del terzo settore e portarlo a 4 miliardi di euro l’anno per 30 anni. Wow! Così anche lo vedo finchè son vivo!
Ma adesso che ho trovato un senso al valore economico della legalità non sono ancora soddisfatto. Non lo sono perché non ho dato un valore etico alla legalità, non sono riuscito a dare una misura a quanto bella sia la legalità così com’è raccontata dalla mia Costituzione (si, mi piace pensare che chi l’ha scritta me ne abbia regalato un pezzo da proteggere e coccolare!). 
E allora faccio un’ultima misura. La faccio pensando al 22 marzo 2014, a Latina, alla manifestazione per la giornata della memoria e dell’impegno organizzata da Libera. La giornata in cui si rinnova l’impegno di ciascuno di noi come garanti della legalità, l’impegno alla partecipazione attiva per la legalità e contro le mafie, la corruzione, il lavoro nero, il gioco d’azzardo, il voto di scambio, il malaffare, lo sfruttamento dei minori, lo sfruttamento dei deboli e l’indebolimento della democrazia. La stessa giornata in cui si ricordano (la memoria…) le vittime delle mafie e se ne leggono i nomi, uno per uno, sul palco. Ed in cui si versa una lacrima, ed un brivido ti brucia lungo la schiena a sentirli quei nomi, uno per uno. I nomi di chi ha dato la vita per la legalità. I nomi "famosi" che fanno breccia nel cuore, come quelli di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Peppino Impastato, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Pio La Torre e quelli come Hyso Telaray, un bracciante albanese che in pochi ricordano: ammazzato a 22 anni perché si era ribellato allo sfruttamento "negriero" nei campi della Puglia (ma non nel 1800, solo quindici anni fa!).
Caspita! Ora la misura è colma! Ora è chiaro cosa significa legalità e cosa non lo è. Ora anche a me è più chiaro perché non esiste la mezza legalità, quell’alibi di molti per il quale “ma è solo uno scontrino…; ma è solo una fattura, però se mi fa lo sconto…; ma è solo una piccola mazzetta, però l’appalto lo fa bene…;” lo si può sempre dire.
Ora è chiaro. Perché ho capito che ogni volta che rinuncio a quel pezzo di legalità devo immaginare che quel pezzo è un grammo dei 400 chili di tritolo che massacrarono Giovanni. Sì, Giovanni lo chiamiamo in casa, perché per noi è uno di famiglia: lui come la legalità.


Leonardo La Rocca,  presidio Libera Milano


domenica 27 luglio 2014

"La mafia uccide solo d'estate"

Vi invitiamo!
Pinerolo  28 luglio 2014, ore 21.00 "Area Spettacoli Corelli" via Dante Alighieri n. 9 

 "La mafia uccide solo d'estate" 

la proiezione del film avviene nell'ambito del programma 2014 di "Cinema in Piazza".



Un film per riflettere e fare memoria, anche con un sorriso, su fatti che sono parte della storia più drammatica e oscura del nostro paese. Tante vittime innocenti sono state uccise dalle mafie proprio nel periodo che -soprattutto per noi italiani- rappresentava la spensieratezza e la gioia di vivere . Non fu "per caso" che questo avvenne.

Il Fatto Quotidiano"Perché si può parlare di mafia, anche con un sorriso. E’ con il sorriso infatti che Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, racconta le stragi mafiose che sconvolsero la Sicilia tra gli anni ’70 e ’90 attraverso gli occhi di un bambino, Arturo, che nasce e cresce a Palermo. Partendo dalla strage di Viale Lazio del 1969, Pif unisce elementi di finzione a immagini di repertorio e racconta l’omicidio del generale Dalla Chiesa, di Boris Giuliano, di Pio La Torre e Rocco Chinnici fino ad arrivare alle bombe di Capaci e di via D’Amelio del 1992. (...)". 



venerdì 4 ottobre 2013

La Sicilia è stata definita dal Ministro Mauro "la più grande portaerei sul mediterraneo"

Associazione Antimafie "Rita Atria"

La Sicilia è stata definita dal Ministro Mauro "la più grande portaerei sul mediterraneo". Sigonella nel 2015 diventerà la capitale mondiale dei droni. A Niscemi stanno costruendo il MUOS (il quarto sistema satellitare al mondo per telecomandare i droni e quindi le guerre del nuovo millennio). 

Non si può proclamare il lutto nazionale ed essere artefici di scelte politiche che non fanno altro che distruggere i popoli per accaparrarsi le loro risorse e le posizioni geografiche di prestigio sul mediterraneo. 



Non si può proclamare una giornata di lutto nazionale se i pescherecci che aiutano i migranti a salvarsi vengono poi processati per una legge dello stato italiano. Non si può proclamare il lutto nazionale quando si è autori di una politica che nega i corridoi umanitari.

La Sicilia dovrebbe essere un ponte di cultura sul Mediterraneo e invece è diventata Terra di morte.... dove arrivano i morti e da dove partono strumenti che uccidono. Il Movimento NO MUOS da mesi resiste all'installazione di questi strumenti. Lo facciamo con i nostri corpi, prendiamo denunce... nell'indifferenza del Paese Italia... nella complice indifferenza dei media. Un Paese il nostro che ormai si commuove a comando.... che piange per un giorno e poi continua ad essere complice di una politica carnefice.

Oggi in Sicilia scenderemo in piazza per i nostri fratelli africani... e per non diventare "la più grande portaerei sul mediterraneo". Pio La Torre è stato ucciso per questo. Noi abbiamo il dovere almeno di non perdere la Memoria. Scusate lo sfogo.

lunedì 18 giugno 2012

"Rivelerò alla Procura di Palermo il nome di chi incontrò Pio La Torre prima di essere ucciso"


 Pio La Torre, segretario del PCI siciliano, pochi giorni prima di morire aveva incontrato 5 professori universitari a cui voleva far visionare documenti riservatissimi relativi ai rapporti tra mafia, politica, anche estera, e imprenditoria da Portella della Ginestra alla scalata dei corleonesi. Il secondo incontro non si tenne mai e quei professori sono rimasti fino ad oggi figure senza volto.   

Fonte :  L'Unità- 
la torre pio web0Solo lui può raccontare ai magistrati di quei documenti riservatissimi in possesso di La Torre”.
di Nicola Biondo - 17 giugno 2012
Intervista all'avvocato Armando Sorrentino
Lo sguardo di Armando Sorrentino è mobile e vivacissimo. A volte dolente: come se la conoscenza di fatti, nomi, intrecci e inganni, in terra di mafia, nel Paese delle stragi, lo inchiodi a ragionamenti inesprimibili solo a parole.
Dirigente politico, avvocato di parte civile per il Pci-Pds nel processo per l’omicidio di Pio La Torre e il suo uomo ombra Rosario Di Salvo, studioso e libero battitore della sinistra siciliana. Sorrentino è balzato agli onori della cronaca per un libro-inchiesta sull’omicidio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre, avvenuto il 30 aprile 1981. Delitto eccellente, forse qualcosa di più, quello di La Torre. Sul quale la Procura di Palermo sta riaprendo le indagini proprio sulla base di nuovi elementi, alcuni dei quali forniti dal volume di Sorrentino, scritto con il giornalista Paolo Mondani. Uno su tutti: il segretario del Pci pochi giorni prima di morire aveva incontrato 5 professori universitari a cui voleva far visionare documenti riservatissimi relativi ai rapporti tra mafia, politica, anche estera, e imprenditoria da Portella della Ginestra alla scalata dei corleonesi. Il secondo incontro non si tenne mai e quei professori sono rimasti fino ad oggi figure senza volto.       
Quando ha incontrato uno di questi cinque uomini chiamati da Pio La Torre?
Nel 2007 e solo una volta.
Perché non ne ha parlato subito?
Comprendo la sua domanda. Ma l’esistenza di questo personaggio è pubblica. Lo intervistò prima di me un giornalista nell’aprile 2007. Nessuno però dice nulla: né i magistrati né alcuno di quei dirigenti politici che si affrettano ad ogni anniversario a celebrare La Torre.
Vuole fare adesso il suo nome?
Lo farò solo ai magistrati e poi, com’è giusto, saranno loro ad indagare.
Cosa le ha detto questo personaggio?
Da quell’incontro con La Torre, e dai fatti che poi si sono succeduti, si è convinto che sia esistita una sorta di struttura riservata a copertura di una sistema di potere in Sicilia, come una trincea che spiega decenni di crimini di sangue ma anche politici ed economici. La parte visibile sono gli omicidi di mafia la cui spiegazione non si trova solo nelle dinamiche mafiose.
Una ricostruzione che lei ritiene credibile?
La Torre parlava di “direzione strategica della mafia”, di un “tribunale internazionale” che decideva i delitti politici in Sicilia. La Torre è l’ultimo dirigente comunista ad essere ucciso ma prima di lui due generazioni di militanti vengono trucidati. La lotta antimafia non è nata dopo le stragi del ’92, anzi.
Ieri come oggi si parla di trattativa, di patti tra Stato e Cosa nostra. La Torre fu ucciso perché intuì questi legami?
Nessuna banda politico-criminale è più longeva di Cosa nostra. L’ossessione di La Torre era chi permetteva il “successo” di questa banda. Le faccio notare che ad ogni forte cambiamento politico corrisponde un cambiamento di Cosa nostra: i padrini italo-americani del dopoguerra durante il monopolio democristiano, poi l’ascesa dei corleonesi parallela alle fortune andreottiane fino alla dittatura di Riina durante il decennio craxiano. Tante trattative per un unico lungo patto.
Secondo questo testimone La Torre mette intorno ad un tavolo tutti professori universitari di letteratura e esperti del linguaggio. Nessuno storico, non le sembra strano?
A loro La Torre chiede che leggano dei documenti per analizzarne il linguaggio: potevano essere di tipo militare e messaggi provenienti da uomini di Cosa nostra. I mafiosi e il loro modo di comunicare a volte sono molto raffinati e complessi. Pensi al killer di La Torre: diplomato al liceo classico, lontano dal prototipo del “viddano” e pur essendo un soldato semplice sedeva alla pari nelle riunioni della Cupola.
E’ solo per paura che “il professore” non ha parlato?
La paura non spiega tutto. Lui ci dice che La Torre gli impose il silenzio assoluto anche all’interno della federazione. La paura dell’isolamento è spesso più forte della paura di morire. La morte è un attimo, l’isolamento ti divora la vita.
Killer e mandanti mafiosi sono stati condannati per il delitto. In questi trent’anni si è sempre parlato di moventi esterni per l’omicidio La Torre: non solo l’impegno antimafia ma anche contro i missili nucleari di Comiso, addirittura una pista interna.
La pista interna fu un depistaggio anche raffazzonato ma ha messo in allarme chi nel Pci siciliano  non era privo di peccati, anzi accettava il sistema di potere dominante. La Torre fu un uomo di rottura dentro il Pci siciliano, contro quel meccanismo che aveva inglobato una parte del partito. Lo dice lo stesso ex-segretario Natta: in Sicilia non vi fu un compromesso storico ma solo un compromesso. E le dirò di più: Berlinguer si è “fermato” a Eboli, la sua spinta ideale non è mai arrivata in Sicilia. Ai funerali di La Torre fu permesso di parlare al presidente della Regione, l’andreottiano D’Acquisto, il cui governo La Torre definì il peggiore nella storia dell’isola.
Ma nell’era di internet, che senso ha parlare di una “vecchia” storia di mafia, di comunisti, di segreti legati alla guerra fredda. Sembra archeologia, non le pare?
La nostra è un’indagine sul potere, sul coraggio di sfidare il potere. E spesso il potere non ha colore politico. Oggi La Torre sarebbe un feroce critico, sempre da sinistra, un punto di riferimento per i giovani: aveva capito che la mafia e la politica, come le avevamo conosciute stavano morendo, sostituite da altri soggetti non più definibili tout court con i vecchi schemi, destra-sinistra, criminale-illegale. Era un eretico, ce ne fossero di eretici come lui.
Parliamo sempre del passato ma com’è la mafia oggi?
Da sempre e’ una delle manifestazioni, quella più brutale, del potere italiano. Cambia forma ma è sempre un esercito a disposizione di altre logiche. La Torre diceva pubblicamente che la sola azione della magistratura non basta a capire cosa è la mafia, il malaffare. Ci vuole la politica, una sua assunzione di responsabilità. Perché spesso la magistratura ha fatto da tappo alla verità, anche nel caso La Torre.
A cosa si riferisce?
Come parte civile non abbiamo potuto interrogare uno dei killer, reo confesso. Non sono state svolte indagini precise nemmeno sulla dinamica dell’omicidio. Perché?
Giovanni Falcone indagò a lungo anche sull’omicidio di La Torre ma le indagini non lo soddisfacevano.
“Non firmerò quell’inchiesta nemmeno se mi torturano”, ecco cosa disse. E pubblicamente diceva anche che la mafia non prende ordini. Ma sapeva che non era così, era un messaggio verso l’esterno, quasi a tranquillizzare i suoi avversari nelle istituzioni.
Poi però arrivo l’attacco di Leoluca Orlando che diceva che i giudici palermitani tenevano le carte nei cassetti sugli omicidi eccellenti.
Un attacco irrituale ma i diari di Falcone confermarono che c’era qualcosa di vero. Al giudice –come lui stesso racconta – non fu permesso di indagare sul ruolo dei servizi segreti sui delitti La Torre e Mattarella. Sa quando vidi l’ultima volta il giudice?
Prego
Aula Bunker, Processo La Torre, fine maggio 1992: improvvisamente Falcone entra nell’aula che stava interrogando Bruno Contrada [ex-numero tre del Sisde, condannato a dieci anni per mafia]. Ero dietro Contrada, nei banchi riservati alle parti civili. Per pochi secondi il giudice lo osserva con un espressione profonda, dura. Poi prende posto ma la seduta venne sospesa. Pochissimi giorni dopo avvenne la strage di Capaci. Ancora una volta si decise di fare politica con il sangue.
Lei crede che ci siano altre voci rimaste ancora nell’ombra?
Non ne ho le prove ma sono sicuro che ci siano.


martedì 1 maggio 2012

I beni confiscati alle mafie sono patrimonio delle comunità


Sabato 28-4, nella casa che fu del boss Tano Badalamenti, è stato organizzato dall'Associazione Peppino Impastato e dalla Consulta giovanile di Cinisi un convegno sui "beni confiscati alle mafie come patrimonio delle comunità", che i giovani della Consulta hanno voluto per conoscere l'entità dei beni sul loro territorio e i progetti per un loro utilizzo. 
Il convegno ha assunto un particolare significato perché si è svolto proprio all'interno di un bene confiscato alla mafia.
In apertura Vito Manzella, per la Consulta, ha parlato delle grandi opportunità, sia di lavoro che di aggregazione che si offrono nei vari territori, soprattutto ai giovani, con l'utilizzo dei beni confiscati. Salvo Vitale ha fatto notare la peculiarità di un affidamento dell'abitazione dell'assassino fatto ai familiari e ai compagni della vittima ed ha fatto un chiaro riferimento a Pio La Torre, di cui, il 30 aprile ricorre l'anniversario del barbaro assassinio e di quello del suo autista Rosario Di Salvo. L'approvazione della legge Rognoni La Torre, che introduce il reato di associazione mafiosa e prevede, per la prima volta la confisca dei beni di proprietà dei mafiosi, ha richiesto, oltre al sacrificio di La Torre anche quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa: infatti la legge è stata approvata solo dopo la morte di quest'ultimo.
Vitale ha anche accennato alla normativa che prevede tempi di affidamento lunghissimi, intorno ai dieci anni: nel caso della casa di don Tano ci sono voluti 23 anni. Il sindaco di Cinisi ha detto che, per quanto riguarda la casa del boss, è stato presentato un progetto con la richiesta di fondi del PON sicurezza: il finanziamento dovrebbe arrivare entro la fine di maggio; ha fatto poi una rassegna dei beni confiscati e di quanto fatto per predisporne l'affidamento, con particolare riferimento a tre villette confiscate al mafioso Piazza, in contrada Torre dell'Ursa e affidate, per concorso, alla cooperativa partinicese "Liberamente", la quale ha presentato un ambizioso progetto per un centro di assistenza ai disabili e di recupero dalle tossicodipendenze. Finalità e caratteristiche del progetto sono state poi illustrate, in chiusura, in un intervento della dott.ssa Elena Ciravolo, a nome della citata cooperativa.
Una rassegna dei beni confiscati a Terrasini e di un loro riutilizzo sinora parziale è stata fatta dal sindaco di Terrasini Massimo Cucinella, il quale ha prospettato la difficoltà di avere finanziamenti, e la prescrizione dell'utilizzo come bene per servizi pubblici o per attività sociali, nel senso che si tratta di un bene che ritorna all'uso dei cittadini, i quali ne sono gli autentici affidatari: ha accennato alla mancata realizzazione dell'intero progetto di recupero delle Cave confiscate ai mafiosi D'Anna, per le quali si prevede una prossima riapertura come discarica di sfabbricidi.
Lucio Guarino ha parlato della sua esperienza nel consorzio Sviluppo e Legalità, che al momento comprende sei comuni, tra cui Corleone e San Giuseppe Jato: proprio in questi due comuni si sono realizzate le esperienze più eclatanti di beni che, da terreni incolti, sono stati trasformati in zone che danno lavoro ai giovani del posto, che producono e realizzano i prodotti di Libera, ormai presenti nelle coop; ha parlato anche delle novità che hanno integrato la legge, ma che non sono riuscite a sanarne alcune lacune. Fra l'altro, con i finanziamenti del PON sicurezza è stata riattivata e diventerà operativa a breve la cantina Kaggio, che fu di Totò Riina e la Casa della Legalità, a Corleone, che fu di Bernardo Provenzano.
Ugualmente interessante la testimonianza di Calogero Parisi, presidente della cooperativa "Lavoro e non solo" che gestisce diversi terreni di proprietà di Totò Riina o di parenti di Bernardo Provenzano, dove d'estate vanno a lavorare volontariamente migliaia di giovani provenienti in gran parte dalla Toscana. L'iniziativa del convegno si inserisce nel contesto delle attività preparatorie nella prospettiva del prossimo 9 maggio, anniversario della morte di Peppino Impastato, ed è significativa nell'ambito di un rapporto con il territorio, tra le associazioni locali e le associazioni che gestiscono l'ex casa di don Tano, per la quale l'Associazione Impastato ha avanzato la proposta di chiamarla Casa 9 maggio, con la considerazione che, nel parlare di questa casa, ripetere in continuazione il nome di un assassino, è un modo di richiamarlo costantemente alla memoria, quando invece sarebbe opportuno seppellire definitivamente il ricordo di questo delinquente. 

Antimafia2000.com 
di Salvo Vitale - 

domenica 29 aprile 2012

30° anniversario dell'uccisione di Pio La Torre e Rosario Di Salvo




Gli omicidi del segretario del Pci siciliano e del generale nell'82; quelli dei due giudici nel '92. Oggi, venti o trenta anni dopo, ci sono ancora molti misteri sulla loro uccisione. Però sappiamo perché li volevano morti
fonte : LA Repubblica. estratto da un articolo di  ATTILIO BOLZONI


"QUELLA MATTINA sono anch'io là, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di guardare Paolo Borsellino che è con le spalle al muro e si sta accendendo un'altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le dita.
Mi avvicino al commissario Cassarà e gli chiedo: "Ninni, cosa sta succedendo?". Mi risponde, l'amico poliziotto: "Siamo cadaveri che camminano". Un fotografo aspetta che loro - Falcone e Cassarà, Chinnici e Borsellino - siano per un attimo vicini. Poi scatta. Una foto di Palermo. Una foto che dopo trent'anni mi mette sempre i brividi. Sono morti, uno dopo l'altro sono morti tutti e quattro. Ammazzati.
Tutti vivi me li ricordo, tutti ancora vivi intorno a quell'uomo incastrato dentro la berlina scura e con la gamba destra che penzola dal finestrino. Sono lì, in una strada che è un budello in mezzo alla città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della Grande guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso  parlamento dell'isola, Palazzo dei Normanni, cupole arabe e lussureggianti palme.
Chi è l'ultimo cadavere di una Sicilia tragica? È Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista italiano, deputato alla Camera per tre legislature, figlio di contadini, sindacalista, capopopolo negli infuocati anni del separatismo e dell'occupazione delle terre.
È Pio La Torre, nato a Palermo alla vigilia del Natale del 1927 e morto a Palermo alla vigilia del Primo maggio del 1982. L'agguato non ha firma. Forse è un omicidio di stampo mafioso. Forse è un omicidio politico. Chissà, potrebbe anche avere una matrice internazionale. Magari  -  come qualcuno mormora  -  si dovrebbe esplorare la "pista interna". Indagare dentro il suo partito. Nella sua grande famiglia. Cercare gli assassini fra i suoi compagni. Supposizioni. Prove di depistaggio in una Palermo che oramai si è abituata ai morti e ai funerali di Stato, cadaveri eccellenti e cerimonie solenni. Il 30 aprile 1982, trent'anni fa.
Uccidono l'uomo che prima di tutti gli altri intuisce che la mafia siciliana non è un problema di ordine pubblico ma "questione nazionale", il parlamentare che vuole una legge che segnerà per sempre la nostra storia: essere mafioso è reato. Chiede di strappare i patrimoni ai boss, tutti lo prendono per un visionario.
Dicono che è ossessionato da mafia e mafiosi, anche nel suo partito ha fama di "rompicoglioni". Al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini propone di inviare a Palermo come prefetto il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo. Non fa in tempo a vederlo sbarcare, l'ammazzano prima.
Pio La Torre aveva conosciuto dalla Chiesa nel 1949 a Corleone, lui segretario della Camera del lavoro dopo la scomparsa del sindacalista Placido Rizzotto e il capitano volontario nel Cfbr, il Comando forze repressione banditismo. Il loro primo incontro avviene nel cuore della Sicilia. Quindici anni dopo si ritroveranno uno di fronte all'altro in commissione parlamentare antimafia, uno deputato e l'altro comandante dei carabinieri della Sicilia occidentale. Il terzo incontro non ci sarà mai.
Destini che s'incrociano in un'isola che non è ricca ma sfrenatamente ricca, superba, inespugnabile. Il giorno dell'uccisione di Pio La Torre in Sicilia arriva il generale. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde lui.(...)"