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lunedì 18 giugno 2012

"Rivelerò alla Procura di Palermo il nome di chi incontrò Pio La Torre prima di essere ucciso"


 Pio La Torre, segretario del PCI siciliano, pochi giorni prima di morire aveva incontrato 5 professori universitari a cui voleva far visionare documenti riservatissimi relativi ai rapporti tra mafia, politica, anche estera, e imprenditoria da Portella della Ginestra alla scalata dei corleonesi. Il secondo incontro non si tenne mai e quei professori sono rimasti fino ad oggi figure senza volto.   

Fonte :  L'Unità- 
la torre pio web0Solo lui può raccontare ai magistrati di quei documenti riservatissimi in possesso di La Torre”.
di Nicola Biondo - 17 giugno 2012
Intervista all'avvocato Armando Sorrentino
Lo sguardo di Armando Sorrentino è mobile e vivacissimo. A volte dolente: come se la conoscenza di fatti, nomi, intrecci e inganni, in terra di mafia, nel Paese delle stragi, lo inchiodi a ragionamenti inesprimibili solo a parole.
Dirigente politico, avvocato di parte civile per il Pci-Pds nel processo per l’omicidio di Pio La Torre e il suo uomo ombra Rosario Di Salvo, studioso e libero battitore della sinistra siciliana. Sorrentino è balzato agli onori della cronaca per un libro-inchiesta sull’omicidio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre, avvenuto il 30 aprile 1981. Delitto eccellente, forse qualcosa di più, quello di La Torre. Sul quale la Procura di Palermo sta riaprendo le indagini proprio sulla base di nuovi elementi, alcuni dei quali forniti dal volume di Sorrentino, scritto con il giornalista Paolo Mondani. Uno su tutti: il segretario del Pci pochi giorni prima di morire aveva incontrato 5 professori universitari a cui voleva far visionare documenti riservatissimi relativi ai rapporti tra mafia, politica, anche estera, e imprenditoria da Portella della Ginestra alla scalata dei corleonesi. Il secondo incontro non si tenne mai e quei professori sono rimasti fino ad oggi figure senza volto.       
Quando ha incontrato uno di questi cinque uomini chiamati da Pio La Torre?
Nel 2007 e solo una volta.
Perché non ne ha parlato subito?
Comprendo la sua domanda. Ma l’esistenza di questo personaggio è pubblica. Lo intervistò prima di me un giornalista nell’aprile 2007. Nessuno però dice nulla: né i magistrati né alcuno di quei dirigenti politici che si affrettano ad ogni anniversario a celebrare La Torre.
Vuole fare adesso il suo nome?
Lo farò solo ai magistrati e poi, com’è giusto, saranno loro ad indagare.
Cosa le ha detto questo personaggio?
Da quell’incontro con La Torre, e dai fatti che poi si sono succeduti, si è convinto che sia esistita una sorta di struttura riservata a copertura di una sistema di potere in Sicilia, come una trincea che spiega decenni di crimini di sangue ma anche politici ed economici. La parte visibile sono gli omicidi di mafia la cui spiegazione non si trova solo nelle dinamiche mafiose.
Una ricostruzione che lei ritiene credibile?
La Torre parlava di “direzione strategica della mafia”, di un “tribunale internazionale” che decideva i delitti politici in Sicilia. La Torre è l’ultimo dirigente comunista ad essere ucciso ma prima di lui due generazioni di militanti vengono trucidati. La lotta antimafia non è nata dopo le stragi del ’92, anzi.
Ieri come oggi si parla di trattativa, di patti tra Stato e Cosa nostra. La Torre fu ucciso perché intuì questi legami?
Nessuna banda politico-criminale è più longeva di Cosa nostra. L’ossessione di La Torre era chi permetteva il “successo” di questa banda. Le faccio notare che ad ogni forte cambiamento politico corrisponde un cambiamento di Cosa nostra: i padrini italo-americani del dopoguerra durante il monopolio democristiano, poi l’ascesa dei corleonesi parallela alle fortune andreottiane fino alla dittatura di Riina durante il decennio craxiano. Tante trattative per un unico lungo patto.
Secondo questo testimone La Torre mette intorno ad un tavolo tutti professori universitari di letteratura e esperti del linguaggio. Nessuno storico, non le sembra strano?
A loro La Torre chiede che leggano dei documenti per analizzarne il linguaggio: potevano essere di tipo militare e messaggi provenienti da uomini di Cosa nostra. I mafiosi e il loro modo di comunicare a volte sono molto raffinati e complessi. Pensi al killer di La Torre: diplomato al liceo classico, lontano dal prototipo del “viddano” e pur essendo un soldato semplice sedeva alla pari nelle riunioni della Cupola.
E’ solo per paura che “il professore” non ha parlato?
La paura non spiega tutto. Lui ci dice che La Torre gli impose il silenzio assoluto anche all’interno della federazione. La paura dell’isolamento è spesso più forte della paura di morire. La morte è un attimo, l’isolamento ti divora la vita.
Killer e mandanti mafiosi sono stati condannati per il delitto. In questi trent’anni si è sempre parlato di moventi esterni per l’omicidio La Torre: non solo l’impegno antimafia ma anche contro i missili nucleari di Comiso, addirittura una pista interna.
La pista interna fu un depistaggio anche raffazzonato ma ha messo in allarme chi nel Pci siciliano  non era privo di peccati, anzi accettava il sistema di potere dominante. La Torre fu un uomo di rottura dentro il Pci siciliano, contro quel meccanismo che aveva inglobato una parte del partito. Lo dice lo stesso ex-segretario Natta: in Sicilia non vi fu un compromesso storico ma solo un compromesso. E le dirò di più: Berlinguer si è “fermato” a Eboli, la sua spinta ideale non è mai arrivata in Sicilia. Ai funerali di La Torre fu permesso di parlare al presidente della Regione, l’andreottiano D’Acquisto, il cui governo La Torre definì il peggiore nella storia dell’isola.
Ma nell’era di internet, che senso ha parlare di una “vecchia” storia di mafia, di comunisti, di segreti legati alla guerra fredda. Sembra archeologia, non le pare?
La nostra è un’indagine sul potere, sul coraggio di sfidare il potere. E spesso il potere non ha colore politico. Oggi La Torre sarebbe un feroce critico, sempre da sinistra, un punto di riferimento per i giovani: aveva capito che la mafia e la politica, come le avevamo conosciute stavano morendo, sostituite da altri soggetti non più definibili tout court con i vecchi schemi, destra-sinistra, criminale-illegale. Era un eretico, ce ne fossero di eretici come lui.
Parliamo sempre del passato ma com’è la mafia oggi?
Da sempre e’ una delle manifestazioni, quella più brutale, del potere italiano. Cambia forma ma è sempre un esercito a disposizione di altre logiche. La Torre diceva pubblicamente che la sola azione della magistratura non basta a capire cosa è la mafia, il malaffare. Ci vuole la politica, una sua assunzione di responsabilità. Perché spesso la magistratura ha fatto da tappo alla verità, anche nel caso La Torre.
A cosa si riferisce?
Come parte civile non abbiamo potuto interrogare uno dei killer, reo confesso. Non sono state svolte indagini precise nemmeno sulla dinamica dell’omicidio. Perché?
Giovanni Falcone indagò a lungo anche sull’omicidio di La Torre ma le indagini non lo soddisfacevano.
“Non firmerò quell’inchiesta nemmeno se mi torturano”, ecco cosa disse. E pubblicamente diceva anche che la mafia non prende ordini. Ma sapeva che non era così, era un messaggio verso l’esterno, quasi a tranquillizzare i suoi avversari nelle istituzioni.
Poi però arrivo l’attacco di Leoluca Orlando che diceva che i giudici palermitani tenevano le carte nei cassetti sugli omicidi eccellenti.
Un attacco irrituale ma i diari di Falcone confermarono che c’era qualcosa di vero. Al giudice –come lui stesso racconta – non fu permesso di indagare sul ruolo dei servizi segreti sui delitti La Torre e Mattarella. Sa quando vidi l’ultima volta il giudice?
Prego
Aula Bunker, Processo La Torre, fine maggio 1992: improvvisamente Falcone entra nell’aula che stava interrogando Bruno Contrada [ex-numero tre del Sisde, condannato a dieci anni per mafia]. Ero dietro Contrada, nei banchi riservati alle parti civili. Per pochi secondi il giudice lo osserva con un espressione profonda, dura. Poi prende posto ma la seduta venne sospesa. Pochissimi giorni dopo avvenne la strage di Capaci. Ancora una volta si decise di fare politica con il sangue.
Lei crede che ci siano altre voci rimaste ancora nell’ombra?
Non ne ho le prove ma sono sicuro che ci siano.


martedì 15 maggio 2012

STRAGE DI VIA D'AMELIO. Nuova inchiesta



Sì alla deposizione di 4 pentiti
Fonte : La Repubblica

Il Gip del Tribunale di Caltanissetta, Alessandra Giunta, ha ammesso l'incidente probatorio per sentire quattro collaboratori di giustizia, tra cui Gaspare Spatuzza, nell'ambito del nuovo filone d'inchiesta sulla strage mafiosa di via D'Amelio. La richiesta era stata avanzata lo scorso aprile dall'avvocato Flavio Sinatra, legale del boss palermitano Salvuccio Madonia e di Vittorio Tutino, che il mese scorso hanno ricevuto un ordine di custodia per l'attentato contro il giudice Paolo Borsellino. 
Alla richiesta si era opposta la Procura di Caltanissetta. 

L'incidente probatorio si terrà a Roma dal 5 al 9 giugno. Saranno sentiti in quelle date i pentiti Giovanni Brusca, Antonio Giuffrè, Tullio Cannella e Gaspare Spatuzza. Lo scorso marzo erano state emesse quattro ordinanze di custodia cautelare nei confronti del capomafia palermitano Salvatore Madonia, 51 anni , di Vittorio Tutino, 41 anni, ei Salvatore Vitale, 61 anni e dell'ex pentito di Sommatino (Caltanissetta), Calogero Pulci, 52 anni che risponde solo di calunnia aggravata.
Salvatore Madonia, detto Salvuccio, è considerato uno dei mandanti, mentre Tutino è accusato di aver rubato, assieme a Spatuzza, la Fiat 126 usata poi come autobomba nella strage.
Salvatore Vitale, già condannato per il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, avrebbe procurato l' esplosivo i congegni elettronici per l'autobomba, e sarebbe stato la "talpa" degli attentatori in via D'Amelio

sabato 5 maggio 2012

Mafia: la lezione del questore di Piacenza Rino Germanà, il poliziotto che doveva morire


fonte: corleonedialogos.it, di Rino Giacalone - Istituto Mattei di Fiorenzuola, provincia di Piacenza. Aula magna gremita. Occasione un incontro, promosso da Libera Piacenza, con testimoni importanti della lotta alla mafia, il poliziotto e la familiare di alcune delle tante vittime. Anche il poliziotto doveva essere una vittima di Cosa nostra in quel terribile 1992. Anche per lui quest’anno ricorre un ventennale, i 20 anni trascorsi da quando il 14 settembre del 1992 Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella tentarono in tutti i modi di ucciderlo. Si tratta dell’oggi questore di Forlì, Rino Germanà. All’epoca dirigeva il commissariato di Polizia di Mazara del Vallo.
C’era tornato da pochissimo tempo, quasi che una mano ignota aveva voluto fargli fare un passo indietro nella sua carriera. Era stato infatti già commissario a Mazara, poi aveva fatto il salto diventando dirigente della Squadra Mobile, da lì ulteriore passo in avanti, la Criminalpol, poi d’improvviso il ritorno da commissario a Mazara. Non doveva andare a Mazara Rino Germanà. Il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, lo voleva con lui a Palermo, riprendendo quel lavoro a due mani che loro si può dire da sempre sapevano svolgere. Borsellino lo aveva detto che Germanà doveva seguirlo a Palermo, forse pensava già a chiedere al Viminale per Germanà il posto di dirigente della Squadra Mobile del capoluogo dell’isola. Il 4 luglio quando Paolo Borsellino andò a Marsala a fare quel saluto che da Procuratore (uscente) non aveva potuto fare perché travolto dalla strage di maggio, quella del 23 maggio, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, non fece mistero che rivoleva Germanà con lui. Non ebbe il tempo, 15 giorni dopo arrivò per lui l’autobomba di via d’Amelio. Ucciso Borsellino, Rino Germanà si ritrovò catapultato nel passato, al processo per il suo tentato omicidio il pm Andrea Tarondo, che chiese e ottenne le condanne per mandanti ed esecutori di quell’agguato, non fece mistero di una sua convinzione e che cioè una “manina” aveva scritto quel trasferimento di Germanà a Mazara, quasi a portarlo a pochi metri dagli assassini più spietati di Cosa nostra. In quel 1992 Rino Germanà era finito nell’elenco delle persone che perché avevano dato fastidio alla mafia o potevano darne ancora, andavano eliminate, questo era l’ordine di Totò Riina. Oggi quello scenario si è fatto poco poco più chiaro: all’epoca di quell’agguato, Rino Germanà si stava occupando di indagini sul rapporto mafia e politica, andava fiutando ciò che succedeva attorno ad un potente politico, il ministro Calogero Mannino, sentito dai pm di Palermo, Germanà ha detto che si sentì chiedere dal vice capo della Polizia, prefetto Luigi Rossi, del perchè di quelle indagini, poi si sentì chiamare addirittura dal ministro Mannino, incontro rifiutato. Passò poco tempo e trovò il trasferimento a Mazara ad attenderlo, e quindi niente più indagini su Mannino. Sul tavolo di Rino Germanà però c’era un altro faldone, quello delle indagini sul rapporto tra mafia e banche, Cosa nostra da una parte, la importante Banca Sicula dall’altra parte, la banca dei banchieri per eccellenza di Trapani, i D’Alì. Anche quella non era una inchiesta di poco conto. La cronaca di quell’agguato sul lungomare Tonnarella di Mazara è da film, ma non fu un film. Germanà era in auto e si accorse di essere seguito, dietro un’auto che gli chiedeva spazio per il sorpasso, con la coda dell’occhio vede la canna di un fucile puntare contro di lui, la frenata, i colpi che cominciano a sentirsi, lui che scende dall’auto e fugge tra i bagnanti, si getta in auto, mentre dall’auto che lo seguiva si continua a sparare, l’auto percorre per un paio di volte la strada costiera, poi il commando capisce che non ha più nulla da fare e scappa via. Pochissime ore dopo Rino Germanà e la sua famiglia non si troveranno più a Mazara, portati lontani dalla Sicilia, dove non tornerà più per moltissimi anni. Nel frattempo non troverà importanti scrivanie ad attenderlo, addirittura per un periodo sarà il dirigente del commissariato di Polizia presso l’aeroporto di Bologna. Lo Stato sa piangere i suoi morti, i funzionari e gli investigatori fedeli, bravi e sopravvissuti spesso finiscono con l’essere dimenticati ancora prima dei morti. Ci vorranno anni perché Germanà torni in carriera, prima questore a Forlì, oggi a Piacenza.
Davanti agli studenti del Mattei di Fiorenzuola esordisce dicendo che non ha di che raccontare a proposito della sua storia. Nessuno mugugna, era quello che gli studenti volevano sentirsi dire.
E con il solito, simpatico, dialetto siciliano, inizia a fare la “sua” lezione. “Sapete – domanda ai ragazzi – cosa ci differenzia dai mafiosi? E sapete cosa unisce me, poliziotto, e voi studenti, contro la mafia?”. Non si sente parlare nessuno, non è imbarazzo, c’è semmai la voglia di sapere quale sono le risposte. E Germanà la fornisce subito la risposta, perché alle due domande è la stessa: "E’ il sorriso!”. Una consapevole risata rompe il ghiaccio. E il questore di Piacenza spiega: “Noi sorridiamo, i mafiosi no, noi siamo uniti dal sapere sorridere”. E continua: “E sapete cosa testimonia un sorriso?”. “Il sorriso è la prova che noi abbiamo dei sentimenti, i mafiosi non hanno il sorriso e non hanno i sentimenti”. Ma è solo il sorriso che ci differenzia dai mafiosi, continua a chiedere Germanà: “Noi abbiamo il desiderio di vivere, la mafia no, la mafia parla solo di morte, noi abbiamo il desiderio della conoscenza, la mafia è contro la conoscenza dei fatti, e la conoscenza è importante, perché se conosciamo siamo liberi, la conoscenza libera e ci…libera”.
La lezione di Rino Germanà va avanti in questa maniera, c’è il richiamo allo Stato che non è fatto di poltrone e potere ma “è fatto dai cittadini”, c’è il richiamo a quel dato che distingue i cittadini onesti dalla mafia, “la mafia pensa solo a provocare sofferenze, i cittadini che conoscono bene i diritti e i doveri sanno che è contro la sofferenza che bisogna impegnarsi”.
Con Rino Germanà c’è anche Margherita Asta, figlia e sorella delle vittime della strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985: “C’è la mafia e ci sono i cittadini onesti – dice – non possono esistere tre fasce sociali, i mafiosi, gli antimafiosi e i cittadini che non si schierano né per una parte né per l’altra, l’antimafia non può essere una parte, è l’altra parte che si contrappone ai mafiosi insieme ai cittadini che vogliono essere liberi, non può esserci qualcuno che può dire di non essere né mafioso né antimafioso, chi dice una cosa di questo genere rende un favore alle mafie. Per essere contro la mafia basta solo una cosa, non bisogna essere – prosegue Margherita – per forza eroi o donne e uomini coraggiosi, basta sapere dire anche no”. Il pericolo di questi giorni Margherita Asta lo individua con precisione: “Sono la mafia e la corruzione, la politica oggi ha il dovere di portare in Parlamento proposte di legge utili a contrastare questo sistema criminale, Libera ha raccolto 1 milione di firme per avere più norme severe contro la corruzione e per vedere confiscati i beni a chi è corrotto”.
Applaudono alla fine gli studenti del Mattei. Un paio di ore di una lezione importante. Qui tra loro c’è chi racconta che le mafie non ci sono, non esistono, la stessa cosa accadeva a Trapani in quel 1985 mentre la mafia ammazzava. 
Qui, in Emilia Romagna la mafia non uccide, ci prova però a farlo, qui le mafie ci sono da tempo e le si trovano dentro le imprese, l’economia, ma c’è chi nega l’evidenza. C’è anche chi come Giovanni Tizian, giornalista di frontiera, ha raccontato di mafie e ndragheta, e si è trovato presto presto nel mirino dei sicari, gli stessi che tempo addietro gli hanno ucciso il padre in Calabria. Tizian oggi giovanissimo vive sotto scorta, e, al solito, quando scoppiano storie come la sua, tutti si ricordano, per dimenticarsene molto presto dei cronisti di periferia, quelli che più di altri giornalisti sono a pochi passi dai boss e ne raccontano le gesta di morte. Come accade in Sicilia, in ognuna delle nove province siciliane ci sono storie di cronisti da raccontarsi come quella di Tizian, e storie di studenti, come quelli di Fiorenzuola, ai quali c’è sempre pronto qualcuno che racconta loro che le mafie non ci sono. E invece non è così. A Trapani comanda quel gran pezzo di assassino che si chiama Matteo Messina Denaro uno che il cuore non l’ha nemmeno ammorbidito in nome della figlia che oggi frequenta un liceo di Castelvetrano e che non ha mai conosciuto il padre e che soprattutto non deve conoscere delle gesta criminali del genitore che quel giorno di 20 anni addietro a Mazara voleva uccidere un poliziotto che aveva fatto solo il suo dovere e che l’anno appresso si mosse in giro per l’Italia a piazzare bombe, a Roma, Milano e Firenze, per costringere lo Stato alla trattativa. Matteo Messina Denaro è questo e ancora peggio di tutto questo. 
Rino Germanà e Margherita Asta restano invece testimoni di storie amare, ma rappresentano loro, assieme ad altri, la storia bella di questa nostra Sicilia e di questa nostra Italia. Vent’anni dopo dalle stragi dovremmo ricominciare proprio da loro due, con loro due e con tutti quelli che sono come Rino e Margherita.      

sabato 28 aprile 2012

Processo 'ndrangheta, 172 chiedono di spostare il processo in Calabria

Processo 'ndrangheta, 172 chiedono di spostare il processo in Calabria
fonte: LA Stampa. 
Hanno chiesto di essere giudicati a Reggio Calabria i 172 accusati di concorso in associazione mafiosa a Torino. Di loro 117 sono detenuti dal giugno 2010 quando vennero arrestati nel corso della maxi-operazione Minotauro contro le infiltrazioni dell’ ’ndrangheta in Torino e provincia.
In udienza preliminare (che apertasi ieri proseguirà fino al 25 maggio) tutti gli accusati hanno presentato eccezione di competenza territoriale.». Il gup Francesca Christillin ha annunciato che si pronuncerà sulla questione il prossimo mercoledì. I cinque pubblici ministeri hanno replicato che  «ormai la ’ndrangheta è un fenomeno da anni impiantato nel Torinese, dove sono le "locali" e dove avvengono le attività di stampo mafioso.
Intanto è scaduto oggi il termine per costituirsi parte civile in questa fase del procedimento penale. Al momento soltanto un imprenditore di Cuorgnè, che fu vittima di estorsione, ha deciso di farsi avanti, ma altri enti pubblici o associazioni possono costituirsi parte civile in apertura di fase dibattimentale.

venerdì 27 aprile 2012

PINO MANIACI. TeleJato è lui. La televisione più piccola e rompicoglioni del mondo.


 TeleJato, Beauty contest, quando l’economia governa vita e libertà
27 aprile 2012
Fonte: Pietro Orsatti. appunti per un racconto sociale  

Dicono che a giugno taglieranno la spina. Dicono che circa 200.000 persone perderanno la loro voce. Dicono che queste sono le leggi del mercato, se non hai i soldi per comprarti un diritto non puoi neanche esercitare un dovere. Dicono che c’è un mare di gente che brinderà quando quella porta sarà chiusa. Dicono che va bene così, i provocatori devono essere isolati. Dicono che la mafia non esiste e se mai è esistita lo è stata solo perché c’era gente che raccontandola le dava importanza. Dicono che non bisogna disturbare il navigatore. Dicono che per andare in video bisogna avere un editore. Dicono che per avere un editore bisogna essere obbedienti. Dicono che non bisogna pensare male del trasformismo. Dicono che il patto con il diavolo non è poi così male basta farci l’abitudine. Dicono che per vivere bisogna andare porta a porta con il cappello in mano. Dicono che la politica “del bene” non può mai essere criticata. Dicono che gli affari sono affari e chi se ne fotte della libertà di informazione. Dicono che chi ha i baffi, parla in dialetto, si fa capire dalla gente, spiega le cose in modo semplice e macina chilometri, impreca, si incazza, ride, vive, sbatte il muso, suda, non dorme e vive di malox e sigarette non abbia diritto di considerarsi giornalista. Dicono che chi mette la propria vita sul piatto della bilancia sia un fesso.
Dicono queste cose nel Belpaese.
Dicono queste cose mentre a Festival del Giornalismo di Perugia sfilano i big (reali e presunti) dell’informazione e si concede ennesimo spazio a chi spazio ne ha da decenni (2000 puntate non bastano?) facendo dell’informazione al servizio del potere farsa e inganno. Ma si sa, in un paese come questo mica si può pretendere che “la questione morale” riguardi anche a se stessi. Anime belle, fottiamocene allegramente di chi informazione la fa sul serio, senza una lira, sul campo, rischiando vita e coglioni per raccontare un frammento di realtà. E se poi lo fanno fuori – e ci hanno provato, eccome se ci hanno provato – poi facciamo un bel premio di giornalismo o un osservatorio o un fiction da mandare in prima serata. In memoria di. Lo spettacolo deve continuare. Spettacolo.
Conosco Pino Maniaci, e Patrizia, Letizia e Giovanni, da un bel po’ di anni. Mi onoro della loro amicizia. Con loro ho diviso risate e lacrime, paura e rischi, successi di un giorno e paure e difficoltà di anni. Con Pino mi sono trovato a scappare come un cretino in mezzo alla campagna per essere andato a filmare una delle tante stalle abusive dei Fardazza (se non sapete chi sono i Fardazza andate a guardarvi il capitolo “strage di Capaci” e “ala militare di Cosa nostra” su Wikipedia visto che ormai a questo contenitore avete delegato la memoria e la semplificazione), mi sono beccato minacce e intimidazioni, fatto chilometri, cercato tracce del fenomeno mafioso, raccontato pezzi di realtà, cagato sotto la notte dell’attentato del 17 luglio 2009.
Cronista di razza Pino, di quelli dalle scarpe sfondate e dai peli sullo stomaco. Uno che non molla. E infatti non ha mollato. Perfino quando l’ordine dei giornalisti siciliani (lo stesso che gli ha dato poi il tesserino da pubblicista dopo la colossale figura di merda che stava facendo) si fece parte in causa in un tentato processo nei suoi confronti per “esercizio abusivo della professione”. Uno che non ha mollato nonostante la fame, le minacce a lui e alla sua famiglia, amici e collaboratori. Uno che per azzittirlo lo dovresti strangolare per strada o fargli saltare in aria la macchina (e ci hanno provato infatti sia a strangolarlo che a fargli saltare per aria la macchina). TeleJato è lui. La televisione più piccola e rompicoglioni del mondo. Oggetto prezioso e delicato, seguito da più di 200.000 persone che senza saltare un giorno preferiscono il Tg di TeleJato ai programmi rassicuranti e politicamente allineati di Rai e Mediaset. Dove? In un triangolo di terra di Sicilia che va da Corleone a Castellammare del Golfo a Cinisi. Con al centro Partinico da dove va in onda. Vi devo spiegare che razza di territorio è? Vi devo raccontare la storia di Cosa nostra dal 1943 in poi? Vi devo parlare di quanto sangue e dolore violenza quel territorio è stato attraversato? Spero di no. Se non sapete un cazzo di quello di cui sto parlando c’è sempre Wikipedia, di lei vi fidate, no?
Bene: Pino Manici a giugno chiuderà TeleJato. Una roba del genere, che dovrebbe essere tutelata e tenuta in vita da un Stato e da una comunità che abbiano un minimo di di dignità, verrà azzittita. Grazie a una leggina dal nome rassicurante di “Beauty contest” che mette all’asta tutte le frequenze televisive con una base di partenza irraggiungibile per un’emittente delle dimensioni di TeleJato. Perché nonostante le promesse di mantenere uno spazio (promessa fatta da questo governo) per le televisioni comunitarie (e questo è formalmente e nei fatti TeleJato) alla fine l’impegno non è stato mantenuto. E TeleJato chiuderà.
E parliamo di informazione? E parliamo di “paese moderno”? E parliamo di svolta morale?  Alla fine i “piccioli”, in questa logica di riduzione della vita di una collettività a una conduzione meramente economica, vincono su tutti. I soldi non puzzano. Anzi, ormai siamo andati oltre. I soldi sono tutto. Tutto il resto è sacrificabile. Anzi, peggio, ignorabile.

domenica 22 aprile 2012

GIOVANNI FALCONE UN EROE SOLO

GIOVANNI FALCONE 
UN EROE SOLO
Maria Falcone racconta alla giornalista Francesca Barra suo fratello Giovanni Falcone. La vita, gli studi, l'amore, il lavoro.Le delusioni, gli sforzi. Un ritratto di Giovanni Falcone anche attraverso le testimonianze di tre colleghi e amici: Loris D'Ambrosio, Consigliere del Presidente della Repubblica, dirà deil lavoro romano del giudice; Leonardo Guarnotta, Presidente del Tribunale di Palermo che condivise il lavoro del pool e Il procuratore di Caltanissetta; Sergio Lari che chiarirà a che punto sono le indagini sulla strage