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mercoledì 13 marzo 2013

Processo Minotauro. E' l'ora dei politici "che non sanno"


Nell'aula Bunker delle Vallette, ieri è stato il momento di sentire la politica: "la politica che non sa!" La Procura ha chiamato a testimoniare gli esponenti che hanno intrattenuto rapporti al fine di ottenere il consenso con persone poi tratte in arresto a seguito della conclusione dell'operazione Minotauro. 


Fonte: Libera Piemeonte

Se per molti rappresentanti della politica piemontese si è scelto di acquisire agli atti le dichiarazioni rese agli inquirenti, per Fabrizio Bertot, ex Sindaco di Rivarolo Canavese e Francesco Brizio Falletti, attuale sindaco di Ciriè e presidente della GTT, la procura ha preferito sentire quanto avessero da raccontare.

Bertot, incalzato dal Pm Sparagna, ha raccontato come fosse arrivato al pranzo elettorale - per la sua elezione alle europee del 2009 - al Bar Italia, di proprietà di Giuseppe Catalano e luogo di summit della 'ndrangheta. A portarlo Antonino Battaglia, segretario di Rivarolo Canavese -- comune sciolto per infiltrazione mafiosa -- oggi a processo di voto di scambio. L'ex sindaco di Rivarolo, a suo dire, era consapevole del bacino elettorale al quale stava chiedendo voti -- quello del gruppo dei calabresi -- ma non certo del profilo criminale delle persone incontrate. Sapeva anche del passato legato ad ambienti malavitosi di Giovanni Iaria, uomo che ha appoggiato la sua candidatura, ma pensava si trattasse di un parente, come ha riferito in aula.
Il primo cittadino di Ciriè, appoggiato secondo la tesi della Procura da Salvatore De Masi, capo locale di Rivoli, era all'oscuro di tutto: non sapeva a chi stesse chiedendo il consenso.



Emblematica la percezione che il Sindaco aveva della presenza della 'ndrangheta in provincia di Torino, prima della chiusura dell'operazione Minotauro. Incalzato dal Procuratore Gian Carlo Caselli, che ha elencato gli atti ufficiali e pubblici che testimoniavano l'esistenza della criminalità organizzata in Piemonte, ben prima del 2011, l'esponente pd ha dichiarato di non esserne al corrente, nonostante la lettura attenta dei giornali.

venerdì 21 settembre 2012

Memoria e impegno. Il sacrificio di Rosario Livatino, "il giudice ragazzino"; il coraggio civile di Pietro Ivano Nava, testimone oculare dell'omicidio


Oggi ricorre l'anniversario della uccisione di Rosario Livatino. L'ennesima vittima innocente, l'ennesima "bella vita" schiacciata vilmente dalle mafie.
La vita, la morte e la memoria di Rosario Livatino sono l'occasione per sottolineare la responsabilità civile a cui noi cittadini siamo chiamati: solo grazie alla testimonianza Pietro Ivano Nava, il tranquillo rappresentante di commercio che assistette casualmente all'omicidio, è stato possibile rendere giustizia a Rosario Livatino, individuando l'esecutore e i mandanti dell'assassinio del "giudice ragazzino"

Rosario Livatino, "Il giudice ragazzino" secondo una definizione coniata da Francesco Cossiga,  fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre '90 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre - senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto - si recava in Tribunale.
Grazie alla testimonianza di Pietro Ivano Nava, il rappresentante di commercio che assistette casualmente all'omicidio, per la sua morte sono stati individuati i componenti del commando omicida e i mandanti . Tutti condannati all'ergastolo, in tre diversi processi e nei vari gradi di giudizio,  con pene ridotte per i "collaboranti".
Come Sostituto Procuratore della Repubblica al Tribunale di Agrigento, Rosario Livatino si occupò di delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche, nel 1985, di quella che poi negli anni '90 sarebbe scoppiata come la "Tangentopoli siciliana". Fu proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato. Dal 21 agosto '89 al 21 settembre '90 Rosario Livatino prestò servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione. 

 "ALLA FINE DELLA VITA , QUANDO MORIREMO, NESSUNO CI  VERRA' A CHIEDERE SE SIAMO STATI CREDENTI, MA CREDIBILI "( Rosario Livatino)
La stele posta su una parete del  un bene confiscato alla mafia a Naro in provincia di Agrigento dove ha sede la cooperativa aperta nei mesi scorsi


La storia di Pietro Ivano Nava, il testimone dell'omicidio 

di Rosario Livatino. "COSI' PAGA CHI AIUTA LO STATO".


fonte La Repubblica 08 aprile 1992 

Di Giuseppe D’Avanzo
(…) Era un venerdì caldo e senza afa. Erano le nove del mattino. Pietro Ivano Nava, agente di commercio, era a bordo della sua Lancia Thema a quattro chilometri da Agrigento.
Vide sul lato della strada una Ford Fiesta rosso-amaranto con la portiera aperta sul lato destro. Accanto un ragazzotto con il volto coperto dal casco. Più in là, un altro uomo. Sta scavalcando il guard-rail. Ha il volto scoperto, stringe nella destra una pistola. Insegue Rosario Livatino. Il "giudice ragazzino" di Agrigento è stato già colpito ad una spalla. Sta tentando la fuga in un vallone di erba bruciata e sterpi. Il killer della mafia lo braccherà come una bestia. Lo colpirà da lontano e, una volta abbattuto, sparerà ancora - quattro volte - per finirlo. Pietro Ivano Nava dalla sua Lancia Thema fa in tempo a vedere bene l' assassino in faccia. Raggiunge Agrigento. Chiama la polizia. Dice: "Ho visto l' assassino. Se lo trovate, saprei riconoscerlo". E lo ha riconosciuto davvero Domenico Pace, l' assassino.
"Non mi sento un eroe, non mi sento una mosca bianca. Non sono né l' uno né l' altro. Sono un cittadino che crede nello Stato né più né meno come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato non è un' entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono...". Pietro Ivano Nava è oggi un fantasmaHa lasciato la casa di Monte Marenzo, un paesino della Bergamasca dove ha vissuto per dieci anni. E' stato cancellato dai registri dell' anagrafe, dall' elenco telefonico, dal ricordo dei suoi familiari. Ha vissuto in un anonimo condominio della periferia romana, si è rifugiato su un' isola del golfo di Napoli e ancora in un paesino dell' Irpinia. E' emigrato in Olanda. 
Per sfuggire alla vendetta della mafia, vive ora in un' altro Paese europeo
Dice: "La mia vita è stata stravolta, sì. Ho 42 anni. Avevo degli amici che mi erano cari come fratelli. Non li vedo più, non ci si telefona nemmeno. Ho una famiglia. Posso vederla soltanto di tanto in tanto. Sempre all' improvviso, sempre in fretta. Ho una compagna e due bambini di nove e quattro anni. Trascorriamo del tempo insieme. Quando è possibile, se le condizioni di sicurezza lo permettono. 
Avevo un lavoro. Ero il rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate della ' Dierre' di Villanova d' Asti. Mi hanno licenziato che non era passato neanche un mese dal quel 21 settembre ancora prima di sapere che inferno sarebbe diventata la mia vita. Semplicemnte non volevano guai". La lentezza dello Stato "Avevo una società in nome collettivo in Campania, la ' Delli Cicchi-Nava' . E' stata sciolta due mesi dopo. Ero socio di un' altra società. Anche questa finita. Guadagnavo molto bene. Avevo davanti un futuro senza nubi. Ora vivo di quel che mi passa lo Stato. Non può essere questo il mio futuro. Allo Stato non chiedo nulla, chiedo che non abbandoni la mia famiglia. La mia famiglia, in questa storia, non deve entrarci. Non deve correre nessun pericolo. Mai. Né oggi né domani. Finora non ho nulla da recriminare. Chi mi sta accanto ha fatto il suo dovere. A volte con efficienza, a volte con un' esasperante lentezza burocratica. Io non sono un ' pentito' della mafia o della camorra. A volte ho la sensazione che, per la macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un ' pentito' e un testimone con un' immacolata fedina penale". ( N.d.r.: all'epoca dell'articolo era ancora da venire la Legge 41/2001 che introduce  la figura del "testimone di giustizia" nella giurisdizione italiana)
E il futuro? Pietro Ivano Nava tace per un un attimo. Poi, dice: "Io ho perso le piccole cose, gli affetti, le consuetudini, i luoghi cari che fanno, di un uomo, un uomo. Ora voglio essere soltanto dimenticato. Chiedo di poter ricostruire la mia normalità, la mia anonima vita normale lontano da scorte e bunker. E non voglio passare da un tribunale ad un altro per ripetere la stessa dichiarazione già letta, sottoscritta, registrata, filmata. Un cruccio? Sì, non potrò più tornare in Sicilia. Mi piacevano i siciliani. Gente geniale, operosa, allegra, viva. Vivono in un contesto terribile. Hanno solo bisogno di un po' di fiducia...".

mercoledì 13 giugno 2012

PROCESSO "MINOTAURO": la 'ndrangheta in Piemonte


 PROCESSO MINOTAURO

'Ndrangheta, chieste 73 condanne

Fonte: La Stampa


Il processo si svolge nell'aula bunker del tribunale in corso Regina

L'accusa è associazione mafiosa
L'operazione ha svelato i legami
tra cosche e politica in Piemonte

TORINO
La Procura di Torino ha chiesto la condanna di 73 persone, la maggior parte per associazione di stampo mafioso, nell'ambito dell’inchiesta Minotauro, l’operazione, con 170 indagati, che ha smantellato le cosche della ’ndrangheta in Piemonte svelando tentativi di condizionamento della vita politica locale.
Le richieste sono state formulate per gli imputati che hanno scelto di farsi giudicare con il rito abbreviato. La pena più alta, 15 anni, proposta per Aldo Cosimo Crea.

Per ricordare Giuseppe Letizia. "La mafia uccide, la speranza non muore".

Per ricordare che "La mafia è una montagna di merda!" (Peppino Impastato)
Fonte: Corleone Dialogos
Corleone: "La mafia uccide, la speranza non muore". Per ricordare Giuseppe Letizia...PDFStampaEmail
articoli - Corleone
Scritto da Clarissa Arvizzigno   
Martedì 12 Giugno 2012 20:59
"La mafia uccide, la speranza non muore", perché Cosa Nostra è capace di ammazzare silenziosa, di stroncare vite, di trucidare corpi celandosi dietro l'ombra dell'omertà, del disonore, che tuttavia scopre un velo di "speranza" come riscatto per il presente che si deve fare certezza per il futuro .
Martedì 12 giugno 2012 l'I.C. Giuseppe Vasi con l'Assessorato regionale della Pubblica Istruzione ha organizzato un incontro con i ragazzi, con i docenti delle scuole corleonesi in memoria di Giuseppe Letizia , giovane vittima uccisa dalla mafia nel 1948.Il terreno confiscato alla mafia in contrada Sant'Ippolito e assegnato all'IPA ora porterà il suo nome. Una morte prematura quella del piccolo Giuseppe, che nel suo apparente "silenzio" sembra riecheggiare quella giustizia pressoché assente nella Corleone di Luciano Liggio e di Michele Navarra. Una giustizia fatta di lupare, di fucili, di violenza che si macchia del sangue di Placido Rizzotto per sopprimere l'eco di una speranza che il giovane sindacalista desiderava divenisse realtà: "Fare del lavoro onesto il fondamento di una Corleone libera dalla mafia." Sono intervenuti tra gli altri il Sindaco di Corleone Lea Savona, il Senatore Giuseppe Lumia e ha coordinato i lavori Pippo Cipriani coordinatore nazionale dell'I. F. Santi.
Il perché della necessità di un diploma di licenza media ad honorem di Giuseppe Letizia è stato spiegato dal Dirigente scolastico, Prof. Leoluca Sciortino con una duplice motivazione. Da un lato, infatti, si rende onore alla memoria di un ragazzino cui è stato sottratto per sempre il diritto all'istruzione, dall'altro ci si serve di questa memoria come chiave di lettura per il presente, come simbolo di riscatto in grado di mobilitare le coscienze pietrificate del popolo corleonese.
"Il lavoro che rende liberi dalla mafia": forse è questo lo spiraglio di speranza, anzi l'arma più efficace per combattere Cosa Nostra, per creare in una realtà inerte delle idee mobili, dei pensieri liberi.
Queste le parole del Coordinatore di Libera Informazione Palermo Giuseppe Crapisi, questo il messaggio che svecchia Cosa Nostra denudandola nella sua misera malvagità: "Libera coniuga memoria e impegno, ricordando come a Corleone nel passato la memoria è stata cancellata dalla mafia; anche Giuseppe Letizia è stato dimenticato, ma ciò che Cosa Nostra ha voluto cancellare è l'idea radicata della vecchia mafia che non tocca donne e bambini. Giuseppe Letizia dà memoria di cosa è stata sempre la mafia. Così, ricordando Verro, Rizzotto, voglio ricordare che la memoria deve essere accompagnata dall'impegno per dare lavoro ai cittadini". 
Tuttavia Corleone non è il paese della mafia bensì dell'antimafia, come ha ricordato l'assessore regionale della Pubblica Istruzione Mario Centorrino.
Si dovrebbe sradicare questa ideologia fin troppo cristallizzata che vede Corleone come capitale della mafia; perché è "l'idea" che servendosi dell'ausilio della memoria plasma l'azione, le dà corpo e dunque la sorregge creando così "un'azione mobile e dinamica" volta a combattere comuni pregiudizi, false opinioni, ma soprattutto le mille facce di Cosa Nostra.

venerdì 20 aprile 2012

'Ndrangheta, il padrino si getta dalla finestra della sua abitazione a Volvera (To)


Suicida Giuseppe Catalano: il suo nome è tra i più importanti dell’operazione «Minotauro», condotta dai carabinieri  nel giugno 2011. 
Si era dissociato ed era agli arresti domiciliari
Fonte : La Stampa

Il bar Italia a pochi passi dalla caserma della polizia in via Veglia, dove Giuseppe Catalano incontrava affiliati e gestiva affari

MASSIMILIANO PEGGIO
TORINO

"Ammetto di aver aderito all’organizzazione di cui sono accusato ma non intendo più farne parte». Così, con una lettera inviata al tribunale e alla procura, Giuseppe Catalano, considerato un padrino della ’ndrangheta e capo locale di Siderno a Torino, si era dissociato di recente dall’organizzazione criminale. Da una ventina giorni era agli arresti domiciliari per motivi di salute. Ieri si è tolto la vita lanciandosi dal balcone di casa, a Volvera.
Giuseppe Catalano, nato a Siderno il 10 maggio 1942, era finito in carcere due anni fa, a seguito dell’inchiesta coordinata dalla procura di Reggio Calabria. Ma il suo nome è tra i più importanti dell’operazione «Minotauro», condotta dai carabinieri del Comando Provinciale di Torino nel giugno 2011. Indagine monumentale contro l’infiltrazione della criminalità calabrese in Torino e provincia: 172 imputati, molti già a processo. Tra questi proprio Giuseppe Catalano. Il «padrino» era depresso.
Il suo fisico era provato dalla lunga carcerazione e da una malattia che si stava aggravando. Ieri ha deciso di farla finita buttandosi dal primo piano della sua villetta. Una volo di circa sei metri. Nella caduta ha riportato un grave trauma cranico. La figlia era in casa. Ha sentito un tonfo. Si è affacciata alla finestra e ha dato subito l’allarme. Giuseppe Catalano è stato trasportato in ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale San Luigi di Orbassano. È arrivato alle 16,15. Era in arresto cardiaco. Non c’è stato nulla da fare. Sul fatto che il «padrino» si sia suicidato non sembrano esserci dubbi. Sul cadavere sarà comunque effettuata l’autopsia.
«I numerosi elementi hanno dimostrato - si legge negli atti dell’inchiesta Minotauro - sia l’appartenenza di Catalano all’associazione in argomento, sia il particolare ruolo di assoluto rilievo da lui ricoperto: tale carica lo ha portato a essere protagonista di varie vicende inerenti l’intero sodalizio nella sua dimensione territoriale piemontese». Gestiva il «Bar Italia» di via Veglia 59 a Torino.
Lì faceva affari, organizzava incontri con gli altri «militanti», brindava alle campagne elettorali. Come nel 2009, quando l’attuale assessore regionale al Lavoro, Claudia Porchietto, candidata alla presidenza della Provincia, fu filmata dai carabinieri sulla soglia del locale. «Per me Catalano era un contatto puramente elettorale, una delle migliaia di mani che ho stretto. Non lo conoscevo» disse poi l’assessore, prendendo le distanze dalla quella visita. Tra le relazioni finite nella bufera, anche quella con il sindaco di Rivarolo Fabrizio Bertot. «Non sapevo chi fosse Catalano. Questa storia mi ha distrutto» ripete da mesi il primo cittadino.