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lunedì 15 settembre 2014

Don Pino Puglisi: "E se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto". Ucciso in odio alla fede e all'Uomo

Padre Pino Puglisi, ma per i suoi parrocchiani era "3P".

Questo prete era differente: "(...) si sapeva che faceva delle messe non proprio a favore della mafia". Fu ucciso dalla mafia la sera del suo compleanno, il 15 settembre 1993: erano passate da poco le otto della sera. Salvatore Grigoli, il killer che lo aspettava, don Pino sorrise dicendo "Me l' aspettavo".

Di oggi la notizia pubblicata su La Repubblica secondo la quale sarebbe stato ritrovato un nastro registrato nel quale Don Puglisi, mostra la consapevolezza di essere in grave pericolo: "Il testimone deve rischiare...io sto rischiando  grosso forse, non lo so, però credo nell'amicizia". Ma Don Puglisi rimase non andò via da Brancaccio

Il sogno di don Puglisi: "Pochi giorni fa, prima di tornare qui come parroco, io ho sognato il futuro di questo quartiere ed è stato proprio bello. Bello perché ho sognato un posto dove erano spariti i furti, era sparita la droga, dove non c'erano più violenze, prepotenze, dove la gente non aveva paura, dove non c'era più la fame perché c'era lavoro per tutti, dove c'erano delle scuole bellissime, dove i bambini giocavano... Io ho sognato il futuro di questo quartiere ed è stato proprio bello!"


Riproponiamo l'articolo de La Stampa, pubblicato lo scorso maggio in occasione della beatificacazione di Don Puglisi

Decine di migliaia a Palermo
per don Puglisi proclamato beato


IL MARTIRE DELLA FEDE DON PUGLISI È IL PATRONO DELLA CHIESA ANTI-MAFIA. «D’ORA IN POI NESSUNO POTRÀ PIÙ USURPARE IL NOME DI DIO PER GIUSTIFICARE LA MENTALITÀ CRIMINALE DI QUEI CLAN CHE PER DECENNI SI SONO AMMANTATI DI FALSA E BLASFEMA RELIGIOSITÀ», AFFERMA A IL VESCOVO DI MAZARA DEL VALLO DOMENICO MOGAVERO, EX POSTULATORE DELLA CAUSA DI BEATIFICAZIONE DEL PARROCO PALERMITANO UCCISO DA COSA NOSTRA. 

«L’autentica fede in Cristo è incompatibile con qualunque appartenenza ad organizzazioni che avvelenano la società e la privano del suo futuro»,aggiunge Mogavero, presente insieme a oltre 80mila fedeli al Foro italico di Palermo per la beatificazione di Padre Pino Puglisi, il sacerdote di Brancaccio che sorrise anche di fronte ai killer della mafia che lo uccisero il 15 settembre 1993. 

Sul Prato del Foro italico c’è un clima di festa serena, tantissime le famiglie presenti, centinaia i volontari provenienti da tutta Italia, scout e associazioni di quartiere. E poi ci sono tantissimi ragazzi che quando Don Pino era a Palermo non erano ancora nati. L’annuncio era stato dato il 28 giugno scorso: don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, nuovo Beato. Benedetto XVI aveva riconosciuto il fatto che l’esecuzione ordinata dai boss e avvenuta davanti alla parrocchia di San Gaetano, retta dal sacerdote, nel quartiere Brancaccio, fu «martirio», commesso «in odio alla fede». 

E Papa Francesco, appena lunedì scorso, durante la visita «ad limina» della Conferenza episcopale siciliana ha esortato la Chiesa locale a dare contro la mafia, una testimonianza più chiara e più evangelica. Nei quasi 20 anni che separano dall’assassinio di padre Pino, «la verità è infine emersa», ha a suo tempo spiegato il postulatore della causa di beatificazione, l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, legando la verità del martirio di Puglisi a «quella giudiziaria, vergata con inchiostro indelebile dalla Cassazione» secondo cui «l’omicidio fu deciso dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano per mettere a tacere un sacerdote scomodo, socialmente impegnato, che col suo ministero di pastore di anime, di formatore di coscienze cristiane, soprattutto di quelle dei fanciulli, li ridicolizzava sottraendo loro manovalanza, prestigio e potere, come del resto sprezzantemente li rimproverava uno dei capi indiscussi di Cosa Nostra, Leoluca Bagarella».  

Chi diede l’ordine di ucciderlo lo fece «non per eliminare un pericoloso nemico, alla stregua di magistrati, giornalisti, esponenti delle forze dell’ordine e della società civile, ma per cercare di fermare un luminoso testimone di fede». Puglisi «era persona tutta di un pezzo, agiva umilmente, con semplicità, senza cercare visibilità, antieroe: annunciava e proclamava l’Unico Necessario, il Padre Nostro». E fu proprio l’essere un uomo libero, «armato della sola forza della Parola, a costargli la vita», giustiziato dall’odio che i mafiosi nutrivano verso il suo modo di essere sacerdote. La sua figura riveste un ruolo di «grande importanza per la società civile, per la Chiesa universale, in particolare per la Chiesa palermitana e siciliana e per tutte quelle che si confrontano sul proprio territorio con le organizzazioni criminali, perché il suo sacrificio ha svelato il grande inganno della mafia, sedicente portatrice di religiosità. Il suo esempio è stato ed è così forte da aver attraversato il tempo: nei 19 anni trascorsi, Brancaccio, Palermo, la Sicilia, l’Italia, il mondo non lo hanno dimenticato». 

«La mafia è intrinsecamente anticristiana», ha poi ribadito il prefetto della Congregazione per le cause dei santi, cardinale Angelo Amato. Quello di don Puglisi, spiega, è stato un «martirio, perché è stato ucciso in odium fidei». «Ovviamente - ha sottolineato il cardinale salesiano - qui bisogna chiarire cosa significa in odium fidei, dal momento che la mafia viene descritta spesso come una realtà “religiosa”, una realtà i cui membri sembrano apparentemente molto devoti». Nel processo canonico, è stato approfondito questo aspetto «e abbiamo visto come, da una parte, abbiamo un’organizzazione che, più che “religiosa”, è essenzialmente “idolatrica”». Anche il paganesimo antico, ricorda Amato, era “religioso”, ma la sua religiosità era rivolta agli idoli. Nella mafia gli idoli sono il potere, il denaro e la prevaricazione. È quindi una società che, con un involucro pseudo religioso, veicola un’etica antievangelica, che va contro i dieci comandamenti e il Vangelo. La Scrittura dice: non uccidere, non dire falsa testimonianza. Nella ideologia mafiosa, invece, si fa esattamente l’opposto. Gesù ha detto di perdonare ai nemici e qui troviamo il contrario: la vendetta. Per la Chiesa Cattolica, dunque, «la mafia è intrinsecamente anticristiana». Per di più, l’odio verso don Puglisi era determinato «semplicemente dal fatto che si trattava di un sacerdote che educava i giovani alla vita buona del Vangelo». Dunque «sottraeva le nuove generazioni alla nefasta influenza della malavita». Davanti a casi analoghi, altri vescovi, potranno ora decidere di seguire l’esempio dell’arcidiocesi di Palermo e introdurre cause di beatificazione per chi ha pagato con la vita il suo impegno per sottrarre i ragazzi alle cosche.  

Secondo il prefetto per le cause dei santi, «pur in un contesto nuovo anche in don Puglisi si verifica il concetto tradizionale di martirio e cioè, appunto, un battezzato ucciso in odio alla fede». È stato ucciso «in quanto sacerdote, non perché immerso in attività socio-politiche particolari. Ucciso in quanto predicava la dottrina cristiana ed educava i giovani a vivere con coerenza il loro battesimo».
Morì per strada, ha sottolineato don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, «dove viveva, dove incontrava i `piccoli´, gli adulti, gli anziani, quanti avevano bisogno di aiuto e quanti, con la propria condotta, si rendevano responsabili di illegalità, soprusi e violenze. Probabilmente per questo lo hanno ucciso: perché un modo così radicale di abitare la strada e di esercitare il ministero del parroco è scomodo. Lo hanno ucciso nell’illusione di spegnere una presenza fatta di ascolto, di denuncia, di condivisione». Per don Ciotti, il sacerdote palermitano «ha incarnato pienamente la povertà, la fatica, la libertà e la gioia del vivere, come preti, in parrocchia». Con la sua testimonianza, dunque, don Pino «ci sprona a sostenere quanti vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio». 
Don Puglisi, “figura bellissima”, è stato ucciso “in odium fidei”, per odio della fede da parte di chi lo ha assassinato, ottolinea il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei:”E’ stato ucciso in quanto sacerdote che faceva il suo dovere, specialmente sul piano educativo delle giovani generazioni. E dunque è un martire».  

lunedì 16 luglio 2012

“L’UNICO PONTE CHE VOGLIAMO”…IN MEMORIA DI RITA ATRIA.

Una riflessione sul significato della "memoria".

MONASTERACE 28 LUGLIO: “L’UNICO PONTE CHE VOGLIAMO”…IN MEMORIA DI RITA ATRIA.

Targa Rita Atria
sulla lapide di RITA ATRIA
Vent’anni da quel 26 luglio 1992 quando Rita Atria, lasciata sola da tutti (famiglia, concittadini, società “civile” e Istituzioni) ha deciso di non farsi uccidere da quello che sarebbe accaduto dopo la morte del suo giudice, Paolo Borsellino, gettandosi dal 7° piano di viale Amelia a Roma.
L’idea che abbiamo noi di Memoria è quella scritta dal nostro Mario Ciancarella: “ricordare non basta. Memoria è un ricordo “attivo” che vuole comprendere i meccanismi, le cause e dunque le ragioni che  determinarono una storia, e sa rileggerle nel presente per capirne le “mutazioni” e le mimetizzazioni nelle forme nuove in cui quella stessa violenza torna e tornerà ad esercitarsi. Forme diverse sempre più evolute e sofisticate. E’ dunque solo la Memoria a dare senso al proprio impegno per costruire un futuro in cui si possa sperare che quella violenza non torni a mostrarsi, con volti diversi ma la con medesime atrocità, per il nostro passivo ed ignaro consenso. Perdere “la Memoria storica” ci rende estranei a noi stessi, incapaci di riconoscere le nostre radici, di capire il nostro presente, di costruire un qualsiasi futuro.”
Fare Memoria di Rita Atria dunque significa innanzitutto ricordare le cause che l’hanno portata a togliersi la vita e non solo esaltarne il gesto forte della Testimonianza e della rottura con la propria famiglia.  Sarebbe facile, rientrerebbe nella solita prassi ormai consueta che si limita al necrologio” da strumentalizzare, e tanti ne vediamo purtroppo di questi “eventi”.
La Testimonianza, in ogni tipo di settore e nella sua accezione reale, di prassi,  dovrebbe essere supportata dalla presenza sia politica che civile: un Paese dove chi testimonia entra in un programma di protezione non può di certo definirsi “normale”.
Bisogna partire dal riconquistare il senso della “normalità” e abbandonare la comoda e deviante definizione di “eroe”. Borsellino, Falcone, La Torre, Peppino Impastato, Pippo Fava, Rita Atria e tanti come loro non sono eroi, ma persone normali che hanno fatto della coerenza e dell’integrità etica e morale del proprio lavoro e del proprio impegno l’unica linea guida della loro esistenza.
Per troppi anni, chi è stato minacciato dalle mafie o chi ha subito attentati è stato portato agli onori della cronaca solo con lo scopo di fare audience. Per troppi anni abbiamo visto andare via dal territorio i  nostri riferimenti che presi dallo sconforto e dalla solitudine hanno creduto che in Parlamento sarebbero stati più utili. La politica non ha avuto il coraggio di rinnovarsi e spesso i politici italiani si sono comportano come coloro che prima ti inquinano causando tumori e poi ti pagano il letto all’ospedale dicendoti che ti stanno curando. Non possiamo permettere più tutto questo e quindi non è più rinviabile il momento dell’analisi.
Abbiamo pensato che non si può fare Memoria da soli perché la Memoria è un processo collettivo che non può prescindere da chi nei territori si spende ogni giorno per studiare le dinamiche di aggressione del potere.
Così il 28 luglio sera, a Monasterace (RC), ricorderemo Rita Atria cercando di capire come fare rete tra realtà che hanno deciso di essere forza di opposizione alle mafie e di controllo politico e sociale.
Ma non basta opporsi occorre anche dimostrare che l’antimafia e le scelte antimafiose creano sviluppo e maggiori possibilità occupazionali e di qualità della vita.
Ogni associazione, movimento, singolo cittadino non può prescindere, soprattutto nei nostri territori da questa analisi, sappiamo bene che le infiltrazioni mafiose sono dovunque e ci riguardano tutti.
Le scelte della politica nazionale tanto sulla Calabria che sulla Sicilia necessitano l’unione delle forze sane e determinate di queste regioni al fine di dare delle letture più ampie nella consapevolezza che ‘ndrangheta e mafia si alimentano dallo stessa fonte di energia e che solo facendo fronte comune e supportandoci a vicenda possiamo ottenere dei risultati.
L’iniziativa del 28 luglio crediamo possa rappresentare un punto di partenza e speriamo un punto di non ritorno per l’antimafia movimentista e sociale calabrese e siciliana.
Ai sindaci che lottano in terre di mafie chiediamo di avere come unico partito di riferimento il Territorio; che  si chiami Monasterace, piuttosto che Rosarno, piuttosto che Isola Capo Rizzuto, piuttosto che  Barcellona P.G., piuttosto che Palermo.
Alla stampa  chiediamo di seguire quello che Pippo Fava definiva il concetto etico di giornalismo e cioè  “Un giornalismo fatto di verità, impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, sollecita la costante attuazione della giustizia, impone ai politici il buon governo[…]”
Agli abitanti dei Territori chiediamo di essere Cittadini e cioè di partecipare attivamente alla vita politica e sociale senza delegare.
Alle Associazioni chiediamo di essere strumento di coesione e punti di riferimento sociali e soprattutto chiediamo indipendenza dai partiti e dalle istituzioni.
Questo è “L’unico ponte che vogliamo”, quello della forza delle idee, della forza della Resistenza sociale e di una antimafia antifascista e antimilitarista.
Associazione Antimafie “Rita Atria”
Documento nato dal confronto durante l’anno con: Associazione Peppino Impastato e Associazione radio Aut nell’ambito del Forum Sociale Antimafia Felicia e Peppino Impastato, SNOQ – Reggio Calabria, Casablanca (Graziella Proto), “I Siciliani” giovani (Riccardo Orioles), Stopndrangheta.it, Telejato.
Per informazioni e adesioni:
info@ritaatria.it

lunedì 28 maggio 2012

il dovere della memoria: Strage di Piazza della Loggia a Brescia - 28 maggio 1974

 Strage di Piazza della Loggia a Brescia . 28 maggio 1974





Lo abbiamo scritto solo pochi giorni orsono, commemorando Melissa Bassi, la studentessa uccisa nell'attentato di Brindisi:
"(...) Morti innocenti, delitti oscuri perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. E’successo e potrebbe succedere ancora: delitti commessi pensando che, in Italia, potesse servire “a qualcosa e a qualcuno” spargere sangue innocente, seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee, valori.(...)"
Quel giorno , il 28 maggio 1974, in Piazza della Loggia era in corso una manifestazione indetta dai sindacati e dal  Comitato Antifascista come atto di protesta contro gli episodi di terrorismo neofascista che si erano manifestati nei mesi precedenti. Una bomba nascosta in un cestino porta-rifiuti fu fatta esplodere mentre la folla era accalcata sotto il palco ascoltando il comizio.
Il 14 aprile 2012 la Corte d'Appello conferma l'assoluzione per tutti gli imputati appartenenti all'area della estrema destra, condannando le parti civili al rimborso delle spese processuali. 
L'ennesima strage italiana, l'ennesima strage "senza colpevoli". 
Quel giorno, il 28 maggio 1974,  oltre ad un centinaio di feriti, morirono 8 innocenti. .

Giulietta Banzi Bazoli, anni 34, insegnante
Livia Bottardi Milani, anni 32, insegnante
Euplo Natali, anni 69, pensionato
Luigi Pinto, anni 25, insegnante
Bartolomeo Talenti, anni 56, operaio
Alberto Trebeschi, anni 37, insegnante
Clementina Calzari Trebeschi, anni 31, insegnante
Vittorio Zambarda, anni 60, operaio