venerdì 4 maggio 2012

AMMINISTATIVE 2012: Libera interroga la politica

Tra qualche giorno si svolgeranno le elezioni amministrative in ottantadue comuni piemontesi. Dopo gli esperimenti degli anni scorsi (L10 Piemonte, L10 Torino, C6 Moncalieri ed L10 Novara), anche altri presidi si sono attrezzati per affrontare questo appuntamento, mobilitando la società civile sui temi della legalità e della trasparenza nell’amministrazione.
Sono nate così le piattaforme AL10 Alessandria, L6 Saluggia, L10 Chivasso, AT8 Asti, L5 Santena, L8 Rivalta, che riprendono alcuni contenuti delle piattaforme precedenti e introducono nuove questioni. I punti più diffusi sono: la richiesta di non candidare personalità indagate o rinviate a giudizio per reati di mafia o contro la pubblica amministrazione, la revisione dei criteri di aggiudicazione degli appalti pubblici (abolizione del massimo ribasso e trasparenza di subappalti, sub-contratti e dettagli delle forniture), l‘adesione ad Avviso Pubblico, l’istituzione della Giornata della Memoria e dell’Impegno nel 21 marzo, la costituzione del Comune come parte civile nei processi per mafia, racket ed usura, il recupero dell’evasione e la destinazione dei proventi per iniziative sociali e culturali e per la partecipazione democratica dei cittadini.
L’appuntamento elettorale, che giunge dopo mesi intensi, segnati dall’accresciuta consapevolezza circa la presenza mafiosa in Piemonte grazie alle operazioni Maglio e Minotauro, assume contorni particolarmente importanti. Alcuni dei comuni al voto sono coinvolti nelle indagini, altri (come Chivasso) sono al vaglio della commissione governativa di accesso agli atti per verificare eventuali condizionamenti mafiosi o, ancora, sono soggetti a commissariamento, per altri motivi.
Santena, cittadina alle porte di Torino, nota per il dilagare del fenomeno dell’usura, è stata commissariata nel maggio scorso, in seguito alle dimissioni di undici consiglieri su venti. Il sindaco uscente, Nicotra, è accusato di truffa aggravata. Le liste sono cinque, ma l’unica che riporta un simbolo noto è la Lega Nord. Nonostante la delicata situazione, in città c’è voglia di cambiamento, e la società civile si sta mobilitando. Il presidio di Libera ha denunciato condizionamenti del voto nei seggi durante la precedente campagna elettorale, e per questo motivo ha proposto, con il sostegno della rete regionale, di vigilare sulla legalità del processo di voto, presidiando costantemente l’ingresso del seggio.
Anche la giunta di Saluggia è stata da poco commissariata, il sindaco Marco Pasteris è inquisito per abuso d’ufficio e imputato per 61 capi d’accusa. Nelle indagini attualmente in corso sembrano coinvolti anche alcuni studi tecnici esterni all’amministrazione. I partiti si sono frammentati e le alleanze ricomposte. Le questioni più sensibili per la cittadinanza attengono alla nota vicenda del deposito di scorie radioattive e alla prospettiva di insediare nella zona un deposito per lo smaltimento dei rifiuti. Il presidio locale ha fatto la scelta di non concentrarsi sulla polemica politica e giudiziaria, ponendosi sul piano propositivo, chiedendo il sostegno delle realtà di volontariato esistenti sul territorio e un impegno per creare spazi idonei per l’esercizio delle attività di formazione e partecipazione.
A Chivasso i candidati sindaco sono 6 e le liste, inizialmente 17, dopo lo scandalo delle firme doppie risultano 15: i Pensionati, di Sabrina Margherita Giovine (sorella di Michele), sono stati ricusati per un numero di firme valide inferiore a quanto stabilito dalla legge, insieme al Movimento No Euro – Lista del Grillo, vicina alla Lega Padana Piemont. Dopo soli sei mesi di mandato, il sindaco Gianni De Mori (centrosinistra), eletto a sorpresa nello scorso maggio grazie all’apparentamento con l’UDC, si è dimesso per motivi di salute, e il comune è stato commissariato. Vicesegretario del partito “decisivo” per la vittoria era Bruno Trunfio, già Assessore ai Lavori Pubblici nella storica giunta di centrodestra (membro, allora, del PdL), figlio di Pasquale Trunfio, arrestato nell’ambito dell’operazione Minotauro in quanto capo-locale di Chivasso. Oggi l’UDC, dopo aver sospeso Trunfio da ogni incarico, torna ad allearsi con il PdL. Nella serata pubblica, tutti i candidati hanno sottoscritto la piattaforma, ad eccezione di Enzo Falbo (lista civica), che si è astenuto dal rispondere, e di Marco Marocco (Movimento Cinque Stelle) che non ha voluto pronunciarsi sull’adesione ad Avviso Pubblico.
Ad Asti vi sono 8 candidati per 21 liste, sembra probabile il ballottaggio, i candidati più quotati sono Brignolo (centrosinistra), Cotto (liste civiche) e Galvagno (centrodestra). La città non sembra avere problemi particolari né scandali in corso. Il coordinamento di Libera, insieme a Legambiente, ha creato una piattaforma che ha sottoposto, durante la serata pubblica, agli otto candidati con domande ad estrazione. Tra i punti che si distinguono maggiormente, vi è quello della riduzione del costo della politica con il taglio delle consulenze, delle indennità e delle spese di rappresentanza, nonché quello del passaggio dell’ASP (la società che gestisce acqua, trasporti, raccolta e smaltimento rifiuti) a gestione pubblica.
Ad Alessandria, comune di circa 95.000 abitanti, si presentano ben 16 candidati sindaco con 34 liste, per oltre 900 candidati consiglieri: non a caso, la scheda elettorale “da record” misura 96×31 cm. A sostenere Fabbio, il sindaco uscente, troviamo anche i Pensionati di Michele Giovine, reduce dalla condanna in primo grado a due anni e otto mesi per firme irregolari, raccolte in occasione delle ultime elezioni regionali a sostegno di Cota. Una folta rete di associazioni (21) e soci collettivi ha contribuito a scrivere, con tanto di votazione finale, una piattaforma complessa ed innovativa, frutto di un percorso avviato nel luglio 2011, che sarà monitorata da un apposito “smart-team”. I candidati sindaco sono stati intervistati con video, mentre i candidati consiglieri, considerato il numero proibitivo, compileranno un questionario scritto. Tra le risposte critiche alla piattaforma, c’è quella di Fabbio (PdL), che ha sottoscritto per metà il punto 1, concernente il divieto di candidare “persone rinviate a giudizio o condannate, anche solo in primo grado, per reati di mafia o contro la pubblica amministrazione”, perché contrario all’esclusione di questa seconda tipologia, mentre Prigione (La Destra) non ha risposto su Commissione Antimafia e recupero dell’evasione fiscale.
A Rivalta si presentano 8 candidati sindaco, con 350 candidati consiglieri. Tra i punti più originali della piattaforma – elaborata e sostenuta da un intraprendente gruppo di 18-20enni – vi è la richiesta (fatta anche da AT8) di provvedere ad un censimento degli edifici e del loro stato di utilizzo, per meglio indirizzare la politica urbanistica, nell’ottica di ridurre le concessioni edilizie e incentivare gli affitti. Durante la serata di pubblica interpellanza dei candidati, sono state integralmente sottoscritte le richieste presentate, salvo i punti 7 (senza motivazione) e 3 da parte del candidato Stella (Lega Nord), favorevole “con riserva” alla lotta all’evasione, fenomeno a suo parere necessario per la sopravvivenza economica di molti professionisti e lavoratori autonomi che non riescono ad ottemperare agli obblighi fiscali in ragione dell’elevata tassazione e della grave situazione economica.
Insomma, c’è in gioco la democrazia e la legalità del nostro spazio vitale, e ciascuno è chiamato a fare il proprio dovere. Il 6 e 7 maggio vota con consapevolezza!

Fonte: Libera Piemonte

giovedì 3 maggio 2012

Per Telejato, con le parole di Giulio Cavalli


Quante volte abbiamo parlato di Pino Maniaci e Telejato. Questa volta si rischia davvero di vederla chiusa, per il passaggio al digitale terrestre. Facciamo nostre le parole, qui di seguito, dell’amico Giulio Cavalli. Spesso Giulio ha collaborato con Pino e si sono vicendevolmente supportati. Il video del Fatto Quotidiano, che citiamo, è uno dei pochi che raccontano questa vicenda troppo nell’ombra.
E’ di nuovo tempo di far grancassa e tam tam mediatico. E noi non ci sottraiamo!
Per la libertà di informazione e la giustizia. Per Telejato e i siciliani onesti!


  
Pino Maniaci e Telejato devono essere spenti. La notizia è di quelle che gelano il sangue perché Pino Maniaci e Telejato (con il suo telegiornale più lungo del mondo) da anni lottano per non essere spenti dalla mafia e invece alla fine a spegnerli sarà lo Stato. Non si sa se per superficialità, per miopia o per convergenza di interessi: certo quando lo Stato compie l’azione che la mafia ha tanto desiderato ne esce sconfitto il buon senso, la tutela del coraggio e la custodia delle fragilità attive.
Non serve solidarietà pelosa. Telejato, Pino e la sua famiglia ne hanno ricevuta a tonnellate in questi anni (buona e non buona). Serve mobilitarsi con un obiettivo chiaro: sappia il Governo cosa sta spegnendo, decida dopo aver conosciuto la vita, il progetto e le lotte di Telejato e dia delle spiegazioni. La mobilitazione deve puntare a chiunque possa scrivere un’interrogazione, un ordine del giorno o una mozione tra gli scranni del Parlamento. E noi possiamo chiederlo (e dobbiamo chiederlo) con insistenza: come Pino quando tiene in mano il microfono.


Fonte: Libera Piemonte

Più sale il livello di corruzione più sale il livello di inquinamento.


Paul Connett: ideatore della “Strategia Rifiutizero”. 
Lo sappiamo: anche grazie al libro "Gomorra" di Robero Saviano, sappiamo dello scandalo dei rifiuti tossici e pericolosi smaltito dalle mafie. Imprenditori senza scrupoli, dirigenti di aziende, tecnici, per anni si sono affidati a mafiosi e faccendieri per ridurre i costi di smaltimento e la gestione dei prodotti di scarto delle lavorazioni industriali. I "rifiuti" sono diventati un lucroso affare per le cosiddette "ecomafie" e alcune zone del Sud dell'Italia, insieme ad alcune nazioni del cosiddetto "Terzo Mondo", sono divenute "discariche abusive" di sostanze che minano la salute di intere comunità.
Fra i beni più preziosi, la salute dei cittadini, il territorio-paesaggio, sono quotidianamente minacciati dall'illegalità: "(...)Più sale il livello di corruzione più sale il livello di inquinamento(...)." E' quanto afferma Paul Connett, teorico della “Strategia Rifiutizero", nell'intervista che riportiamo: l'analisi di un problema, i rifiuti prodotti dalla nostra società, può divenire il punto di partenza per riflettere su un sistema,  quello del modello capitalistico-occidentale, che  rischia di implodere se non diventa "eco-sostenibile".

Fonte : "Articolo tre", 29 aprile 2012,  intervista di Davide Pelanda


"E’ proprio difficile non conoscere Paul Connett docente di Chimica Generale, Chimica Ambientale e Tossicologia presso la St. Lawrence University (New York), ambientalista di fama mondiale, tra i maggiori esperti in tema di diossine, furani e teorico dellaStrategia Rifiutizero”. È passato più di una volta in Italia, facendo su e giù dalla Sicilia e risalendo lo stivale fino a Roma, Pisa, e su su fino a Torino dove di recente l’abbiamo incontrato durante l'evento “Rifiutizero Italia chiama USA” in collegamento via skype proprio con San Francisco ed il suo Primo Cittadino.
- Professor Connett sapeva che l'ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino, convinto promotore dell'inceneritore del Gerbido di Torino, intervistato dagli Amici di Beppe Grillo, alla domanda “Lei sa chi è Paul Connett?” rispose “Io non so chi sia Paul Connett, per me è uno sconosciuto”. Pensa che l'attuale sindaco Piero Fassino ed altri sindaci italiani conoscano lei e la “Strategia Rifiutizero” di cui è massimo esponente mondiale?
«Ho parlato in più di 220 città d’Italia e quindi penso che molti sindaci conoscano la “Strategia Rifiutizero” cioè un diverso modo di affrontare la gestione dei rifiuti. Le città che in Italia hanno aderito a questa idea sono adesso 73. Se proprio il vostro sindaco non conosce questa strategia potrà leggere il libro che ho appena pubblicato sull’argomento. Per il passato va bene, ma per il futuro non ci sono più scuse»
- Come può creare posti di lavoro un inceneritore? E come può invece creare benessere e lavoro la Strategia da lei promossa?
«Quando si costruisce un inceneritore si mettono i soldi in un macchinario  estremamente complicato. Una gran parte di denaro lascia la comunità e si creano pochissimi posti di lavoro. L’inceneritore di Brescia è costato trecento milioni di euro ed ha creato solo ottanta posti di lavoro. Ci sarebbero dieci volte quel numero di posti di lavoro nel riciclaggio, riutilizzo ecc…»
- Lei diceva che dove ci sono Paesi con tanta corruzione c'è tanto inquinamento. E' una correlazione dimostrabile? Se è vera, come mai succede?
«Più sale il livello di corruzione più sale il livello di inquinamento perché c’è una cattiva legge. Invece una buona legge consente una buona partecipazione della gente che farebbe migliorare anche la questione dell’inquinamento. Dobbiamo pulire il sistema democratico politico per pulire l’ambiente
- Cosa possono fare i cittadini per convincere i politici ed amministratori, ora che l'inceneritore è in fase avanzata di costruzione, che è una scelta perdente quella di bruciare i rifiuti?
«Una volta che il denaro è stato speso per questa costruzione è difficile tornare indietro. Però negli Stati Uniti alcune città hanno visto che sarebbe stato più economico non far partire l’inceneritore e scegliere le alternative. Anche se l’impianto è già stato costruito si possono usare molte sue infrastrutture per il riciclaggio dei rifiuti, senza però usare il forno. Da noi non lo si è completamente abbandonato, lo si è riutilizzato solo in parte»
- La grande partecipazione popolare per la tutela dell'ambiente e della salute dei cittadini può essere fermata con i soldati e la violenza governativa, come sta succedendo con la Tav in Valsusa?
Pinerolo:  la discarica del Torrione viene "impacchettata"
«E’ assurdo che nella situazione economica in cui ci si trova lo Stato italiano continui a mettere denaro in opere così grandi invece di usarlo per scuole, ospedali e opere per il welfare. E’ un problema molto serio. Per imporre cattive decisioni hanno bisogno di diventare antidemocratici: queste Grandi Opere non sono decisioni condivise con la popolazione. Invece non si ha bisogno dell’esercito per realizzare la “Strategia Rifiutizero” perché è ciò che la gente vuole»
- Lei ebbe a dire che la data per raggiungere l'obiettivo Rifiutizero era il 2020. Una tempistica idealista? Reale? A che punto siamo, nel mondo per ottenere quel risultato, visto che mancherebbero otto anni?
E’ bene avere un obiettivo chiaro, una chiara direzione verso cui andare. Per adesso è impossibile raggiungere lo Zero, però ci stiamo avvicinando: ad esempio, Villafranca d’Asti è all’85 per cento, San Francisco 78 per cento, tutto ciò per dire che l’80 per cento è raggiungibile con la responsabilità civica della popolazione. Ma dall'altro capo ci deve anche essere la responsabilità industriale: quello che non si può riciclare, quello che non si può riutilizzare, non dovrebbe essere prodotto. E senza questo non si arriva allo Zero. E’ questo il messaggio fondamentale.
La responsabilità civica della comunità, invece, è veloce da ottenere e dà buoni risultati, mentre la responsabilità dell’industria è molto più lenta soprattutto quella del packaging, molto più restia a collaborare. Ci sono molti esempi di produttori che adottano la “Strategia Rifiutizero”: per esempio chi fa fotocopiatrici o computer durevoli nel tempo e che possono essere anche recuperati. La “Strategia Rifiutizero” è difficile, certo, ma è un passo verso la sostenibilità che è un imperativo morale a cui noi non possiamo sottrarci. Comincia dalle mani, dalla separazione che ciascuno fa e finisce con la mente e la capacità e inventiva per trovare soluzioni nuove nella progettazione».
Davide Pelanda

martedì 1 maggio 2012

I beni confiscati alle mafie sono patrimonio delle comunità


Sabato 28-4, nella casa che fu del boss Tano Badalamenti, è stato organizzato dall'Associazione Peppino Impastato e dalla Consulta giovanile di Cinisi un convegno sui "beni confiscati alle mafie come patrimonio delle comunità", che i giovani della Consulta hanno voluto per conoscere l'entità dei beni sul loro territorio e i progetti per un loro utilizzo. 
Il convegno ha assunto un particolare significato perché si è svolto proprio all'interno di un bene confiscato alla mafia.
In apertura Vito Manzella, per la Consulta, ha parlato delle grandi opportunità, sia di lavoro che di aggregazione che si offrono nei vari territori, soprattutto ai giovani, con l'utilizzo dei beni confiscati. Salvo Vitale ha fatto notare la peculiarità di un affidamento dell'abitazione dell'assassino fatto ai familiari e ai compagni della vittima ed ha fatto un chiaro riferimento a Pio La Torre, di cui, il 30 aprile ricorre l'anniversario del barbaro assassinio e di quello del suo autista Rosario Di Salvo. L'approvazione della legge Rognoni La Torre, che introduce il reato di associazione mafiosa e prevede, per la prima volta la confisca dei beni di proprietà dei mafiosi, ha richiesto, oltre al sacrificio di La Torre anche quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa: infatti la legge è stata approvata solo dopo la morte di quest'ultimo.
Vitale ha anche accennato alla normativa che prevede tempi di affidamento lunghissimi, intorno ai dieci anni: nel caso della casa di don Tano ci sono voluti 23 anni. Il sindaco di Cinisi ha detto che, per quanto riguarda la casa del boss, è stato presentato un progetto con la richiesta di fondi del PON sicurezza: il finanziamento dovrebbe arrivare entro la fine di maggio; ha fatto poi una rassegna dei beni confiscati e di quanto fatto per predisporne l'affidamento, con particolare riferimento a tre villette confiscate al mafioso Piazza, in contrada Torre dell'Ursa e affidate, per concorso, alla cooperativa partinicese "Liberamente", la quale ha presentato un ambizioso progetto per un centro di assistenza ai disabili e di recupero dalle tossicodipendenze. Finalità e caratteristiche del progetto sono state poi illustrate, in chiusura, in un intervento della dott.ssa Elena Ciravolo, a nome della citata cooperativa.
Una rassegna dei beni confiscati a Terrasini e di un loro riutilizzo sinora parziale è stata fatta dal sindaco di Terrasini Massimo Cucinella, il quale ha prospettato la difficoltà di avere finanziamenti, e la prescrizione dell'utilizzo come bene per servizi pubblici o per attività sociali, nel senso che si tratta di un bene che ritorna all'uso dei cittadini, i quali ne sono gli autentici affidatari: ha accennato alla mancata realizzazione dell'intero progetto di recupero delle Cave confiscate ai mafiosi D'Anna, per le quali si prevede una prossima riapertura come discarica di sfabbricidi.
Lucio Guarino ha parlato della sua esperienza nel consorzio Sviluppo e Legalità, che al momento comprende sei comuni, tra cui Corleone e San Giuseppe Jato: proprio in questi due comuni si sono realizzate le esperienze più eclatanti di beni che, da terreni incolti, sono stati trasformati in zone che danno lavoro ai giovani del posto, che producono e realizzano i prodotti di Libera, ormai presenti nelle coop; ha parlato anche delle novità che hanno integrato la legge, ma che non sono riuscite a sanarne alcune lacune. Fra l'altro, con i finanziamenti del PON sicurezza è stata riattivata e diventerà operativa a breve la cantina Kaggio, che fu di Totò Riina e la Casa della Legalità, a Corleone, che fu di Bernardo Provenzano.
Ugualmente interessante la testimonianza di Calogero Parisi, presidente della cooperativa "Lavoro e non solo" che gestisce diversi terreni di proprietà di Totò Riina o di parenti di Bernardo Provenzano, dove d'estate vanno a lavorare volontariamente migliaia di giovani provenienti in gran parte dalla Toscana. L'iniziativa del convegno si inserisce nel contesto delle attività preparatorie nella prospettiva del prossimo 9 maggio, anniversario della morte di Peppino Impastato, ed è significativa nell'ambito di un rapporto con il territorio, tra le associazioni locali e le associazioni che gestiscono l'ex casa di don Tano, per la quale l'Associazione Impastato ha avanzato la proposta di chiamarla Casa 9 maggio, con la considerazione che, nel parlare di questa casa, ripetere in continuazione il nome di un assassino, è un modo di richiamarlo costantemente alla memoria, quando invece sarebbe opportuno seppellire definitivamente il ricordo di questo delinquente. 

Antimafia2000.com 
di Salvo Vitale - 

lunedì 30 aprile 2012

1 Maggio 1947 :La strage di Portella della Ginestra


Nel pianoro a metà strada tra i comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in provincia di Palermo, la festa del primo maggio 1947, a cui partecipavano migliaia di persone, fu interrotta da una sparatoria che, secondo le fonti ufficiali, causò 11 morti e 27 feriti. Successivamente, per le ferite riportate, ci furono altri morti e il numero dei feriti varia da 33 a 65.
I contadini dei paesi vicini erano soliti radunarsi a Portella della Ginestra per la festa del lavoro già ai tempi dei Fasci siciliani, per iniziativa del medico e dirigente contadino Nicola Barbato, che era solito parlare alla folla da un podio naturale che fu in seguito denominato "sasso di Barbato". La tradizione venne interrotta durante il fascismo e ripresa dopo la caduta della dittatura. Nel 1947 non si festeggiava solo il primo maggio ma pure la vittoria dei partiti di sinistra raccolti nel Blocco del popolo nelle prime elezioni regionali svoltesi il 20 aprile. Sull'onda della mobilitazione contadina che si era andata sviluppando in quegli anni le sinistre avevano ottenuto un successo significativo, ribaltando il risultato delle elezioni per l'Assemblea costituente. La Democrazia cristiana era scesa dal 33,62% al 20,52%, mentre le sinistre avevano avuto il 29,13% (alle elezioni precedenti il Psi aveva avuto il 12,25% e il Pci il 7,91%).
La campagna elettorale era stata abbastanza animata, non erano mancate le minacce e la violenza mafiosa aveva continuato a mietere vittime. Il 1947 era cominciato con l'assassinio del dirigente comunista e del movimento contadino Accursio Miraglia (4 gennaio) e il 17 gennaio era stato ucciso il militante comunista Pietro Macchiarella; lo stesso giorno i mafiosi avevano sparato all'interno del Cantiere navale di Palermo. Alla fine di un comizio il capomafia di Piana Salvatore Celeste aveva gridato: "Voi mi conoscete! Chi voterà per il Blocco del popolo non avrà né padre né madre" e la stessa mattina del primo maggio a San Giuseppe Jato la moglie di un "qualunquista truffatore" - come si legge in un servizio del quotidiano "La Voce della Sicilia" - aveva avvertito le donne che si recavano a Portella: "Stamattina vi finirà male" e a Piana un mafioso non aveva esitato a minacciare i manifestanti: "Ah sì, festeggiate il 1° maggio, ma vedrete stasera che festa!" (in Santino 1997, p. 150). Eppure nessuno si aspettava che si arrivasse a sparare sulla folla inerme, ormai lontana la memoria dei Fasci siciliani e dei massacri successivi.

Prima i mafiosi e i partiti conservatori poi solo i banditi

La matrice della strage appare subito chiara: la voce popolare parla dei proprietari terrieri, dei mafiosi e degli esponenti dei partiti conservatori e i nomi sono sulla bocca di tutti: i Terrana, gli Zito, i Brusca, i Romano, i Troia, i Riolo-Matranga, i Celeste, l'avvocato Bellavista che durante la campagna elettorale aveva tuonato contro le forze di sinistra e a difesa degli agrari. I carabinieri telegrafano: "Vuolsi trattarsi organizzazione mandanti più centri appoggiati maffia at sfondo politico con assoldamento fuori legge"; "Azione terroristica devesi attribuire elementi reazionari in combutta con mafia" (ivi, p. 153). Vengono fermate 74 persone tra cui figurano mafiosi notori. All'Assemblea costituente il giorno dopo la strage Girolamo Li Causi, segretario regionale comunista, lancia la sua accusa: dopo il 20 aprile c'è stata una campagna di provocazioni politiche e di intimidazioni, durante la strage il maresciallo dei carabinieri si intratteneva con i mafiosi e tra gli sparatori c'erano monarchici e qualunquisti. Viene interrotto da esponenti dei qualunquisti e della destra e il ministro degli interni Mario Scelba dichiara che non c'è un "movente politico", si tratta solo di un "fatto di delinquenza" (ivi, p. 155). Scelba ritorna sull'argomento in un'intervista del 9 maggio: "Trattasi di un episodio fortunatamente circoscritto, maturato in una zona fortunatamente ristretta le cui condizioni sono assolutamente singolari" (ivi, p. 159). Nel frattempo i fermati vengono rilasciati e si afferma la pista che porta alla banda Giuliano, il cui nome viene fatto dall'Ispettore di Pubblica Sicurezza Ettore Messana, lo stesso che l'8 ottobre 1919 aveva ordinato il massacro di Riesi (15 morti e 50 feriti) e che ora Li Causi addita come colui che dirige il "banditismo politico". La banda Giuliano sarà pure indicata come responsabile degli attentati del 22 giugno in vari centri della Sicilia occidentale, con morti e feriti.
L'inchiesta giudiziaria si concentra sui banditi e procede con indagini frettolose e superficiali: non si fanno le autopsie sui corpi delle vittime e le perizie balistiche per accertare il tipo di armi usate per sparare sulla folla. Il 17 ottobre 1948 la sezione istruttoria della Corte d'appello di Palermo rinvia a giudizio Salvatore Giuliano e gli altri componenti della banda. La Corte di Cassazione, per legittima suspicione, decide la competenza della Corte d'assise di Viterbo, dove il dibattimento avrà inizio il 12 giugno 1950 e si concluderà il 3 maggio 1952, con la condanna all'ergastolo di 12 imputati (Giuliano era stato assassinato il 5 luglio del 1950).
Nella sentenza, a proposito della ricerca della causale, si sostiene che Giuliano compiendo la strage e gli attentati successivi ha voluto combattere i comunisti e si richiama la tesi degli avvocati difensori secondo cui la banda Giuliano aveva operato come "un plotone di polizia", supplendo in tal modo alla "carenza dello Stato che in quel momento si notò in Sicilia" (ivi, pp. 191 s). Cioè: la violenza banditesca era stata impiegata come risorsa di una strategia politica volta a colpire le forze che si battevano contro un determinato sistema di potere. Restava tra le righe che le "carenze dello Stato" erano da attribuire all'azione della coalizione antifascista allora al governo del Paese. La sentenza di Viterbo non toccava il problema dei mandanti della strage e dell'offensiva contro il movimento contadino e le forze di sinistra, affermando esplicitamente che la causa doveva essere ricercata altrove.
Contro la sentenza fu proposto appello e il processo di secondo grado si svolse presso la Corte d'assise d'appello di Roma (nel frattempo molti degli imputati, tra cui Gaspare Pisciotta, erano morti). La sentenza del 10 agosto 1956 confermava alcune condanne, riducendo la pena, e assolveva altri imputati per insufficienza di prove. Con sentenza del 14 maggio 1960 la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso del pubblico ministero e così la sentenza d'appello diventava definitiva.

Una strage per il centrismo

Nella storia d'Italia il 1947 è un anno di svolta e la strage di Portella ha avuto un ruolo nello stimolare e accelerare questa svolta, intrecciandosi con dinamiche che maturano a livello locale, nazionale e internazionale. Il 13 maggio si apre la crisi politica con le dimissioni del governo di coalizione antifascista presieduto da De Gasperi. Il 30 maggio a Roma e a Palermo si formano i nuovi governi: De Gasperi presiede un governo centrista con esclusione delle sinistre e alla Regione siciliana il democristiano Giuseppe Alessi presiede un governo minoritario appoggiato dai partiti conservatori, senza la partecipazione del Blocco del popolo, nonostante la vittoria alle elezioni del 20 aprile. Si apre così una nuova fase della storia d'Italia, in cui le forze di sinistra saranno all'opposizione. La svolta si inserisce nella prospettiva aperta dagli accordi di Yalta che hanno codificato la divisione del pianeta in due grandi aree di influenza, con l'Italia dentro lo schieramento atlantico egemonizzato dagli Stati Uniti e la guerra fredda come strategia di contrasto e di contenimento del potere sovietico.
Nel gennaio del '47 De Gasperi era andato negli Stati Uniti ma è frutto di una visione semplificatrice pensare che abbia ricevuto l'ordine di sbaraccare le sinistre dal governo. In realtà la svolta del '47 è figlia di un matrimonio consensuale in cui interessi locali, nazionali e internazionali coincidono perfettamente. Il messaggio contenuto nella strage è stato pienamente recepito e da ora in poi a governare, accanto alla Democrazia cristiana che nelle elezioni del 18 aprile 1948 si afferma come partito di maggioranza relativa, dopo una campagna elettorale volta a esorcizzare il "pericolo rosso", saranno i partiti conservatori vanamente indicati come mandanti del massacro. In questo quadro la Chiesa cattolica ha un ruolo di primo piano. Il cardinale Ernesto Ruffini, a proposito della strage di Portella e degli attentati del 22 giugno, scrive che era "inevitabile la resistenza e la ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e alle teorie antiitaliane e anticristiane dei comunisti" (in Santino 2000, p. 180), plaude all'estromissione delle sinistre dal governo, ma la sua proposta di mettere i comunisti fuori legge, rivolta a De Gasperi e a Scelba, rimarrà inascoltata. I dirigenti democristiani sanno perfettamente che sarebbe la guerra civile.
Alla ricerca dei mandanti
La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell'ottobre del 1951 Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l'ispettore Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del Tribunale di Palermo decidevano l'archiviazione. Successivamente i nomi dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963. Nel novembre del 1969 il figlio dell'appena defunto deputato Antonio Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera si dice che l'esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che erano costantemente in contratto con Giuliano i monarchici Alliata e Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori, il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che Giuliano aveva avuto l'assicurazione che sarebbe stato amnistiato (in Santino 1997, p. 207).
Montalbano presenta il documento alla Commissione antimafia nel marzo del 1970, la Commissione raccoglierà altre testimonianze e nel febbraio del 1972 approverà all'unanimità una relazione sui rapporti tra mafia e banditismo, accompagnata da 25 allegati, ma verranno secretati parecchi documenti raccolti durante il suo lavoro. La relazione a proposito della strage scriveva: "Le ragioni per le quali Giuliano ordinò la strage di Portella della Ginestra rimarranno a lungo, forse per sempre, avvolte nel mistero. Attribuire la responsabilità diretta o morale a questo o a quel partito, a questa o quella personalità politica non è assolutamente possibile allo stato degli atti e dopo un'indagine lunga e approfondita come quella condotta dalla Commissione. Le personalità monarchiche e democristiane chiamate in causa direttamente dai banditi risultano estranee ai fatti". Il relatore, il senatore Marzio Bernardinetti, addebitava i risultati deludenti alla mancata o scarsa collaborazione delle autorità: "Il lavoro, cui il comitato di indagine sui rapporti fra mafia e banditismo si è sobbarcato in così difficili condizioni, avrebbe approdato a ben altri risultati di certezza e di giudizio se tutte le autorità, che assolsero allora a quelli che ritennero essere i propri compiti, avessero fornito documentate informazioni e giustificazioni del proprio comportamento nonché un responsabile contributo all'approfondimento delle cause che resero così lungo e travagliato il fenomeno del banditismo" (in Testo integrale...1973).
Nel 1977, in pieno clima di "compromesso storico" tra Partito comunista e Democrazia cristiana, ben poco propizio alla ricerca della verità, il Centro siciliano di documentazione comincia la sua attività con un convegno nazionale dal titolo "Portella della Ginestra: una strage per il centrismo" in cui si ricostruisce il quadro in cui è maturata la strage, considerata non come il prodotto di un disorientamento e di un vuoto politico (come sosteneva anche la storiografia di sinistra: Francesco Renda considerava l'uso della violenza come "repugnante delinquenza comune" e un "errore grossolano" che avrebbe portato all'isolamento dei proprietari terrieri: Renda 1976, p. 23) ma come "un atto di lucida, e ragionata, violenza volto a condizionare il quadro politico, regionale e nazionale" purtroppo coronato da successo (Centro siciliano di documentazione 1977; Santino 1997, pp. 8, 60).
Successivamente ci sono state varie pubblicazioni, più meno documentate, sulla strage e sulla banda Giuliano (Galluzzo 1985, Magrì 1987, Barrese - D'Agostino 1997, Renda 2002) e l'interpretazione della strage di Portella come "strage di Stato" ha segnato buona parte dei lavori del convegno che si è svolto nel maggio del 1997, nel cinquantesimo anniversario (Manali, a cura di, 1999; Santino ivi). Il convegno si concluse con la richiesta della desecratazione della documentazione raccolta dalla Commissione antimafia, pubblicata negli anni successivi in vari volumi (Commissione antimafia 1998-99). Nel frattempo la costituzione dell'Associazione "Non solo Portella", ad opera di familiari delle vittime, e l'attività di ricerca del suo presidente, lo storico Giuseppe Casarrubea, figlio di una delle vittime dell'attentato di Partinico del 22 giugno, hanno portato a significativi risultati (Casarrubea 1997, 1998, 2001). Anche sulla base di perizie effettuate sui corpi di alcuni superstiti si è documentato che tra le armi utilizzate c'erano bombe-petardo di produzione americana; da testimonianze risulta che tra gli esecutori c'erano mafiosi e le ricerche sui materiali dell'archivio dell'Oss (Office of Strategic Services) e del Sis (Servizio Informazioni e Sicurezza) del ministero dell'Interno hanno prodotto ulteriore documentazione sul ruolo degli Stati Uniti (già documentato precedentemente: sugli incontri del bandito Giuliano con l'agente americano Michael Stern: Sansone - Ingrascì 1950, pp.143-150; sulla politica estera degli Stati Uniti, ricostruita attraverso documenti d'archivio: Faenza - Fini 1976) e rivelato i rapporti tra banditismo e formazioni neofasciste (Vasile 2004, 2005).
Ricostruzioni recenti (La Bella - Mecarolo 2003) hanno contribuito ad arricchire il quadro della documentazione sul contesto, sono stati pubblicati significativi documenti degli archivi italiani e americani sui primi anni della Repubblica (Tranfaglia 2004) e un film (Segreti di Stato del regista Paolo Benvenuti, accompagnato da un volume: Baroni-Benvenuti 2003) ha riproposto il tema delle complicità chiamando in causa vari soggetti, dai dirigenti della Democrazia cristiana alla X MAS di Junio Valerio Borghese, ai servizi segreti americani, al Vaticano, in un "gioco delle carte" non sempre convincente.
Sulla base di nuove acquisizioni documentali nel dicembre 2004 i familiari delle vittime hanno chiesto la riapertura dell'inchiesta. Per Portella, come del resto per le altre stragi che hanno insanguinato l'Italia, la verità è ancora lontana.

Umberto Santino

domenica 29 aprile 2012

30° anniversario dell'uccisione di Pio La Torre e Rosario Di Salvo




Gli omicidi del segretario del Pci siciliano e del generale nell'82; quelli dei due giudici nel '92. Oggi, venti o trenta anni dopo, ci sono ancora molti misteri sulla loro uccisione. Però sappiamo perché li volevano morti
fonte : LA Repubblica. estratto da un articolo di  ATTILIO BOLZONI


"QUELLA MATTINA sono anch'io là, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di guardare Paolo Borsellino che è con le spalle al muro e si sta accendendo un'altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le dita.
Mi avvicino al commissario Cassarà e gli chiedo: "Ninni, cosa sta succedendo?". Mi risponde, l'amico poliziotto: "Siamo cadaveri che camminano". Un fotografo aspetta che loro - Falcone e Cassarà, Chinnici e Borsellino - siano per un attimo vicini. Poi scatta. Una foto di Palermo. Una foto che dopo trent'anni mi mette sempre i brividi. Sono morti, uno dopo l'altro sono morti tutti e quattro. Ammazzati.
Tutti vivi me li ricordo, tutti ancora vivi intorno a quell'uomo incastrato dentro la berlina scura e con la gamba destra che penzola dal finestrino. Sono lì, in una strada che è un budello in mezzo alla città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della Grande guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso  parlamento dell'isola, Palazzo dei Normanni, cupole arabe e lussureggianti palme.
Chi è l'ultimo cadavere di una Sicilia tragica? È Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista italiano, deputato alla Camera per tre legislature, figlio di contadini, sindacalista, capopopolo negli infuocati anni del separatismo e dell'occupazione delle terre.
È Pio La Torre, nato a Palermo alla vigilia del Natale del 1927 e morto a Palermo alla vigilia del Primo maggio del 1982. L'agguato non ha firma. Forse è un omicidio di stampo mafioso. Forse è un omicidio politico. Chissà, potrebbe anche avere una matrice internazionale. Magari  -  come qualcuno mormora  -  si dovrebbe esplorare la "pista interna". Indagare dentro il suo partito. Nella sua grande famiglia. Cercare gli assassini fra i suoi compagni. Supposizioni. Prove di depistaggio in una Palermo che oramai si è abituata ai morti e ai funerali di Stato, cadaveri eccellenti e cerimonie solenni. Il 30 aprile 1982, trent'anni fa.
Uccidono l'uomo che prima di tutti gli altri intuisce che la mafia siciliana non è un problema di ordine pubblico ma "questione nazionale", il parlamentare che vuole una legge che segnerà per sempre la nostra storia: essere mafioso è reato. Chiede di strappare i patrimoni ai boss, tutti lo prendono per un visionario.
Dicono che è ossessionato da mafia e mafiosi, anche nel suo partito ha fama di "rompicoglioni". Al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini propone di inviare a Palermo come prefetto il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo. Non fa in tempo a vederlo sbarcare, l'ammazzano prima.
Pio La Torre aveva conosciuto dalla Chiesa nel 1949 a Corleone, lui segretario della Camera del lavoro dopo la scomparsa del sindacalista Placido Rizzotto e il capitano volontario nel Cfbr, il Comando forze repressione banditismo. Il loro primo incontro avviene nel cuore della Sicilia. Quindici anni dopo si ritroveranno uno di fronte all'altro in commissione parlamentare antimafia, uno deputato e l'altro comandante dei carabinieri della Sicilia occidentale. Il terzo incontro non ci sarà mai.
Destini che s'incrociano in un'isola che non è ricca ma sfrenatamente ricca, superba, inespugnabile. Il giorno dell'uccisione di Pio La Torre in Sicilia arriva il generale. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde lui.(...)"

sabato 28 aprile 2012

Processo 'ndrangheta, 172 chiedono di spostare il processo in Calabria

Processo 'ndrangheta, 172 chiedono di spostare il processo in Calabria
fonte: LA Stampa. 
Hanno chiesto di essere giudicati a Reggio Calabria i 172 accusati di concorso in associazione mafiosa a Torino. Di loro 117 sono detenuti dal giugno 2010 quando vennero arrestati nel corso della maxi-operazione Minotauro contro le infiltrazioni dell’ ’ndrangheta in Torino e provincia.
In udienza preliminare (che apertasi ieri proseguirà fino al 25 maggio) tutti gli accusati hanno presentato eccezione di competenza territoriale.». Il gup Francesca Christillin ha annunciato che si pronuncerà sulla questione il prossimo mercoledì. I cinque pubblici ministeri hanno replicato che  «ormai la ’ndrangheta è un fenomeno da anni impiantato nel Torinese, dove sono le "locali" e dove avvengono le attività di stampo mafioso.
Intanto è scaduto oggi il termine per costituirsi parte civile in questa fase del procedimento penale. Al momento soltanto un imprenditore di Cuorgnè, che fu vittima di estorsione, ha deciso di farsi avanti, ma altri enti pubblici o associazioni possono costituirsi parte civile in apertura di fase dibattimentale.