venerdì 27 settembre 2013

Sentinelle del territorio. Un secondo "grattacielo” a Pinerolo?

Sentinelle del Territorio. Nel luglio scorso, importanti decisioni riguardanti il settore dell'urbanistica erano state adottate dall'Amministrazione comunale di PineroloFra queste delibere, la "valorizzazione" ( vendita!) dell'area dei cosiddetti "Portici Blu".
Un secondo "grattacielo” a Pinerolo?


Questa sera si terrà l'incontro pubblico 
organizzato dal Forum Salviamo il Paesaggio


Avevamo scritto che, proprio in merito a quella delibera, ci parevano criticabili due aspetti: il mancato coinvolgimento della cittadinanza su decisioni e temi importanti per la Città e la tempistica delle decisioni adottateper il fatto che “(…)proprio a ridosso delle ferie agostane, la cittadinanza, i cittadini responsabili, erano "invitati" a presentare -entro 15 giorni dalla pubblicazione della delibera adottata- "le osservazioni" addirittura ad una variante urbanistica importante quale quella relativa all'area dei "Portici Blu": ovvero sull'idea di un secondo "grattacielo" a Pinerolo”.  
Alleghiamo il testo integrale delle “Osservazioni alla deliberazione di Consiglio comunale di Pinerolo n. 36 del 2-3 luglio 2013

giovedì 26 settembre 2013

Oggi Torino si sveglia con un Ponte dedicato a Mauro Rostagno.ORE 11, PONTE DI VIA LIVORNO,

25 anni fa la mafia decise di zittire un giornalista di raro coraggio, una voce scomoda, un uomo capace di dare fastidio ai padroni e ai padrini. 
Mauro Rostagno é nato a Torino. Chiediamo che a Torino uno spazio pubblico degno renda omaggio al suo sacrificio.

Era il 26 settembre del 1988, quando a Valderice, in provincia di Trapani, Cosa nostra freddò in un agguato Mauro Rostagno. Abbiamo deciso di "intitolare" un Ponte a Mauro, perché da 5 anni 1000 cittadini aspettano risposta. OGGI ORE 11, PONTE DI VIA LIVORNO, TORINO.



"Agli uomini capita di mettere radici, e poi il tronco, i rami, le foglie... quando tira vento, i rami si possono spaccare, le foglie vengono strappate via: allora decidi di non rischiare, di non sfidare il vento. Ti poti, diventi un alberello tranquillo, pochi rami, poche foglie, appena l’indispensabile.
Oppure te ne fotti. Cresci e ti allarghi. Vivi. Rischi. Sfidi la mafia, che è una forma di contenimento, di mortificazione. La mafia ti umilia: "calati junco che passa la piena", dicono da queste parti. Ecco, la mafia è negazione d’una parola un po’ borghese: la dignità dell’uomo."
Mauro Rostagno

martedì 24 settembre 2013

La 'ndrangheta (lombarda) è una metastasi favorita dall'omertà

Mentre in Piemonte siamo in attesa della sentenza di primo grado del processo "Minotauro", dall’operazione che ipocritamente fece scoprire che le mafie esistono anche in terra sabauda, in Lombardia la sentenza di secondo grado del processo “Infinito” conferma e convalida l’apparato accusatorio sostenuto dalle indagini del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dai pm Alessandra Dolci e Paolo Storari.

requisitoria del procuratore di  Giancarlo Caselli al processo Minotauro

fonte: La Repubblica

I giudici: "La 'ndrangheta lombarda è una metastasi favorita dall'omertà"

Pubblicate le motivazioni della sentenza d'appello del processo 'Infinito' che ha portato alla condanna di 110 persone. "La 'ndrangheta si fa scudo della sua segretezza e della sua esteriore impermeabilità".



In Lombardia "è ben radicata e diffusa" quella che si può definire la '''ndrangheta padana", in parte autonoma dalla casa madre calabrese e che opera nella "diffusa omertà che porta le vittime a subire senza denunciare, a nascondere piuttosto che a rivelare". Lo scrivono i giudici della prima sezione della Corte d'appello di Milano nelle oltre 1.700 pagine di motivazioni della sentenza con cui lo scorso aprile hanno inflitto 110 condanne, confermando in sostanza la storica sentenza 'Infinito' di primo grado.


Il 23 aprile i giudici d'appello (collegio Polizzi-Bocelli-Caputo) col loro verdetto hanno confermato la storica sentenza - emessa nel novembre del 2011 con rito abbreviato dal gup milanese Roberto Arnaldi - che ha riconosciuto la presenza in Lombardia della 'ndrangheta e delle sue infiltrazioni nel tessuto sociale, politico ed economico del Nord Italia. Anche in secondo grado erano arrivate 110 condanne e fino a 15 anni e tre mesi di carcere (solo con qualche limatura al ribasso nelle pene) alla cupola  ai presunti boss e affiliati di quelle cosche smantellate con la maxi operazione, coordinata dalla Dda milanese, che nel luglio del 2010, al termine delle


inchieste 'Infinito' e 'Tenacia', aveva portato in carcere oltre 170 persone.



Nelle 1.714 pagine di motivazioni, da poco depositate, i giudici descrivono, facendo leva sugli atti dell'inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dai pm Alessandra Dolci e Paolo Storari, anche quella sorta di "crisi interna alla 'ndrangheta padana indotta dal confliggere di aspirazioni o esigenze autonomiste fra chi opera al Nord e i tradizionali riferimenti della terra adre, che da parte sua non rinunzia a un ruolo egemone". Tentativo di autonomia stroncato nel 2008 con l'omicidio di Carmelo Novella, che era a capo della "Lombardia", la struttura di vertice della 'ndrangheta al Nord.



I giudici nelle motivazioni scrivono a lungo anche di quel processo di "emancipazione e interazione tra le 'locali' (le cosche) di neoformazione in territori nordici", della "influenza della cosche in vari settori dell'attività economica" e poi dei "tentativi, anche riusciti, d'infiltrare le amministrazioni locali per ottenere vantaggi". A tutto questo si aggiunge "l'assoggettamento delle vittime" degli episodi di intimidazione "che s'asterranno dallo sporgere denunce". Paradossalmente, scrive la Corte d'appello, "la prova dell'esistenza del sodalizio mafioso affiora invece dalla sua stessa negazione, dalla diffusa omertà che porta le vittime a subire senza denunciare, a nascondere piuttosto che a rivelare".



Non c'è bisogno al Nord , secondo i giudici, che "cittadini o singole vittime sappiano distinguere fra 'locale' e 'locale'", perché "la 'ndrangheta si fa scudo della sua segretezza, della sua esteriore impermeabilità, nel contempo dimostrando in forma anonima la sua concretezza. Per i giudici la 'ndrangheta in Lombardia è ormai una vera e propria metastasi", una realtà "conclamata" e "capillare".

lunedì 23 settembre 2013

Era Lunedì.Giancarlo Siani tornava a casa prendendo il vento di faccia nella sua Citroen Méhari verde bottiglia. Aveva compiuto 26 anni da quattro giorni. Ed era felice.

Quel 23 settembre 1985 era un lunedì. Giancarlo Siani aveva finito di lavorare prima del solito. Doveva andare a un concerto. La fidanzata lo aspettava...La sera in cui fu ammazzato, Giancarlo Siani tornava a casa prendendo il vento di faccia nella sua Citroen Méhari verde bottiglia. Aveva compiuto 26 anni da quattro giorni. Ed era felice.

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Ricordiamo la storia di Giancarlo Siani, come lo ha ricordato Antonio Castaldo, nell'artico scritto lo scorso anno in occasione dell'anniversario della sua uccisione

Fonte : Corriere Della Sera

di Antonio Castaldo

Era Lunedì. Giancarlo aveva finito di lavorare prima del solito. Doveva andare a un concerto. La fidanzata lo aspettava. E mentre dal Chiatamone, nel cuore barocco di Napoli, volava verso casa, su al Vomero, molto probabilmente sorrideva. Aveva ottenuto un contratto di due mesi, una sostituzione estiva alMattino. Da cinque anni era un «abusivo», lo schiavetto della redazione di Castellammare di Stabia. Senza contratto e senza diritti. Ma il purgatorio stava per finire. «Appena parte il nuovo piano editoriale sarai assunto», gli aveva detto il direttore Pasquale Nonno. Il suo sogno, lo stesso di ogni ragazzo che vuole fare il giornalista, stava per realizzarsi. Avrebbe avuto un contratto da praticante. La sera in cui fu ammazzato, Giancarlo Siani tornava a casa prendendo il vento di faccia nella sua Citroen Méhari verde bottiglia. Aveva compiuto 26 anni da quattro giorni. Ed era felice.
Una sentenza passata in giudicato nel 2000 ha stabilito che ad uccidere il giornalista napoletano alle 20.50 del 23 settembre 1985 sono stati due killer del clan Nuvoletta. Da quello stesso giorno il suo nome è diventato un simbolo di legalità. Giancarlo è diventato un eroe, un martire. Nessuno può negarlo e una sentenza lo conferma, i killer lo hanno ammazzato per quello che aveva scritto. E per ciò che stava per scrivere. Eppure, come ci ricorda un libro di Bruno De Stefano appena pubblicato, Passione e morte di un giornalista scomodo (Giulio Perrone editore), Siani era «un cronista che faceva semplicemente il suo lavoro con tanta passione e altrettanto rigore». E «il santino da eroe e da martire cucito addosso a questo giovanotto solare e sorridente più che rendergli onore lo mortifica, svilisce la sua intelligenza e il suo equilibrio trasformandolo in uno sprovveduto aspirante cronista inconsapevole dei rischi a cui andava incontro». Il libro di De Stefano restituisce alla corretta ricostruzione dei fatti un ragazzo morto ammazzato inseguendo la verità. E ce n’era bisogno perché altri avevano affrontato il caso dal punto di vista soltanto emozionale, come in un romanzo. Mancava un’analisi organica e definitiva della lunga vicenda processuale. Un testo che completasse certezze maturate in 15 anni di passi falsi.
Siani era un cronista di provincia. L’ultimo arrivato nel più grande quotidiano del Sud. Fin dal giorno del delitto, per qualcuno è stato difficile accettare l’idea che fosse stato giustiziato a causa del suo lavoro di cronista di frontiera. All’inizio anche la stessa magistratura ha inseguito ipotesi suggestive quanto irreali, collusioni con cooperative di ex detenuti piuttosto che piste passionali. La verità era altrove, ed è venuta fuori solo a partire dalla metà degli anni 90, grazie ad alcuni pentiti e al lavoro di un magistrato determinato come Armando D’Alterio.
Siani era dal 1980 corrispondente dalla città di Torre Annunziata, in quegli anni al centro della sanguinosa faida che opponeva il gruppo di Bardellino (il nucleo primigenio del clan dei casalesi) alle famiglie vesuviane di Alfieri e Gionta. Una guerra di mafia culminata nel massacro del 26 agosto del 1984 a Torre Annunziata. Gli uomini di Bardellino piombarono nel quartier generale dei Gionta a bordo di un pullman.  Morirono 8 persone, 7 i feriti. Ma il boss Valentino scampò all’agguato.
Giancarlo non poté scrivere molto sul fatto più grosso che gli fosse mai capitato. Come sempre in questi casi, i pezzi di prima pagina sono appannaggio degli inviati speciali. Ma nei mesi successivi si diede da fare con gli scenari criminali in continuo mutamento.
L’8 giugno 1985 Gionta viene arrestato nei pressi della tenuta di campagna dei Nuvoletta, dove aveva trovato rifugio durante la latitanza. Ancora una volta Siani resta in panchina. Ma il 10 giugno appare un pezzo di analisi che prova a spiegare quell’arresto inaspettato: La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di ‘Nuova famiglia’, i Bardellino”, scrive, evidentemente imbeccato dagli investigatori. E questa frase, a quanto hanno accertato dai giudici, decreta la sua condanna a morte.
Tuttavia, l’ombra di infamia fatta aleggiare sui potentissimi Nuvoletta non è il solo movente. Siani stava indagando da alcuni mesi sugli intrecci tra la classe politica vesuviana e la criminalità organizzata. Le sue fonti racconteranno delle continue richieste di documenti su appalti e piani di ricostruzione, riccamente finanziati dai fondi per il terremoto
Un’amica di vecchia data, Chiara Grattoni, testimonierà che Giancarlo era in quel periodo eccitato per le notizie che aveva scoperto: “La cosa che ricordo di più, che mi impressionò di più, era che lui sosteneva che i politici di Torre Annunziata fossero implicati in fatti di camorra [...]. Era molto preso dalla cosa”. Confermò la donna. E come alla fine concluse il pm D’Alterio, Siani faceva paura per il solo fatto che in un ambiente omertoso, quale quello di Torre Annunziata, faceva domande e smuoveva le acque”.
Siani, insomma, dava fastidio perché poneva interrogativi scomodi. E perché continuava a raccogliere documenti su documenti. Il giorno della sua morte telefonò ad Amato Lamberti, il sociologo da sempre impegnato nella lotta alla camorra, e gli chiese urgentemente un incontro. Doveva parlargli. Ma al telefono non poteva, e non vicino al giornale, dove evidentemente non si sentiva
al sicuro. Nessuno sa cosa avesse scoperto. Quando è stato ucciso, nella scassatissima auto decappottabile, in ufficio e a casa, non è stata trovata traccia del dossier su cui lavorava. Una stranezza per chi come lui era abituato ad archiviare anche gli scontrini. Sta di fatto che, come hanno raccontato Lamberti e vari altri testimoni, Siani aveva imboccato la pista della corruzione e dell’abbraccio velenoso tra camorra e politica. Negli anni successivi altre inchieste e altri processi proveranno la correttezza delle sue intuizioni. Il Comune di Torre Annunziata sarà sciolto per infiltrazioni mafiose e il sindaco condannato. Giancarlo aveva ragione ma non gli è stata concessa la possibilità di scriverlo. Aveva appena compiuto 26 anni.

venerdì 13 settembre 2013

Sentinelle del territorio: "…Aspettando Renzo Piano ( a Pinerolo), cosa può legare un semaforo (in Calabria) ad un grattacielo (a Pinerolo)?


Al ritorno da una breve vacanza nel paese natìo in Calabria, mi arrovella una domanda: cosa può legare il semaforo posto su un antico muro di sostegno di un borgo calabrese all’idea di un “grattacielo” a Pinerolo? 

Il borgo calabrese, il semaforo sull'antico muro,  il "grattacielo" di Pinerolo
Il quesito mi viene sollecitato da quanto si legge in un documento allegato alla delibera approvata dall’amministrazione pinerolese nello scorso mese di luglio. La delibera prevede la vendita dell’area dei cosiddetti “Portici Blu” al fine di realizzare “(…) “un edificio capace di lasciare un segno forte sul paesaggio cittadino”. (Un “secondo” grattacielo a Pinerolo?)
Lasciare un segno forte…” Mi sono chiesto: è forse  lo stesso principio, fatte le debite proporzioni, che ha ispirato gli amministratori del borgo calabrese posizionando il semaforo sull’antico muro, forse come segno di modernità o come gesto concreto dell’attenzione che l’ amministratore ha nei confronti dei bisogni della sua comunità?
Eppure, visti nel loro contesto e riflettendo sui due “oggetti”, il semaforo sull’antico muro così come il “grattacielo” nel panorama di Pinerolo, mi viene da pensare che entrambi rappresentano, a mio parere, due elementi “osceni”. “Osceni” nel significato etimologico della parola latina da cui deriva il termine “osceno”: “ob scenum”, ovvero qualcosa che è fuori dalla scena, fuori dal contesto, qualcosa di inadeguato.
Memorie degli studi universitari alla facoltà di Architettura di Torino, uno dei principi che più mi affascinavano era quello del “genius loci”, lo spirito del luogo, la vocazione di un luogo. Un principio fondamentale che, come apprendevamo, aveva determinato la varietà delle forme architettoniche espresse dalle differenti culture e civiltà: fondato sul rispetto delle atmosfere e del carattere spirituale dei luoghi, delle tradizioni costruttive, sulla sensibilità per l’uso di materiali. Cosicché, sino a qualche decennio orsono era piuttosto agevole individuare il luogo, la nazione -e quindi la cultura- che aveva “costruito” un edificio, una casa, un’opera architettonica, un disegno urbanistico. Saper cogliere ed esprimere nel progetto che si elaborava il “genius loci”, lo spirito del luogo, secondo i nostri docenti era un elemento discriminante per rendere oggettivamente ammirevole, qualificante e giustificata, l’opera di un professionista che ambisse a svolgere il lavoro di architetto.
La realtà della professione dell’architetto, al di fuori dalle aule universitarie e soprattutto in Italia, è stata davvero differente. La figura dell’architetto, come altre, in Italia si è trasformata spesso in quella di un mero esecutore di ordini, volontà e programmi altrui. Ma non pensiamo di ritrovare facilmente lo spirito della famiglia dei Medici, di Giulio II,  o anche dei Savoia,  nelle vesti di pubblici e privati committenti! La speculazione edilizia, la forza della “rendita”, a volte “il malaffare”, questi i “poteri-committenti” che hanno provocato il degrado di tanti paesaggi e “luoghi” italiani e che hanno visto -troppo spesso!- accondiscendenti e ignavi esecutori proprio in coloro che della bellezza dei luoghi, della loro difesa e creazione, avrebbero dovuto essere strenui e appassionati protagonisti.
Se cerchiamo un segno dell’inizio dell’apocalisse architettonica e urbanistica italiana -e anche dell’etica della nazione- forse dobbiamo rievocare l’inquietante proclama che scosse la Sicilia all’inizio del 1960: “Palermo è bella! Facciamola più bella!”.

uno dei tanti episodi del "Sacco di Palermo": Villa Rutelli, demolita, e l'edificio che la sostituì.
Palermo, Via della Libertà angolo Via La Marmora
Con le parole pronunciate dall’allora sindaco di Palermo, Salvo Lima, in realtà si dava il via  a quello che la storia avrebbe definito “Il Sacco di Palermo”: la devastazione urbanistica ed architettonica di una delle più belle città italiane, palermo, e del paesaggio nella quale la città era immersa, la “Conca D’Oro”. Nel giro di pochi anni, il luogo che fece dire a Goethe «chi ha visto tutto questo non lo dimentica più» venne sepolto da una colata di trecento milioni di metri cubi di cemento di edilizia residenziale.  Ora sappiamo che un destino comune avrebbe unito Palermo a tante parti d’Italia. Da Sud a  Nord, ora sappiamo come è andata a finire. Opere cinematografiche come il film di Francesco Rosi, “Le Mani sulla Città”, ancora oggi potrebbe spiegare dinamiche e fenomeni a cui non abbiamo saputo (voluto?) opporci o che tentiamo di relegare ad un passato lontano. Oggi sappiamo che il degrado formale dei luoghi, degrado architettonico e urbanistico, altro non è che il segno tangibile del decadimento culturale ed etico di una comunità, di una nazione!
Magari in buona fede, committenti e progettisti del grattacielo di Pinerolo  muovevano forse da un impeto simile? “ Pinerolo è bella! Facciamo ancora più bella!” Ai tempi della sua costruzione, avvenuta negli ultimi anni ’50 del Novecento, anche il grattacielo di Pinerolo fu salutato da alcuni come simbolo del progresso che investiva e risollevava l’Italia del dopoguerra. Tuttavia, negli anni a seguire non tardò molto che “il grattacielo” si riducesse a quello che era nella realtà: il segno di una modernità vacua, un errore culturale – un po’ presuntuoso, un “ob-scenum”- compiuto nel tessuto e nel panorama di una delle più belle cittadine piemontesi.
Troppo tardi si è levata la voce di Renzo Piano, l’archi-star umanista italiano, quando giunse ad ammonire i colleghi: “Occorre anche saper dire dei no!”.
Occorrerebbe riflettere invece su quanto decoro, sapienza urbanistica e valore architettonico d’insieme, esprimano tanti antichi borghi, paesi e cittadine di ogni regione italiana, anche quelli sorti in luoghi nei quali il retaggio della povertà economica ne costituiva tratto essenziale. In quei luoghi, oscuri artigiani dell’architettura e dell’urbanistica avevano “disegnato” e costruito assecondando proprio “il genius loci”, la vocazione dei luoghi di cui parlavo prima,. Borghi, paesi e cittadine che tante volte oggi ritroviamo offesi in paesaggi sviliti, oltraggiati da “cose-case” oscene o informi periferie, frutto di volontà, cultura e valori davvero diversi da quelle che -per secoli- ne avevano animato la crescita lenta, organica, meditata e “sostenibile” (come diremmo ora dall’alto della nostra presunta modernità culturale).
Nella aule universitarie delle facoltà di architettura, come nei luoghi ove si amministra “la cosa pubblica”, dovrebbero risuonare anche le parole semplici di Peppino Impastato, non già architetto o critico-teorico di moderna e acclarata fama ma semplice martire della Giustizia e della Bellezza di questa nostra Italia: “Se si insegnasse la Bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilà: si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di quei luoghi prima, ed ogni cosa per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. E’ perciò che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione, ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”.
E allora, poco a poco, mi pare di intravedere il legame fra il semaforo di uno sperduto borgo della Calabria e l’idea di un grattacielo” di una  ridente cittadina piemontese… Aspettando un Renzo Piano (o un semplice “bertoncelli”) che ci insegni a saper dire anche dei “no!”
 Francesco Incurato
referente presidio Libera “Rita Atria” Pinerolo


 P.S.: il semaforo “calabrese” – posto a gestire un traffico in realtà inesistente - non è ancora funzionante, come nella triste tradizione di quella regione ( ma non solo in  quella)!...ed è anche vero che con l’arrivò del cosiddetto “International style”, e dei cosiddetti “archi-stars”, non è più così “osceno” proporre a Milano un progetto rifiutato a New York!...Sic!

giovedì 5 settembre 2013

Una mano per la scuola. Pinerolo 6-7settembre 2013

Il presidio Libera “Rita Atria” Pinerolo  si rivolge ai cittadini pinerolesi per chiedere collaborazione ad un progetto di sostegno a favore delle famiglie colpite dalla crisi economica che viviamo. La raccolta avrà luogo presso l'IperCoop di Pinerolo


Le situazioni di disagio e di difficoltà economica sono sempre più numerose e interessano fasce sociali sempre più estese. Disagi a volte “invisibili”, nascosti per la vergogna che molti di noi provano a dover mostrare dificoltà economiche, in una società come la nostra dove la povertà -o l’impossibilità di aderire a modelli di consumo imposti- viene vista come segno di sconfitta o di inferiorità. In una società nella quale a volte i legami umani sono spesso rari e indeboliti da egoismi o solitudini, sono queste le situazioni che possono sfociare negli episodi drammatici che, quotidianamente, allungano la lista di coloro che si sentono emarginati e umiliati.
Occorre muoversi e far muovere qualcosa. Occorre cambiare il modello culturale di questa società, combattere sprechi e privilegi,  ma servono anche piccole azioni concrete e immediate. Questo è solo un primo atto.
Per questi motivi ci rivolgiamo a tutti “i cittadini responsabili”, affinché si riconquisti l’etica di essere comunità, riappropriandoci del pensiero di sentirci, tutti quanti e tutti insieme, responsabili del destino e della vita di chi ci sta accanto, per la parte che ci spetta in relazione al ruolo e alle possibilità di ognuno di noi.


martedì 3 settembre 2013

Memoria e impegno. Il 3 settembre 1982 i killer della mafia uccidono il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro, l'agente Domenico russo

Cento giorni di solitudine bastarono ai poteri mafiosi ( e non solo mafiosi) per spegnere  "la speranza" dei palermitani e degli italiani onesti. Cosi' venne ucciso il generale nominato prefetto di Palermo per sconfiggere la mafia.  Carlo Alberto Dalla Chiesa era vittima sacrificale, lasciato solo dallo Stato "...a Palermo, con i poteri del prefetto di Forlì" , così ebbe a dire lui stesso nella sua ultima  intervista rilasciata a Giorgio Bocca 


Riproponiamo l'articolo scritto lo scorso settembre 2012 da Francesco Licata per commemorare la memoria di Carlo Alberto dalla Chiesa, Emmanuela Setti Carraro, e l’agente Domenico Russo. Sottolineiamo la conclusione dell'articolo:

"(...) Fu solo mafia?(...) una coincidenza va sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le indagini: Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da una non frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo. La mafia siciliana ha ucciso (chissà perché?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale. Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri."

fonte: La Stampa

Carlo Alberto Dalla Chiesa,

quei cento giorni di solitudine


Il 3 settembre 1982 in via Isidoro Carini a Palermo vengono uccisi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emmanuela Setti Carraro. La loro A112 bianca venne crivellata di colpi di kalashnikov Ak-47

Trent’anni fa lo Stato lo lasciò solo, la mafia uccise lui e la moglie e l'agente di scorta

FRANCESCO LA LICATA
PALERMO
Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa venne assassinato in una calda serata sciroccosa. Erano passate da poco le 21 del 3 settembre 1982 e la A112 color crema, guidata dalla giovane moglie, Emmanuela Setti Carraro, imboccava la via Isidoro Carini, lasciandosi alle spalle Villa Whitaker - sede della Prefettura - diretta verso il refrigerio di un ristorante all’aperto del golfo di Mondello. Seguiva l’utilitaria l’agente Domenico Russo, alla guida dell’Alfa blu che il generale-prefetto non utilizzava, convinto che l’anonimato di una «normale macchinetta» offrisse maggiori garanzie di sicurezza dell’auto blu, immediatamente identificabile.
Precauzione inutile, perché la task-force messa in campo da Cosa nostra monitorava da diverse ore i movimenti del bersaglio e forse aveva potuto disporre anche della soffiata partita da Villa Whitaker, da qualcuno che controllava strettamente il generale.
Due macchine e due moto rasero al suolo la A112, senza risparmio di violenza e a nulla valse la protezione offerta ad Emmanuela dall’abbraccio coraggioso del marito. L’agente Russo fu finito dal killer più sanguinario di quel momento: Giuseppe Pino Greco, detto «Scarpuzzedda».
I palermitani stavano a cena, davanti ai televisori. La notizia, tuttavia, non l’ebbero dai telegiornali perché arrivò prima il passaparola. Esplose così rapida da richiamare in pochi minuti una folla di gente in piedi, impietrita in un silenzio irreale, con gli occhi rossi di rabbia. Quando, ormai a notte fatta, fu smontata la scena e i fari, i lampeggiatori delle volanti, si spensero, rimase solo la fragile disperazione di una città, sintetizzata in un cartello che sentenziava: «Qui muore la speranza dei palermitani onesti».
Così fu spenta una luce che si era accesa appena cento giorni prima, sull’onda dell’ennesimo eccidio mafioso che aveva colpito il segretario regionale del Pci, Pio La Torre, abbattuto dalla mafia insieme con l’amico, compagno e scorta volontaria, il militante Rosario Di Salvo.
La speranza, per la verità, non era nata sotto i migliori auspici. Il generale era stato inviato a Palermo come un’arma spuntata: Roma non aveva voluto dargli gli stessi poteri che gli erano stati dati nella lotta al terrorismoPrefetto senza poteri speciali: un messaggio rassicurante per la palude palermitana, preoccupata per la presenza di un uomo deciso, carabiniere nel Dna, poco incline alle pantomime sicule dell’indignazione senza conseguenze.
E infatti la città gli dimostrò immediatamente tutta la propria avversione. La città del potere, ovviamente. Perché i cittadini, invece, riponevano molte aspettative sulle capacità del prefetto. Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo in incognito. Ignorò l’auto che l’aspettava in aeroporto, montò su un taxi ed arrivò in Prefettura «pieno» delle notizie e degli umori strappati al tassista loquace. Non si fidava, il generale, e con quella «presentazione» intendeva mettere subito le cose in chiaro.
Fu criticato, ovviamente, per quella scelta. Non gli furono risparmiate ironie e commenti, pesanti allusioni sulla differenza di età con la giovane seconda moglie: insomma tutto il repertorio della maldicenza e della mafiosità locale. Persino il sindaco, l’avvocato Nello Martellucci, uomo del gruppo di potere dominante (Lima, Ciancimino, Gioia), si rifiutò di portargli il saluto con la pretestuosa motivazione che doveva essere il generale a «presentarsi» al padrone di casa. E come lo sbeffeggiavano quando andava nelle scuole a parlare di legalità coi ragazzi o quando faceva sequestrare agli angoli delle strade il pane prodotto e venduto abusivamente
Solo Leonardo Sciascia capì il valore di quel gesto e spiegò che non si poteva battere la mafia fino a quando i mercati di Palermo sarebbero rimasti repubbliche indipendentiCome a dire c’è Cosa nostra ma anche qualcosa di più subdolo, per esempio la mafiosità.
La solitudine del generale, in quei cento giorni palermitani, è stata ricordata più volte dal figlio, Nando, che non ha mai modificato il suo giudizio duro sulla politica che isolò il padre (giudizio riproposto oggi a Luciano Mirone, autore di «A Palermo per morire»). E quando si parla dell’isolamento di Dalla Chiesa il discorso non può non cadere sul rapporto con Giulio Andreotti, a cui il generale, in partenza - «disarmato» per Palermo - anticipa che non avrà «nessun riguardo per la corrente Dc più inquinata» (quella di Salvo Lima, di Gioia, di Ciancimino e dei cugini Ignazio e Nino Salvo). Li conosceva bene, il prefetto, quei personaggi. Aveva redatto un rapporto destinato alla Commissione antimafia, quando era comandante della Legione a Palermo. Ma quell’analisi - ricorda il figlio Nando - era arrivata in Parlamento molto manipolata, addirittura coi nomi «sbianchettati».
Qual era lo stato d’animo del generale e della giovane moglie, pochi giorni prima dell’eccidio? Bastano le parole dette al telefono alla madre da Emmanuela: «Non posso venire a Milano, non voglio lasciare Carlo nemmeno per un momento, chi lo salverebbe? Siamo dimenticati, mamma, da chi ci dovrebbe tutelare». 
Gli assassini del generale, della moglie e dell’agente sono stati condannati. Ma si tratta dei macellai. Mancano le menti raffinatissime, per dirla con le parole di Giovanni Falcone
Chi ha tradito Dalla Chiesa? Quale conto hanno fatto pagare al generale sabaudo mandato nella terra degli infedeli? 
Persino la Chiesa siciliana, solitamente cauta, nel giorno dei funerali usò parole di fuoco e puntò il dito sul potere ignavo: «Mentre a Roma si discute sul da farsi, Sagunto viene espugnata», gridò il cardinal Pappalardo dal sagrato della basilica di San Domenico.
Fu solo mafia? Oppure il «conto» inglobava anche i segreti del sequestro Moro e di quel grumo conseguente, conosciuto alle cronache come l’affaire del giornalista Mino Pecorelli? Certo, dopo trent’anni è difficile andare a rovistare nei pozzi neri, forse andava fatto subito. Ma una coincidenza va sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le indagini: Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da una non frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo. La mafia siciliana ha ucciso (chissà perché?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale. 
Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri.