mercoledì 9 settembre 2015

"Capitale corrotta, nazione infetta" ma "Sono tutti uomini d'onore..."

Ieri sera, in prima serata è andata in onda la prima puntata di Ballarò per la stagione 2015/2016. Il contributo dei "comici"  sembra essere divenuto l'ingrediente indispensabile nei cosiddetti talk-show politici; laddove tutti ci siamo oramai accorti -da tempo- di quanto sia importante "lo spettacolo-vetrina -passerella" del politico di turno, metre scomparsa -da tempo- è proprio la politica, quella attività nobile che avrebbe lo scopo di mirare e perseguire il bene della collettività.  
La Tv moderna,  e un poco-tanto cafona dei nostri giorni, ha tuttavia affidato proprio alla figura del "comico" lo stesso ruolo che nel teatro greco svolgeva "la satira", la commedia grassa. licenziosa e volgare, ma nella quale tante libertà-verità erano permesse, consentite. Così come più tardi, nell'epoca mediovale, il giullare di corte aveva licenza di proferire la verità scomoda anche dinanzi al sovrano...tanto, il popolo, la corte e i cortigiani, avrebbero certo stemperato lo scandalo della verità, il dolore della verità, nella risata! 
Ed è già sintomo di "coraggio", per la televisione dei nostri giorni, ingaggiare il comico-giullare che pronuncia quella verità, o almeno una parte della verità...
E allora, ieri sera, ecco andare in scena Enrico Brignano, "comico romano", il quale, finalmente, ha il coraggio di pronunciare il fatidico concetto: "Sono tutti uomini d'onore..."


Ascoltate le parole pronunciate da Enrico Brignano, i nomi, i fatti, le situazioni...non si può non essere daccordo con lui: a Roma, per quel che appare, "sono tutti uomini d'onore"! Ma anche a Venezia ( e nel resto del settentrione) non è che si stia tanto meglio!
"Capitale corrotta, nazione infetta". Bel titolo! D'effetto!...è quello spesso utilizzato per etichettare lo scandole delle mafie che si sono impossessate di Rome-capitale ! Geniale!...Peccato, peccato mortale, perchè era il titolo di un articolo comparso addirittura nel 1995! Così ce lo ricordava la rivista Miocromega nello scorso dicembre 2014, nei giorni in cui l'inchiesta riempiva le pagine dei giornali e gli schermi delle Tv:

Fonte : MicroMega

Capitale corrotta, nazione infetta

di Angelo d’Orsi

"Capitale corrotta, nazione infetta": era il titolo, divenuto presto famoso, di una mirabile inchiesta de “l’Espresso”, apparsa l'11 dicembre 1955. L'articolo era firmato da Manlio Cancogni, grande letterato e giornalista (bellissimo il suo libro "Squadristi" del 1972, abile fusione di giornalismo e storiografia). L'inchiesta documentava, in modo efficace e accorato, gli illeciti negli appalti immobiliari di Roma, nei quali, tra l'altro, era coinvolta una società immobiliare del Vaticano. Ne nacque uno "scandalo" che forse non servì a cambiare il quadro politico, ma se non altro scosse la pubblica opinione, anche se poi ci pensava Lascia o raddoppia? e i festival canori a riaddormentarla.

Allora, appunto, si chiamavano "scandali", per indicare l'eccezionalità di quegli eventi. Oggi, come constatiamo, sono la norma, l'indefettibile regola della nostra quotidianità: la collusione tra malaffare, criminalità organizzata, classe politica. “Capitale corrotta, nazione infetta”: le notizie provenienti da Roma, che si rivela una cloaca maxima, sono sconfortanti, avvilenti. Ovviamente vi sono coloro che – i Salvini di turno – si fregheranno le mani, ripetendo il "Roma ladrona", loro che a Roma ci sono, come sono a Bruxelles, e in ogni ganglio del potere, condividendone gioie e nefandezze.

Lasciamoli gongolare, mentre le Procure della Repubblica mandano, ormai settimanalmente, avvisi di garanzia che svelano la capillare presenza di mafia e ndrangheta nelle imprese e nelle pubbliche amministrazioni del Settentrione.(...) Leggi qui l'articolo integrale

giovedì 3 settembre 2015

Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emmanuela Setti Carraro, Domenico Russo. 3 settembre 1982.

Il dovere di fare memoria: Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emmanuela Setti Carraro, Domenico Russo . 3 settembre 1982. Cento giorni di solitudine.

Cento giorni di solitudine bastarono ai poteri mafiosi ( e non solo mafiosi) per spegnere  "la speranza" dei palermitani e degli italiani onesti. Cosi' venne ucciso il generale Dalla Chiesa, nominato prefetto di Palermo per sconfiggere la mafia.  Carlo Alberto Dalla Chiesa fu in realtà la "vittima sacrificale": lasciato solo "...a Palermo, con i poteri del prefetto di Forlì". Così ebbe a dire lui stesso, con triste ironia, nella ultima intervista rilasciata a Giorgio Bocca il 10 agosto 1982  e che riportiamo  qui .


Riproponiamo anche l'articolo scritto nel settembre 2012 da Francesco Licata per commemorare il trentennale della strage nella quale furono uccisi Carlo Alberto dalla Chiesa, Emmanuela Setti Carraro, e l’agente Domenico Russo. Sottolineiamo la conclusione dell'articolo:"(...) Fu solo mafia?(...) una coincidenza va sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le indagini: Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da una non frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo. La mafia siciliana ha ucciso (chissà perché?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale. Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri."

fonte: La Stampa

Carlo Alberto Dalla Chiesa,

quei cento giorni di solitudine


Il 3 settembre 1982 in via Isidoro Carini a Palermo vengono uccisi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emmanuela Setti Carraro. La loro A112 bianca venne crivellata di colpi di kalashnikov Ak-47

Trent’anni fa lo Stato lo lasciò solo, la mafia uccise lui e la moglie e l'agente di scorta

FRANCESCO LA LICATA
PALERMO
Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa venne assassinato in una calda serata sciroccosa. Erano passate da poco le 21 del 3 settembre 1982 e la A112 color crema, guidata dalla giovane moglie, Emmanuela Setti Carraro, imboccava la via Isidoro Carini, lasciandosi alle spalle Villa Whitaker - sede della Prefettura - diretta verso il refrigerio di un ristorante all’aperto del golfo di Mondello. Seguiva l’utilitaria l’agente Domenico Russo, alla guida dell’Alfa blu che il generale-prefetto non utilizzava, convinto che l’anonimato di una «normale macchinetta» offrisse maggiori garanzie di sicurezza dell’auto blu, immediatamente identificabile.
Precauzione inutile, perché la task-force messa in campo da Cosa nostra monitorava da diverse ore i movimenti del bersaglio e forse aveva potuto disporre anche della soffiata partita da Villa Whitaker, da qualcuno che controllava strettamente il generale.
Due macchine e due moto rasero al suolo la A112, senza risparmio di violenza e a nulla valse la protezione offerta ad Emmanuela dall’abbraccio coraggioso del marito. L’agente Russo fu finito dal killer più sanguinario di quel momento: Giuseppe Pino Greco, detto «Scarpuzzedda».
il cartello che qualcuno scrisse sul luogo della strage
I palermitani stavano a cena, davanti ai televisori. La notizia, tuttavia, non l’ebbero dai telegiornali perché arrivò prima il passaparola. Esplose così rapida da richiamare in pochi minuti una folla di gente in piedi, impietrita in un silenzio irreale, con gli occhi rossi di rabbia. Quando, ormai a notte fatta, fu smontata la scena e i fari, i lampeggiatori delle volanti, si spensero, rimase solo la fragile disperazione di una città, sintetizzata in un cartello che sentenziava: «Qui muore la speranza dei palermitani onesti».
Così fu spenta una luce che si era accesa appena cento giorni prima, sull’onda dell’ennesimo eccidio mafioso che aveva colpito il segretario regionale del Pci, Pio La Torre, abbattuto dalla mafia insieme con l’amico, compagno e scorta volontaria, il militante Rosario Di Salvo.
La speranza, per la verità, non era nata sotto i migliori auspici. Il generale era stato inviato a Palermo come un’arma spuntata: Roma non aveva voluto dargli gli stessi poteri che gli erano stati dati nella lotta al terrorismoPrefetto senza poteri speciali: un messaggio rassicurante per la palude palermitana, preoccupata per la presenza di un uomo deciso, carabiniere nel Dna, poco incline alle pantomime sicule dell’indignazione senza conseguenze.
E infatti la città gli dimostrò immediatamente tutta la propria avversione. La città del potere, ovviamente. Perché i cittadini, invece, riponevano molte aspettative sulle capacità del prefetto. Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo in incognito. Ignorò l’auto che l’aspettava in aeroporto, montò su un taxi ed arrivò in Prefettura «pieno» delle notizie e degli umori strappati al tassista loquace. Non si fidava, il generale, e con quella «presentazione» intendeva mettere subito le cose in chiaro.
Fu criticato, ovviamente, per quella scelta. Non gli furono risparmiate ironie e commenti, pesanti allusioni sulla differenza di età con la giovane seconda moglie: insomma tutto il repertorio della maldicenza e della mafiosità locale. Persino il sindaco, l’avvocato Nello Martellucci, uomo del gruppo di potere dominante (Lima, Ciancimino, Gioia), si rifiutò di portargli il saluto con la pretestuosa motivazione che doveva essere il generale a «presentarsi» al padrone di casa. E come lo sbeffeggiavano quando andava nelle scuole a parlare di legalità coi ragazzi o quando faceva sequestrare agli angoli delle strade il pane prodotto e venduto abusivamente
Solo Leonardo Sciascia capì il valore di quel gesto e spiegò che non si poteva battere la mafia fino a quando i mercati di Palermo sarebbero rimasti repubbliche indipendentiCome a dire c’è Cosa nostra ma anche qualcosa di più subdolo, per esempio la mafiosità.
La solitudine del generale, in quei cento giorni palermitani, è stata ricordata più volte dal figlio, Nando, che non ha mai modificato il suo giudizio duro sulla politica che isolò il padre (giudizio riproposto oggi a Luciano Mirone, autore di «A Palermo per morire»). E quando si parla dell’isolamento di Dalla Chiesa il discorso non può non cadere sul rapporto con Giulio Andreotti, a cui il generale, in partenza - «disarmato» per Palermo - anticipa che non avrà «nessun riguardo per la corrente Dc più inquinata» (quella di Salvo Lima, di Gioia, di Ciancimino e dei cugini Ignazio e Nino Salvo). Li conosceva bene, il prefetto, quei personaggi. Aveva redatto un rapporto destinato alla Commissione antimafia, quando era comandante della Legione a Palermo. Ma quell’analisi - ricorda il figlio Nando - era arrivata in Parlamento molto manipolata, addirittura coi nomi «sbianchettati».
Qual era lo stato d’animo del generale e della giovane moglie, pochi giorni prima dell’eccidio? Bastano le parole dette al telefono alla madre da Emmanuela: «Non posso venire a Milano, non voglio lasciare Carlo nemmeno per un momento, chi lo salverebbe? Siamo dimenticati, mamma, da chi ci dovrebbe tutelare». 
l'immagine dell'auto e dei corpi del  prefetto e di sua moglie
Gli assassini del generale, della moglie e dell’agente sono stati condannati. Ma si tratta dei macellai. Mancano le menti raffinatissime, per dirla con le parole di Giovanni Falcone
Chi ha tradito Dalla Chiesa? Quale conto hanno fatto pagare al generale sabaudo mandato nella terra degli infedeli? 
Persino la Chiesa siciliana, solitamente cauta, nel giorno dei funerali usò parole di fuoco e puntò il dito sul potere ignavo: «Mentre a Roma si discute sul da farsi, Sagunto viene espugnata», gridò il cardinal Pappalardo dal sagrato della basilica di San Domenico.
Fu solo mafia? Oppure il «conto» inglobava anche i segreti del sequestro Moro e di quel grumo conseguente, conosciuto alle cronache come l’affaire del giornalista Mino Pecorelli? Certo, dopo trent’anni è difficile andare a rovistare nei pozzi neri, forse andava fatto subito. Ma una coincidenza va sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le indagini: Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da una non frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo. La mafia siciliana ha ucciso (chissà perché?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale. 
Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri.

mercoledì 26 agosto 2015

Pinerolo "capitale"? Una domanda. Quale risposta?

Al rientro da brevi vacanze, non può mancare di suscitare interesse l'articolo della redazione di Vita Diocesana nel quale si ri-propone l'immagine di Pinerolo, come "capitale" di un territorio più o meno vasto. Ma più importante dell'immagine di Pinerolo-capitale pare sia l'interrogativo sotteso all'immagine stessa: quale classe politica, quale energia della cosiddetta "società civile", può dare vita ad un cammino che porti al "rinascimento pinerolese"?

Come referente del presidio di LIBERA "Rita Atria" Pinerolo, la mente del sottoscritto corre a una riflessione sorta all'interno del nostro gruppo a seguito di una intervista “coraggiosa”, rilasciata nel settembre dello scorso anno dal nostro concittadino il senatore Elvio Fassone ( leggi qui); coraggiosa perchè fra altre cose- il sen. Fassone esprimeva un giudizio sugli “eletti”, coloro che sono chiamati a guidare la comunità:“(…) La classe politica non è mai all’altezza. Purtroppo infatti la politica non riesce ad attrarre chi dovrebbe. (…)” Le elezioni dovrebbero servire, nel senso antico del termine (eligere) a selezionare i migliori. Tuttavia questi dovrebbero farsi avanti, e ciò quasi mai accade.(...)".
Le parole di Elvio Fassone, come già detto, avevano stimolato una nostra riflessione, di carattere generale, sulla "politica"; una riflessione che mi permetto ora di riportare auspicando che si apra davvero un dibattito nella nostra comunità, teso a stimolare energie che si offrano -e si pongano- "a servizio" della città. Come ci ricorda anche Dario Seglie nel suo commento all'articolo di Vita Diocesana, il passato di Pinerolo meriterebbe ( imporrebbe?) una comunità che sapesse assumersi la responsabilità di esprimere eccellenza civile, etica, politica e morale. D'altra parte, a mio parere, il ruolo di "capofila-capitale" di un territorio non può che essere titolo riconosciuto dal territorio stesso (a chi vorrebbe assumere quel ruolo) in conseguenza di manifeste eccellenze civili, morali, etiche, politiche.
Arturo Francesco Incurato.

Fonte : Vita Diocesana

Pinerolo capitale? 

Leggi qui il testo integrale dell'articolo e i commenti


agosto 2015

È stato presentato il 25 luglio scorso un documento programmatico in vista delle prossime elezioni amministrative. «Pinerolo è la “capitale” dell’area omogenea pinerolese – si legge nel documento – e pertanto, diventa conseguente che anche la dimensione amministrativa della città si apra alla nuova stagione politica, individuando una delega specifica all’area omogenea metropolitana nella giunta di Pinerolo, da affidare ad un profilo che rappresenti l’espressione coesa di tutto il pinerolese e capace di coinvolgere le migliori energie disponibili ad investire per la città ed il suo territorio in un’ottica “metropolitana”». Insomma, Pinerolo immaginata come capoluogo di una mini-provincia.

Ma chi può dare gambe e concretezza a questo progetto? «Gli strumenti operativi – si legge ancora – dovranno essere individuati in soggetti che già operano sul territorio e che rappresentano un patrimonio consolidato di energie ed esperienze, sia individuali che collettive». Parallelamente a questo progetto, denominato solennemente “per un nuovo rinascimento pinerolese” (forse anche solo “rinascita” potrebbe bastare), già spuntano nomi e cognomi di aspiranti sindaco (o dovremmo dire presidente?). L’autunno, con ogni probabilità, imporrà alle varie formazioni politiche di scoprire le carte.

La Redazione

giovedì 6 agosto 2015

Ninnì Cassarà e Roberto Antiochia: uccisi dalla mafia il 6 agosto 1985

Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia. Nomi sconosciuti ai più; morti che camminavano e venivano uccisi ("cadaveri più o meno eccellenti"), servitori di uno Stato  nel quale vi erano ( e vi sono ancora) "pezzi" di quello stessoStato che non volevano protegger quei servitori onesti; "pezzi" di Stato collusi con le mafie. Ora come allora.
Per onorare tutti loro vorremmo sottolineare la storia di Roberto Antiochia, "vivo per sempre" anche grazie alle parole di Saveria Antiochia, sua madre, che pochi giorni dopo i funerali scrive una lettera durissima contro le istituzioni italiane: " Li avete abbandonati" ( qui il testo della lettera). La storia di Roberto è anche nella motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Civile riconosciuta a Roberto Antiochia, il più giovane e la cui storia esemplare è, lo ripetiamo, ancora oggi sconosciuta a tanti italiani.Agente della Polizia di Stato, in servizio a Roma, mentre era in ferie, spontaneamente partecipava in Palermo alle delicate e difficili indagini sull’omicidio di un funzionario di polizia, con il quale aveva in passato collaborato, consapevole del pericolo cui si esponeva nella lotta contro la feroce organizzazione mafiosa. Nel corso di un servizio di scorta, rimaneva vittima di proditorio agguato ad opera di spietati assassini. Esempio di attaccamento al dovere spinto all’estremo sacrificio della vita», Palermo 6 agosto 1985.  
Le ombre su nomi, volti e storie di tanti personaggi di rilievo della storia odierna di questo paese disonorano la memoria di uomini quali Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia. Disonora la memoria di quegli uomini la mancanza di vicinanza di "pezzi" delle istituzioni che, in alcuni casi, si manifesta  ancora oggi nei confronti di magistrati impegnati in prima linea nella guerra contro le mafie.
 

 Fonte: Antimafiaduemila

Cassarà, Antiochia e Montana, quel ricordo che scuote le coscienze 

di Jole Garuti* - 6 agosto 2015
Sono passati trent’anni da quel 6 agosto terribile, in cui sono stati uccisi in via Croce Rossa il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia, ma il ricordo di quella tragedia scuote ancora le coscienze e le menti. L’uccisione del commissario Beppe Montana a Porticello, il 28 luglio, era stato il segnale che anche la vita del vicequestore Ninni Cassarà stava per finire. La Questura era in subbuglio per la morte di Beppe Montana, colui che aveva creato la Squadra Catturandi, convinto com’era – a ragione – che i latitanti non fossero all’estero ma rimanessero abbarbicati al territorio in cui avevano sempre vissuto e dove avevano acquisito capacità intimidatoria e quindi potere. Beppe con la sua allegra vitalità era molto amato dai suoi uomini, con i quali viveva ogni ora della giornata. Per stanare i latitanti considerava fondamentale stare nelle strade, partecipare alle feste, conoscere i frequentatori dei bar e mescolarsi tra la gente, rigorosamente in borghese e con gli orecchi ben aperti per captare segnali, mentalità, notizie interessanti.
Gli uomini della Catturandi, giovani e simpatici, si facevano voler bene da tutti. Basti ricordare che il funerale di Roberto fu seguito da un gruppetto di ragazzini, poco più che bambini, in lacrime per la morte del loro amico ‘sbirro’ che tutte le mattine li portava al bar a fare colazione.
La rabbia per la morte del commissario Montana innescò un’altra tragedia. La ricerca dei colpevoli portò infatti a un calciatore del Pro Bagheria molto ben voluto dagli abitanti di Porticello e dei quartieri popolari di Palermo, Salvatore Marino. Si presentò in Questura con l’avvocato ma andò all’antirapine, non alla Catturandi. Gli trovarono in casa 34 milioni avvolti in un giornale con la notizia della morte di Montana, lo interrogarono brutalmente, lo torturarono fino a provocarne la morte.
Cassarà non era in questura quella notte, ma venne detto che era sua la responsabilità della morte di Marino.
Questa atmosfera plumbea avvolge Roberto Antiochia, arrivato sconvolto da Roma, dov’era in ferie, per i funerali dell’amico fraterno Beppe. Lui si rende conto della situazione, telefona a casa e racconta che Ninni è in pericolo, che non gli hanno neppure assegnato le indagini sulla morte di Montana, che tutti stanno andando via per ferie o trasferimento, che è rimasto solo. I suoi lo supplicano di tornare, ma lui insiste per rimanere a fargli da scorta, volontariamente, anche se Cassarà non vuole essere scortato per la consapevolezza di essere ormai ‘un morto che cammina’, come si erano detti qualche tempo prima lui e Beppe. Roberto è irremovibile, dice a sua madre: “Se gli succedesse qualcosa e io non avessi fatto il possibile per proteggerlo non me lo potrei mai perdonare.Così, con una piccola bugia a Ninni (“Natale Mondo mi ha invitato ad andare a mangiare con lui, l’accompagnamo a casa, dato che è sulla nostra strada”) si avviano insieme all’appuntamento con le bocche di fuoco dei Kalashnikov che avrebbero sputato su di loro quasi duecento colpi.L’isolamento, l’emarginazione, la solitudine di Cassarà erano stati preparati abilmente. Era stata fatta circolare la voce che Montana e Cassarà in una riunione di poliziotti avevano detto che i boss Pino Greco e Mario Prestifilippo, responsabili di molti omicidi e soprattutto della morte dell’agente Calogero Zucchetto, amico carissimo di Ninni, non dovevano essere presi vivi. Nella riunione c’era ovviamente chi poi era andato a riferirlo agli interessati. Ma era una menzogna macroscopica, sia perché il senso dello Stato e del dovere dei due poliziotti non avrebbe mai permesso una simile ipotesi, sia perché Cassarà e i suoi agenti sapevano che nella Questura c’erano delle talpe. Infatti Roberto aveva detto al telefono a sua madre “le cose importanti ce le scriviamo su bigliettini che poi stracciamo, perché qui anche i muri hanno orecchie” . Non per nulla la Squadra mobile era allora diretta da Ignazio D’Antone, poi condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
C’è un elemento non ancora chiarito, di quel 6 agosto.
Come hanno fatto i mafiosi a sapere il momento esatto in cui Cassarà sarebbe entrato nel mirino dei loro Ak-47? Loro erano pronti, avevano preparato l’agguato dentro un palazzo posto di fronte al portone di Ninni, ma il vicequestore era prudente. Dopo la morte di Montana non era andato a casa per giorni, dormendo su un lettino alla Mobile, come faceva anche Roberto. Oppure telefonava che andava a casa e poi non lo faceva e aspettava la notte per andare a salutare la moglie e dare un bacio ai figli. Un vita da bandito, è stato detto, lui che i banditi li combatteva.Qualcuno ha ipotizzato che i mafiosi avessero disposto lungo il tragitto dalla Questura a via Chiesa Rossa delle automobili civetta che si passavano via radio il messaggio che stava arrivando l’Alfetta bianca del Vicequestore. Ma non potevano stare lì intere giornate. E’ più probabile che ci sia stata una talpa che dopo la telefonata di Ninni alla moglie, fatta dalla Questura, abbia fatto sapere che Cassarà stava finalmente arrivando a casa.
Nell’estate 1985 si stava organizzando il maxiprocesso e preparando l’aula bunker. Dopo l’uccisione di Montana e Cassarà, Falcone e Borsellino furono catapultati all’Asinara per completare in sicurezza la documentazione. Nel rapporto sui 162 Cassarà aveva contribuito a inserire molti nomi importanti, come quello di Michele Greco, chiamato ‘il papa’ . Non è certamente un caso che anche la sua agenda, dopo la sua morte, sia sparita dai cassetti del suo ufficio, come accadde per quella di Borsellino.
Con Montana e Cassarà sono stati eliminati i vertici dell’antimafia, quelli che l’antimafia la facevano davvero e non di facciata, quelli che la mafia temeva, ma quelli che lo Stato abbandonava a se stessi, lasciandoli senza attrezzature, senza computer, senza binocoli.
Saveria Antiochia, madre di Roberto, due settimane dopo la morte del figlio scrisse su Repubblica una lettera al ministro Scalfaro intitolata “Li avete abbandonati”. Una lettera durissima, in cui denunciava le assurde condizioni di lavoro della Squadra mobile di Palermo, lasciata senza computer, senza binocoli, con automobili scassate e riconoscibili anche dai bambini. Dati concreti descritti con passione amara e struggente.
Come per Rita Borsellino è stato detto che è ‘nata il 19 luglio’ , così di Saveria si può dire che è nata il 6 agosto, perché ha preso il testimone di Roberto e lo ha portato in tutta Italia, sia nelle associazioni che ha fondato, in particolare il Circolo Società Civile di Milano nel dicembre 1985 e Libera dieci anni dopo, sia nelle scuole, nei dibattiti e nelle trasmissioni TV.
Infine, vale la pena di ricordare che sia Bruno Contrada che D’Antone, entrambi condannati per ‘concorso esterno in associazione mafiosa’ hanno fatto carriera con la stessa trafila:​dalla S​quadra Mobile di Palermo alla Criminalpol, all’ Alto commissariato antimafia, al Sisde. Come è stato possibile?
Forse il processo sulla trattativa tra Stato e mafia può riuscire a rendere chiaro anche questo.

domenica 2 agosto 2015

BOLOGNA - 2 AGOSTO 1980

BOLOGNA 2 AGOSTO 1980 
Il Dovere della memoria. Oggi, dopo 35 anni Silvana Ancillotti su La Repubblica ricorda l'esplosione nella sala d'aspetto della stazione. Quel giorno  era con due amiche  e la piccola Angela Fresu, tutte morte. Era la più vicina al tritolo ma nessun giudice ha mai ascoltato il suo racconto ( leggi qui
 Morti innocenti, delitti oscuri perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. E’successo e forse potrebbe succedere ancora: delitti commessi pensando che, in Italia, potesse servire “a qualcosa e a qualcuno” spargere sangue innocente, seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee, valori.
Sul Fatto Quotidiano, lo scorso anno,  Emiliano Liuzzi aveva scritto parole dure gettando luce su coloro che, anch'ese vittime della Strage, sono stati dimenticati: I feriti, i feriti a morte: "(...) che sono rimasti nell’illusione che il sacrificio sotto a quelle macerie servisse come sacrificio, appunto. Come vergogna".
Non c'è il sentimento della vergogna in quei "pezzi" dello Stato Italiano che, a distanza di vent'anni, consente che anche questa la strage rimanga senza i colpevoli maggiori. 
Anche per la Strage di Bologna valgono le parole di Roberto Scarpinato:  (...)“La storia insegna che quando un segreto dura nel tempo, sebbene condiviso da decine e decine di persone,  è il segno che su quel segreto è imposto il sigillo del Potere”.

     

 La strage alla Stazione e le sue vittime innocenti



Cortometraggio disponibile per gentile concessione dell'Associazione tra i familiari delle vittime strage alla stazione di Bologna del 2 Agosto 1980.



fonte del testo
ASSOCIAZIONE TRA I FAMIGLIARI DELLE VITTIME DELLA STRAGE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA 2 AGOSTO 1980

Il 2 agosto 1980, alle ore 10,25una bomba esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. 
Lo scoppio fu violentissimo, provocò il crollo delle strutture sovrastanti le sale d'aspetto di prima e seconda classe dove si trovavano gli uffici dell'azienda di ristorazione Cigar e di circa 30 metri di pensilina. L'esplosione investì anche il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario.
Il soffio arroventato prodotto da una miscela di tritolo e T4 tranciò i destini di persone provenienti da 50 città diverse italiane e straniere.
Il bilancio finale fu di 85 morti e 200 feriti.(testimonianze di Biacchesi e da "Il giorno")
La violenza colpì alla cieca cancellando a casaccio vite, sogni, speranze.
Marina Trolese, 16 anni, venne ricoverata all'ospedale Maggiore, il corpo devastato dalle ustioni. Con la sorella Chiara, 15 anni, era in partenza per l'Inghilterra. Le avevano accompagnate il fratello Andrea e la madre Anna Maria Salvagnini. Il corpo di quest'ultima venne ritrovato dopo ore di scavo tra le macerie. Andrea e Chiara portano ancora sul corpo e nell'anima i segni dello scoppio. Marina morì dieci giorni dopo l'esplosione tra atroci sofferenze.

Angela Fresu, la vittima
più giovane  della strage
Maria Fresu si trovava nella sala della bomba con la figlia Angela di tre anni. Stavano partendo con due amiche per una breve vacanza sul lago di Garda. Il corpicino della piccola, la più giovane delle vittime, venne ritrovato subito. Solo il 29 dicembre furono riconosciuti i resti della madre.

Torquato Secci, impiegato alla Snia di Terni, venne allertato dalla telefonata di un amico del figlio Sergio, Ferruccio, che si trovava a Verona. Sergio lo aveva informato che a causa del ritardo del treno sul quale viaggiava, proveniente dalla Toscana, aveva perso una coincidenza a Bologna e aveva dovuto aspettare il treno successivo.
Poi non ne aveva più saputo nulla.
Solo il giorno successivo, telefonando all'Ufficio assistenza del Comune di Bologna, Secci scoprì che suo figlio era ricoverato al reparto Rianimazione dell'ospedale Maggiore.
"Mi venne incontro un giovane medico, che con molta calma cercò di prepararmi alla visione che da lì a poco mi avrebbe fatto inorridire", ha scritto Secci, "la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. Solo dopo un po' mi ripresi e riuscii a dire solo poche e incoraggianti parole accolte da Sergio con l'evidente, espressa consapevolezza di chi, purtroppo teme di non poter subire le conseguenze di tutte le menomazioni e lacerazioni che tanto erano evidenti sul suo corpo".
Nel 1981 Torquato Secci diventò presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage.
La città si trasformò in una gigantesca macchina di soccorso e assistenza per le vittime, i sopravvissuti e i loro parenti.
I vigili del fuoco dirottarono sulla stazione un autobus, il numero 37, che si trasformò in un carro funebre.
E' lì che vennero deposti e coperti da lenzuola bianche i primi corpi estratti dalle macerie.
Alle 17,30, il presidente della Repubblica Sandro Pertini arrivò in elicottero all'aeroporto di Borgo Panigale e si precipitò all'ospedale Maggiore dove era stata allestita una delle tre camere mortuarie.
Per poche ore era circolata l'ipotesi che la strage fosse stata provocata dall'esplosione di una caldaia ma, quando il presidente arrivò a Bologna, era già stato trovato il cratere provocato da una bomba.
Incontrando i giornalisti Pertini non nasconse lo sgomento: "Signori, non ho parole" disse,"siamo di fronte all'impresa più criminale che sia avvenuta in Italia".
Ancora prima dei funerali, fissati per il 6 agosto, si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città.
Il giorno fissato per la cerimonia funebre nella basilica di San Petronio, si mescolano in piazza rabbia e dolore.
Solo 7 vittime ebbero il funerale di stato.
Il 17 agosto "l'Espresso" uscì con un numero speciale sulla strage. In copertina un quadro a cui Guttuso ha dato lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: "Il sonno della ragione genera mostri". Guttuso ha solo aggiunto una data: 2 agosto 1980.
Cominciò una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana.

mercoledì 29 luglio 2015

Rocco Chinnici, un giudice che troppo aveva intuito
 e che per questo andava eliminato.

Era la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. Erano gli anni in cui pochi uomini, soli e isolati, combattevano le mafie  e la "zona grigia". I giorni che viviamo sono giorni popolati da uomini che,  anche nelle stesse istituzioni, paiono perseguire interessi ben diversi, mettendo in campo norme e leggi che non ostacolano realmente quello che tante volte chiamiamo "cancro delle mafie"; cancro che non esisterebbe se non fosse evidentemente legato "a pezzi" della politica, delle istituzioni, della cosiddetta "società civile".  Ma grazie al sacrificio di uomini come Rocco Chinnici, oramai è piuttosto agevole distinguere le "maschere dell'antimafia e della legalità". Nostra responsabilità è non far discendere, da quella conoscenza, comportamenti e azioni conseguenti

 

Fonte: Antimafiaduemila

Rocco Chinnici, un giudice che troppo aveva intuito
 

di Francesca Mondin - 28 luglio 2015


da destra: Ninni Cassarà, Giovanni Falcone, Rocco Chinnici

Era la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80.
Erano gli anni dei corleonesi di Liggio e dei padri della lotta alla mafia. Erano gli anni in cui uomini come Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Calogero Zucchetto, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Carlo Alberto dalla Chiesa ed altri stavano cercavano di sconvolgere il sistema che fino all’ora aveva vissuto sulla placida convivenza con la criminalità organizzata. Era l’epoca in cui si parlava della morte della vecchia mafia ma nessuno voleva parlare della nuova che in realtà altro non era che la stessa che cavalcava l’onda dei ‘piccioli’ e della crescita economica. Gli appalti, l’oro bianco, l’alta finanza.
Era l’inizio della lunga lista di padri e madri della patria abbandonati sul campo di battaglia e mandati a morte sotto i feroci colpi della mafia. Nel giro di pochi anni, infatti, Cosa nostra aveva messo a punto una vera e propria mattanza di servitori dello Stato e giornalisti.


Il boato
Era il 1983. Venerdì 29 luglio, ore 8.05. Il capo dell’ufficio istruzione di Palermo Rocco Chinnici saluta il portinaio del condominio in cui abita. Via Federico Pipitone avvolta dal caldo torrido di fine luglio e dagli odori e rumori palermitani è sempre la solita. Chinnici esce di casa. Un uomo preme un pulsante. Un boato. Un istante lungo un sospiro e la via si trasforma nell’inferno. Sirene spiegate, ambulanze, urla, macerie, vetri e mura frantumate, un immenso cratere profondo e nero ha preso il

posto della macchina del giudice. La mafia aveva colpito ancora, e lo aveva fatto nel modo più vigliacco e sensazionale che poteva. Un' autobomba, la prima di una lunga serie, aveva spazzato via Rocco Chinnici, i due agenti della scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portinaio del condominio Stefano Li Sacchi.  
la strage














Zeroprobabilità di errore perché questo giudice testardo che aveva intuito troppe cose andava cancellato. 
Cosa aveva capito Rocco Chinnici di tanto fastidioso? 
Paolo Borsellino parla di lui come di una grande mente che già alla fine degli anni ’70, quando ancora le conoscenze sul fenomeno mafioso erano molto lacunose, era riuscito a intuire prima di tutti cosa fosse Cosa nostra e le sue connessioni con l’alta finanza, la politica e l’imprenditoria. “Le dimensioni gigantesche della organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d’Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga ed i suoi effetti devastanti, l’inadeguatezza della legislazione: c’è già tutto in questi scritti di Chinnici”.
La grandezza di Chinnici fu anche nel cercare di potenziare e rendere efficaci gli strumenti per la lotta alla mafia. Il giudice aveva capito l’importanza di lavorare in équipe e aveva gettato le basi per il futuro pool antimafia guidato da Antonio Caponnetto: “Ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i “suoi” giudici. - racconta Paolo Borsellino in un suo scritto - Per suo merito, nell’estate del 1983, si erano realizzate, pur
nell’assenza di una idonea regolamentazione legislativa, ancora oggi mancante, tutte le condizioni per la creazione del pool antimafia”.
Chinnici può essere considerato per molti aspetti il precursore della lotta antimafia portata avanti poi dal pool antimafia e da Falcone e Borsellino, fu lui a creare l’embrione del primo maxi processo con il procedimento allora detto “dei 162”. Fu tra i primi a capire che bisognava cercare tutte le interconnessioni tra i grandi delitti compiuti dalla mafia per studiare unitariamente l’intero fenomeno mafioso. Così come era convinto che unitamente, dai vari componenti dello Stato, andava combattuta la criminalità organizzata. Infatti, scrive il giudice Borsellino: “Non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sradicamento”. 
Oggi: lo stato delle cose
Dopo 32 anni però la mafia invece di essere sradicata si è avvinghiata ancora di più alle scure trame del potere raggiungendo livelli di convivenza politico finanziaria che le permette oggi di essere la più grande potenza economica italiana con un fatturato di oltre 80 miliardi di euro. Molti sono stati gli uomini e le donne che dopo Chinnici hanno ereditato la sua lotta, ma puntualmente sono stati ostacolati, isolati, screditati e quando questo non bastava uccisi. Alcune vittorie grazie al coraggio di questi uomini sono state raggiunte e alcune verità sono emerse, qualche volto è stato scoperto ma certamente è mancato quell’intervento globale dello Stato di cui parlava il giudice. Anzi, sembra non esserci tuttora la volontà, da parte di alcuni centri di potere, di capire e trovare i mandanti dei grandi delitti e stragi. “Una disamina complessiva di quanto è emerso dai processi (sugli omicidi eccellenti, ndr) - scrive il pm Nino Di Matteo sul suo nuovo libro Collusi (scritto a quattro mani con Salvo Palazzolo, edizioni BUR, ndr) - … lascia intravedere dietro ogni omicidio eccellente una convergenza di interessi mafiosi e di altri poteri, di volta in volta politico-istituzionali, imprenditoriali o finanziari. Tale convergenza si è manifestata con modalità differenti.”. 
Chi ha voluto dunque la morte del giudice Chinnici?
Nel mirino investigativo del giudice erano finiti i cugini Salvo, all’epoca i veri padroni della Sicilia imprenditoriale. Nino Di Matteo che nel 1996 si occupò a Caltanissetta dell'indagine sull'attentato a Chinnici nel libro Collusi scrive: “Le parole di Brusca (collaboratore di giustizia che parlò del coinvolgimento dei Salvo nell’attentato, ndr) e i numerosi riscontri emersi nel processo non lasciano spazio a interpretazioni: questa volta, Cosa Nostra aveva agito su input di altri. A dare il via era stato un vero e proprio potentato economico-politico, costituito da soggetti la cui autorevolezza criminale derivava dall’inserimento in un circuito esterno all’organizzazione mafiosa.” I cugini Salvo, scrive ancora Di Matteo, “avevano potuto chiedere e ottenere un omicidio eccellente di quel tipo proprio perché rappresentavano lo snodo più importante di contatto e penetrazione del potere politico nazionale”.
I processi per il delitto Chinnici sono stati numerosi e come sempre l’iter giudiziario è stato piuttosto lungo e complesso.
Soltanto il 24 giugno 2002 la Corte d’appello di Caltanissetta ha confermato 16 condanne (12 ergastoli e quattro condanne a 18 anni di reclusione) per alcuni fra i più importanti affiliati di Cosa nostra.
La sentenza ha dato ragione alla tesi dell’accusa secondo cui l’omicidio di Rocco Chinnici fu chiesta dagli “esattori” Nino e Ignazio Salvo (entrambi deceduti, il primo per malattia, il secondo ucciso nel 1992).
Il giallo del fascicolo scomparso
Secondo alcuni pentiti il terzo processo d’appello, celebrato a Messina nel 1988, dopo due annullamenti della Cassazione, avrebbe subito degli ‘aggiustamenti’ per arrivare all’assoluzione, per insufficienza di prove, dei mandanti Michele e Salvatore Greco, e di Pietro Scarpisi e Vincenzo Morabito come esecutori. Secondo quanto dissero all’epoca i collaboratori di giustizia in questione, infatti, la mafia avrebbe corrotto l’allora presidente della corte d’Assise, Giuseppe Recupero, accusato di aver preso 200 milioni. Il fascicolo venne trasmesso nuovamente a Palermo nell’estate del ’98 dal gup di Reggio Calabria, dichiaratosi “incompetente’’ a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in mafia e corruzione di quest’ultimo. Il caso però finì nel dimenticatoio per poi tornare fortuitamente alla luce per la scoperta di due giornalisti che stavano lavorando al libro “Così non si può vivere” edito da Castelvecchi. L’inchiesta sul “fascicolo scomparso” venne quindi affidata al procuratore aggiunto Vittorio Teresi per poi essere archiviata lo scorso anno. Sulla vicenda sono tornati 15 senatori del Movimento 5 stelle che, alla vigilia del 32/esimo anniversario della strage hanno presentato un'interrogazione presentato al ministro della Giustizia.

L'insegnamento di Rocco Chinnici
In questi trentadue anni ci sono state molte iniziative della società civile per chiedere verità e giustizia, per manifestare il rifiuto al malaffare mafioso. Iniziative fondamentali per quel processo di sradicamento di cui parlava il giudice che però trova la sua realizzazione in una nuova coscienza critica che guidando l’azione individuale supera l’eccezionalità dell’evento o
Paolo Borsellino porta la bara di Rocco Chinnici
dell’incontro pubblico. Rocco Chinnici fu tra i primi magistrati ad andare nelle scuole e parlare ai giovani, convinto della necessità di gettare le basi per questa nuova coscienza civile e sociale. Chinnici, racconta ancora Paolo Borsellino nel suo scritto, era convinto che “una lunga e defatigante istruttoria su un omicidio di mafia o su un traffico internazionale di stupefacenti non avrebbe avuto senso compiuto se insieme egli non avesse profuso tra i giovani, che con la sua attività giudiziaria cercava di difendere, anche quei frutti della sua esperienza e della sua cultura che, se ben recepiti, li avrebbero messi in grado di difendersi da se stessi.

domenica 26 luglio 2015

RITA ATRIA. "L'unica speranza è non arrendersi mai". 26 Luglio 1992.

 RITA  ATRIA
TESTIMONE DI GIUSTIZIA
 "(...) Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. (...)". Rita Atria


26 Luglio 1992

Roma

Quartiere Tuscolano

33 gradi

ore 15,00



Il frullio di ali di un passero, scuote velocemente le fronde di un albero di fronte al numero 23 di viale Amelia e si alza in volo, inseguendo una traiettoria ripida, superando il tetto del palazzo.

Lassù, al settimo piano, una finestra si apre, una ragazza si affaccia.

I capelli ondulati, scuri, sciolti, ben pettinati.

La pelle chiara, gli occhi neri.

La ragazza si chiama Rita.

Al secondo piano una signora sparecchia la tavola del pranzo.

Piccole cose, dettagli.



Alle spalle della ragazza le stanze sono spoglie, neanche l’ombra di un oggetto familiare sui mobili, di una collana appoggiata momentaneamente su un tavolino, nessuna maglietta dimenticata su una sedia.

Solo scatoloni da trasloco pronti ad essere svuotati, pieni di vestiti e di pochi oggetti.

Quella ragazza è abituata ai traslochi improvvisi, ma questa volta quei vestiti, ha deciso di lasciarli sul fondo delle scatole.

Ha deciso che uscirà così, indossando il pigiama di seta rosa con le righe bianche, leggero, estivo.

Si è preparata, si è pettinata, si è truccata, ora è pronta.


Rita si arrampica sulla finestra.

Vuole provare a riempire quel suo corpo di vento.

Vuole abbandonare la sua vita nelle scatole alle sue spalle per riscriverla nel vento.

Con un gesto abituale si sistema i capelli …

e si lascia cadere.


(frammento tratto dal testo drammaturgico, in opera di compimento, di Guido Castiglia).
 
Rita Atria

Rita Atria  è nata il  4 settembre 1974 a Partanna, in provincia di Trapani, figlia di Vito Atria, un boss della mafia locale. Rita ha solo 17 anni quando, dopo l’uccisione del padre e del fratello Nicola, nel novembre del 1991 decide di seguire l’esempio della cognata, Piera Aiello, denunciando i segreti che le erano stati confidati dallo stesso Nicola. 
Nasce così il particolare rapporto di fiducia col Procuratore della Repubblica di Marsala, il giudice Paolo Borsellino il quale, per Piera e Rita, diventerà lo “zio Paolo”. Sarà Paolo Borsellino a far trasferire Rita e Piera Aiello a Roma, sotto falsa identità, per meglio proteggerle dalla vendetta dalle cosche.
 Il giorno dopo la strage di via D'Amelio, Rita scrive nel suo diario nel diario le parole che costituiscono il suo testamento spirituale, parole che da allora -come abbiamo spesso detto- si impongono alla riflessione di ognuno: "(…)Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita …Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta. " 
Nonostante l'affetto e la vicinanza di Piera Aiello, con Paolo Borsellino muore anche “la speranza" del cambiamento possibile che Rita Atria aveva riposto nel giudice. "Un'altra delle mie stelle è volata via., me l'hanno strappata dal cuore". Queste sono le parole che Rita confiderà singhiozzando a Piera, dopo aver appreso della morte del giudice e degli agenti della sua scorta, le parole riportate dal Piera Aiello nel suo libro "Maledetta mafia"
Sabato 25 luglio 1992. Rita aveva deciso di restare a Roma e non seguire Piera Aiello che ha bisogno di andare in Sicilia: tornare per rivedere la madre e cercare di attenuare in qualche modo l'angoscia della morte dello "zio paolo". All'aereoporto, improvvisamente, Rita dice a Piera:  "Io non parto".  E ritorna nella casa di Via Amelia, nel quartiere Tuscolano.

Domenica 26 luglio 1992, la domenica successiva alla strage di via D'Amelio. 
In quel pomeriggio Rita lascia cadere la speranza, l'ultima, nel vento.


Tema di maturità di Rita Atria

Titolo
"La morte del giudice Falcone ripropone in termini drammatici il problema della mafia. Il candidato esprima le sue idee sul fenomeno e sui possibili rimedi per eliminare tale piaga".

Svolgimento


"La morte di una qualsiasi altra persona sarebbe apparsa scontata davanti ai nostri occhi, saremmo rimasti quasi impassibili davanti a quel fenomeno naturale che è la morte del giudice Falcone, per chi aveva riposto in lui fiducia, speranza, la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto, era un esempio di grandissimo coraggio, un esempio da seguire. Con lui è morta l'immagine dell'uomo che combatteva con armi lecite contro chi ti colpisce alle spalle, ti pugnala e ne è fiero. 
Mi chiedo per quanto tempo ancora si parlerà della sua morte, forse un mese, un anno, ma in tutto questo tempo solo pochi avranno la forza di continuare a lottare. Giudici, magistrati, collaboratori della giustizia, pentiti di mafia, oggi più che mai hanno paura, perché sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno se parlano troppo potrà salvarli da qualcosa che chiamano mafia.
 Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un'immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare. Ascoltiamo, vediamo, facciamo ciò che ci comandano, alcuni per soldi, altri per paura, magari perché tuo padre volgarmente parlando è un boss e tu come lui sarai il capo di una grande organizzazione, il capo di uomini che basterà che tu schiocchi un dito e faranno ciò che vorrai.
Ti serviranno, ti aiuteranno a fare soldi senza tener conto di nulla e di niente, non esiste in loro cuore, e tanto meno anima. La loro vera madre è la mafia, un modo di essere comprensibile a pochi. Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. 
I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c'e chi ha paura come Contorno, che accusa la giustizia di dargli poca protezione. Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per rassicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un'altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.
L'unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.
Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.
Rita Atria
Erice 5 giugno 1992