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giovedì 6 agosto 2015

Ninnì Cassarà e Roberto Antiochia: uccisi dalla mafia il 6 agosto 1985

Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia. Nomi sconosciuti ai più; morti che camminavano e venivano uccisi ("cadaveri più o meno eccellenti"), servitori di uno Stato  nel quale vi erano ( e vi sono ancora) "pezzi" di quello stessoStato che non volevano protegger quei servitori onesti; "pezzi" di Stato collusi con le mafie. Ora come allora.
Per onorare tutti loro vorremmo sottolineare la storia di Roberto Antiochia, "vivo per sempre" anche grazie alle parole di Saveria Antiochia, sua madre, che pochi giorni dopo i funerali scrive una lettera durissima contro le istituzioni italiane: " Li avete abbandonati" ( qui il testo della lettera). La storia di Roberto è anche nella motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Civile riconosciuta a Roberto Antiochia, il più giovane e la cui storia esemplare è, lo ripetiamo, ancora oggi sconosciuta a tanti italiani.Agente della Polizia di Stato, in servizio a Roma, mentre era in ferie, spontaneamente partecipava in Palermo alle delicate e difficili indagini sull’omicidio di un funzionario di polizia, con il quale aveva in passato collaborato, consapevole del pericolo cui si esponeva nella lotta contro la feroce organizzazione mafiosa. Nel corso di un servizio di scorta, rimaneva vittima di proditorio agguato ad opera di spietati assassini. Esempio di attaccamento al dovere spinto all’estremo sacrificio della vita», Palermo 6 agosto 1985.  
Le ombre su nomi, volti e storie di tanti personaggi di rilievo della storia odierna di questo paese disonorano la memoria di uomini quali Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia. Disonora la memoria di quegli uomini la mancanza di vicinanza di "pezzi" delle istituzioni che, in alcuni casi, si manifesta  ancora oggi nei confronti di magistrati impegnati in prima linea nella guerra contro le mafie.
 

 Fonte: Antimafiaduemila

Cassarà, Antiochia e Montana, quel ricordo che scuote le coscienze 

di Jole Garuti* - 6 agosto 2015
Sono passati trent’anni da quel 6 agosto terribile, in cui sono stati uccisi in via Croce Rossa il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia, ma il ricordo di quella tragedia scuote ancora le coscienze e le menti. L’uccisione del commissario Beppe Montana a Porticello, il 28 luglio, era stato il segnale che anche la vita del vicequestore Ninni Cassarà stava per finire. La Questura era in subbuglio per la morte di Beppe Montana, colui che aveva creato la Squadra Catturandi, convinto com’era – a ragione – che i latitanti non fossero all’estero ma rimanessero abbarbicati al territorio in cui avevano sempre vissuto e dove avevano acquisito capacità intimidatoria e quindi potere. Beppe con la sua allegra vitalità era molto amato dai suoi uomini, con i quali viveva ogni ora della giornata. Per stanare i latitanti considerava fondamentale stare nelle strade, partecipare alle feste, conoscere i frequentatori dei bar e mescolarsi tra la gente, rigorosamente in borghese e con gli orecchi ben aperti per captare segnali, mentalità, notizie interessanti.
Gli uomini della Catturandi, giovani e simpatici, si facevano voler bene da tutti. Basti ricordare che il funerale di Roberto fu seguito da un gruppetto di ragazzini, poco più che bambini, in lacrime per la morte del loro amico ‘sbirro’ che tutte le mattine li portava al bar a fare colazione.
La rabbia per la morte del commissario Montana innescò un’altra tragedia. La ricerca dei colpevoli portò infatti a un calciatore del Pro Bagheria molto ben voluto dagli abitanti di Porticello e dei quartieri popolari di Palermo, Salvatore Marino. Si presentò in Questura con l’avvocato ma andò all’antirapine, non alla Catturandi. Gli trovarono in casa 34 milioni avvolti in un giornale con la notizia della morte di Montana, lo interrogarono brutalmente, lo torturarono fino a provocarne la morte.
Cassarà non era in questura quella notte, ma venne detto che era sua la responsabilità della morte di Marino.
Questa atmosfera plumbea avvolge Roberto Antiochia, arrivato sconvolto da Roma, dov’era in ferie, per i funerali dell’amico fraterno Beppe. Lui si rende conto della situazione, telefona a casa e racconta che Ninni è in pericolo, che non gli hanno neppure assegnato le indagini sulla morte di Montana, che tutti stanno andando via per ferie o trasferimento, che è rimasto solo. I suoi lo supplicano di tornare, ma lui insiste per rimanere a fargli da scorta, volontariamente, anche se Cassarà non vuole essere scortato per la consapevolezza di essere ormai ‘un morto che cammina’, come si erano detti qualche tempo prima lui e Beppe. Roberto è irremovibile, dice a sua madre: “Se gli succedesse qualcosa e io non avessi fatto il possibile per proteggerlo non me lo potrei mai perdonare.Così, con una piccola bugia a Ninni (“Natale Mondo mi ha invitato ad andare a mangiare con lui, l’accompagnamo a casa, dato che è sulla nostra strada”) si avviano insieme all’appuntamento con le bocche di fuoco dei Kalashnikov che avrebbero sputato su di loro quasi duecento colpi.L’isolamento, l’emarginazione, la solitudine di Cassarà erano stati preparati abilmente. Era stata fatta circolare la voce che Montana e Cassarà in una riunione di poliziotti avevano detto che i boss Pino Greco e Mario Prestifilippo, responsabili di molti omicidi e soprattutto della morte dell’agente Calogero Zucchetto, amico carissimo di Ninni, non dovevano essere presi vivi. Nella riunione c’era ovviamente chi poi era andato a riferirlo agli interessati. Ma era una menzogna macroscopica, sia perché il senso dello Stato e del dovere dei due poliziotti non avrebbe mai permesso una simile ipotesi, sia perché Cassarà e i suoi agenti sapevano che nella Questura c’erano delle talpe. Infatti Roberto aveva detto al telefono a sua madre “le cose importanti ce le scriviamo su bigliettini che poi stracciamo, perché qui anche i muri hanno orecchie” . Non per nulla la Squadra mobile era allora diretta da Ignazio D’Antone, poi condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
C’è un elemento non ancora chiarito, di quel 6 agosto.
Come hanno fatto i mafiosi a sapere il momento esatto in cui Cassarà sarebbe entrato nel mirino dei loro Ak-47? Loro erano pronti, avevano preparato l’agguato dentro un palazzo posto di fronte al portone di Ninni, ma il vicequestore era prudente. Dopo la morte di Montana non era andato a casa per giorni, dormendo su un lettino alla Mobile, come faceva anche Roberto. Oppure telefonava che andava a casa e poi non lo faceva e aspettava la notte per andare a salutare la moglie e dare un bacio ai figli. Un vita da bandito, è stato detto, lui che i banditi li combatteva.Qualcuno ha ipotizzato che i mafiosi avessero disposto lungo il tragitto dalla Questura a via Chiesa Rossa delle automobili civetta che si passavano via radio il messaggio che stava arrivando l’Alfetta bianca del Vicequestore. Ma non potevano stare lì intere giornate. E’ più probabile che ci sia stata una talpa che dopo la telefonata di Ninni alla moglie, fatta dalla Questura, abbia fatto sapere che Cassarà stava finalmente arrivando a casa.
Nell’estate 1985 si stava organizzando il maxiprocesso e preparando l’aula bunker. Dopo l’uccisione di Montana e Cassarà, Falcone e Borsellino furono catapultati all’Asinara per completare in sicurezza la documentazione. Nel rapporto sui 162 Cassarà aveva contribuito a inserire molti nomi importanti, come quello di Michele Greco, chiamato ‘il papa’ . Non è certamente un caso che anche la sua agenda, dopo la sua morte, sia sparita dai cassetti del suo ufficio, come accadde per quella di Borsellino.
Con Montana e Cassarà sono stati eliminati i vertici dell’antimafia, quelli che l’antimafia la facevano davvero e non di facciata, quelli che la mafia temeva, ma quelli che lo Stato abbandonava a se stessi, lasciandoli senza attrezzature, senza computer, senza binocoli.
Saveria Antiochia, madre di Roberto, due settimane dopo la morte del figlio scrisse su Repubblica una lettera al ministro Scalfaro intitolata “Li avete abbandonati”. Una lettera durissima, in cui denunciava le assurde condizioni di lavoro della Squadra mobile di Palermo, lasciata senza computer, senza binocoli, con automobili scassate e riconoscibili anche dai bambini. Dati concreti descritti con passione amara e struggente.
Come per Rita Borsellino è stato detto che è ‘nata il 19 luglio’ , così di Saveria si può dire che è nata il 6 agosto, perché ha preso il testimone di Roberto e lo ha portato in tutta Italia, sia nelle associazioni che ha fondato, in particolare il Circolo Società Civile di Milano nel dicembre 1985 e Libera dieci anni dopo, sia nelle scuole, nei dibattiti e nelle trasmissioni TV.
Infine, vale la pena di ricordare che sia Bruno Contrada che D’Antone, entrambi condannati per ‘concorso esterno in associazione mafiosa’ hanno fatto carriera con la stessa trafila:​dalla S​quadra Mobile di Palermo alla Criminalpol, all’ Alto commissariato antimafia, al Sisde. Come è stato possibile?
Forse il processo sulla trattativa tra Stato e mafia può riuscire a rendere chiaro anche questo.

lunedì 28 luglio 2014

Non dobbiamo dimenticare: Strage di via Palestro a Milano; assassinio di Beppe Montana

Dal blog "Io non dimentico": Non una parola nei vari TG riguardo i tragici anniversari delle stragi/attentati di Via Palestro (MI), di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (Roma) occorsi tra il 27/28 luglio 1993... Eventi criminosi ancora oggetto di indagine. 
Ecco perché il silenzio? Forse. O forse i motivi sono  altri!
Non una parola per ricordare Rita Atria, preziosa testimone di giustizia che, non ancora maggiorenne, decise di farla finita con questa vita in seguito alla Strage di Via D'Amelio.
Beppe Montana
Non una parola per ricordare Beppe Montana, abile funzionario della Squadra Mobile di Palermo, ucciso il 28 luglio 1985. Non una parola!!! Proprio dopo l'uccisione di Chinnici, Montana aveva dichiarato:« A Palermo siamo poco più d'una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà"







Un Paese senza memoria è un Paese destinato a decadere, perché mai potrà crescere, mai potrà capire, mai potrà apprezzare i valori per cui vale la pena vivereMeglio parlare della nave... del ciclismo... della prova costume... del meteo bizzarro... di pseudo-riforme costituzionali...
Fare memoria è necessario. Ancor più necessario in un paese che a distanza di decenni non conosce gli autori delle stragi che hanno insanguinato questo paese. Il procuratore di Caltanissetta Roberto Scarpinato ebbe a dire: " Sono un centinaio le persone che nascondono i segreti delle stragi di stampo mafioso dell’inizio degli anni Novanta. (...)“La storia insegna che quando un segreto dura nel tempo, sebbene condiviso da decine e decine di persone,  è il segno che su quel segreto è imposto il sigillo del Potere”.

La strage di Via Palestro a Milano. 
La notte del 27/28 luglio 1993 una bomba viene fatta esplodere. Muoiono i vigili del fuoco Carlo Lacatena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, il vigile urbano Alessandro Ferrari e Driss Moussafir, un immigrato che dormiva su una panchina. 
L'ennesima strage italiana, ancora ignoti e nascosti i mandanti.
L'ennesimo scempio di vite umane, l'ennesimo scempio di giustizia.

Fonte: LA Repubblica 27 luglio 2013

Via Palestro, la notte dell'orrore.
E dopo vent'anni nessuna verità

Il 27 luglio del 1993 a Milano l'attentato in cui persero la vita i vigili del fuoco Carlo Lacatena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, il vigile Alessandro Ferrari e Driss Moussafir, un immigrato che dormiva su una panchina. Dicono che su quella strage è sceso l'oblio: purtroppo no, è scesa la confusione all'italiana



Faceva caldo, quel luglio. E faceva 'caldo' in tutti i sensi. Gabriele Cagliari Raul Gardini morti entrambi, uno in carcere, l’altro a casa sua. Cancellati i protagonisti dello scandalo Montedison, il boiardo pubblico e il 'pirata' del capitalismo privato. L’inchiesta Mani Pulite che procedeva con i suoi arresti, le confessioni a centinaia. E all’inizio dell’anno, a gennaio 1993, c’era stata la cattura, dopo una vita da latitante, di Totò Riina, grazie all’allora 'capitano Ultimo'. Il quale a Milano, anni prima, aveva messo in ginocchio un clan di Cosa Nostra con l’inchiesta Duomo connection, che era stata coordinata da Ilda Boccassini, che a sua volta era in Sicilia, a indagare sulle stragi dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulle autobombe scoppiate l’anno precedente a Capaci e in via D’Amelio.







Faceva caldo, in tutti i sensi, quella notte di luglio, quando in molte case tremarono i vetri, gli allarmi suonarono, i telefoni squillarono, quando via Palestro diventò una torcia. Allora, a differenza di oggi, non c’era così tanto rispetto per qualsiasi luogo del crimine. Avevo lasciato la moto accanto al benzinaio dei Giardini e m’ero precipitato il più vicino possibile al riverbero, quando inciampai negli stivali di un pompiere morto. «Ma non vedi dove vai!», mi urlò un suo collega, ma no, in effetti, no: vedevo e non vedevo. Così come oggi: sono passati vent’anni, è un po’ come allora, vediamo e non vediamo, sappiamo e non sappiamo. L’hanno sottolineato anche i giudici di Firenze, che questa, di tutte le stragi di mafia di quel periodo, è la più «oscura». 
In quella sera afosa e puzzolente l’esplosione aveva trasformato la strada in un tappeto autunnale di foglie. Gli alberi spezzati e ardenti, non lontano dalla tubatura del gas che alimentava fiamme incessanti raccontavano che i morti — ci perdonino i loro familiari — avrebbero potuto essere di più, rispetto al cratere, ai muri diroccati, ai pezzi di motore dell’autobomba entrati nelle case intorno, sfondando tetti e finestre. Una strage feroce: ma l’ora dello scoppio — le 23.15 — era diventata da subito anche l’ora delle domande. Dopo la bomba di Firenze, piazzata il 27 maggio 1993 sotto la torre dei Georgofili, si diceva: «Toccherà a Milano, ci aspettiamo un attentato a Milano».


Un mese esatto, eccolo. Un’autopattuglia dei vigili, “Monza 3”, viene mandata a verificare la segnalazione di un cittadino, «fumo da una macchina». Il fumo c’è, si chiamano i vigili del fuoco da via Benedetto Marcello. Procedura standard e un camper di turisti tedeschi, genitori e tre figli, viene mandato via appena in tempo. Se i morti sono pochi, è perché quelli che sono morti si sono sacrificati per gli altri. «Via via!», «Una bomba!». Il terrorismo religioso si esercita nel nome di un molto presunto dio combattente. Il terrorismo politico quasi sempre si annuncia e si spiega con le rivendicazioni. Il terrorismo mafioso è il frutto guasto di anni guasti. C’erano le stragi mafiose (Portella della Ginestra), c’erano gli attentati mafiosi contro rappresentanti dello Stato e «nemici» vari, da Boris Giuliano a Rosario Livatino, dal procuratore Costa alla mattanza (1983) di via Federico Pipitone, in cui il vero padre del pool antimafia, Rocco Chinnici, due carabinieri e il portinaio dello stabile persero la vita. Ma sino alla stagione di Totò Riina non era dato per esistente il terrorismo mafioso. Nasce sotto Tangentopoli: non prima, e non ci sarà dopo.

Anche per questo la bomba di quel 1993 è come se non avesse mai finito di ammazzare. Quella notte, e così per gli anni successivi, quando qualche arresto c’è stato, quando gli ergastoli sono fioccati, aleggiava e resiste ancora la domanda «milanese» più ovvia: ma perché proprio davanti al padiglione d’arte contemporanea? Ma che c’entra? Chi l’ha suggerito, come obiettivo strategico? Faceva caldo anche il giorno dopo. Le fiamme erano spente, ma nell’odore di guerra e morte, era come se gli atomi di polvere non si fossero posati. Bisognava tornare a casa e cambiarsi la camicia. Bisognava lavarsi i capelli, bisognava cercare qualcuno con cui parlare della bomba mafiosa di Milano. Poi i funerali, le polemiche, le lacrime, i discorsi, nessuno memorabile. In compagnia di quei morti che non trovano pace, siamo arrivati a una piccola svolta due anni fa, appena due anni fa: Gaspare Spatuzza, ultimo pentito di mafia, ha detto che la bomba non sarebbe dovuta scoppiare in via Palestro, ma «sotto al palazzo dei giornali». Vero o falso non sappiamo, ma più logico sì: certamente più logico.



Roma, attentati ai monumenti sacri. Firenze, attentato alla città antica e turistica. Milano, attentato al mondo dei mass media. Milano fu l’ultima tappa. In effetti, lo stragismo mafioso s’è chiuso in via Palestro: quella sera afosa chissà se sono inciampato senza volerlo negli stivali di Carlo Lacatena, Stefano Picerno, Sergio Pasotto. Morti i tre pompieri, insieme con il vigile Alessandro Ferrari, il primo che ha bloccato via Palestro, che s’è sacrificato ed è stato portato via dall’onda d’urto per venticinque metri. Il corpo era finito nel parco, e là c’era pure Driss Moussafir, che aveva per letto una panchina. Molti dicono che su via Palestro «è sceso l’oblio»: magari lo fosse, non è così, è scesa la confusione. Quella confusione politica, giornalistica, mentale che tutto oscura: quella polvere italiana che non si posa mai e sa nascondere i nostri peggiori assassini.