Il dovere di fare memoria: Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emmanuela Setti Carraro, Domenico Russo . 3 settembre 1982. Cento giorni di solitudine.
Cento giorni di solitudine bastarono ai poteri mafiosi ( e non solo mafiosi) per spegnere "la speranza" dei palermitani e degli italiani onesti. Cosi' venne ucciso il generale Dalla Chiesa, nominato prefetto di Palermo per sconfiggere la mafia. Carlo Alberto Dalla Chiesa fu in realtà la "vittima sacrificale": lasciato solo "...a Palermo, con i poteri del prefetto di Forlì". Così ebbe a dire lui stesso, con triste ironia, nella ultima intervista rilasciata a Giorgio Bocca il 10 agosto 1982 e che riportiamo qui .
Riproponiamo anche l'articolo scritto nel
settembre 2012 da Francesco Licata per commemorare il trentennale della
strage nella quale furono uccisi Carlo Alberto dalla Chiesa, Emmanuela
Setti Carraro, e l’agente Domenico Russo. Sottolineiamo la conclusione
dell'articolo:"(...) Fu solo mafia?(...) una
coincidenza va sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le
indagini: Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da
una non frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo. La mafia siciliana
ha ucciso (chissà perché?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è
stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e
ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale. Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri."
fonte: La Stampa
Carlo Alberto Dalla Chiesa,
quei cento giorni di solitudine
Trent’anni fa lo Stato lo lasciò solo, la mafia uccise lui e la moglie e l'agente di scorta
FRANCESCO LA LICATA
PALERMO
Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa venne assassinato in una calda serata sciroccosa. Erano passate da poco le 21 del 3 settembre 1982 e la A112 color crema, guidata dalla giovane moglie, Emmanuela Setti Carraro,
imboccava la via Isidoro Carini, lasciandosi alle spalle Villa Whitaker
- sede della Prefettura - diretta verso il refrigerio di un ristorante
all’aperto del golfo di Mondello. Seguiva l’utilitaria l’agente Domenico Russo,
alla guida dell’Alfa blu che il generale-prefetto non utilizzava,
convinto che l’anonimato di una «normale macchinetta» offrisse maggiori
garanzie di sicurezza dell’auto blu, immediatamente identificabile.
Precauzione
inutile, perché la task-force messa in campo da Cosa nostra monitorava
da diverse ore i movimenti del bersaglio e forse aveva potuto disporre
anche della soffiata partita da Villa Whitaker, da qualcuno che
controllava strettamente il generale.
Due
macchine e due moto rasero al suolo la A112, senza risparmio di
violenza e a nulla valse la protezione offerta ad Emmanuela
dall’abbraccio coraggioso del marito. L’agente Russo fu finito dal
killer più sanguinario di quel momento: Giuseppe Pino Greco, detto
«Scarpuzzedda».
il cartello che qualcuno scrisse sul luogo della strage |
Così
fu spenta una luce che si era accesa appena cento giorni prima,
sull’onda dell’ennesimo eccidio mafioso che aveva colpito il segretario
regionale del Pci, Pio La Torre, abbattuto dalla mafia insieme con
l’amico, compagno e scorta volontaria, il militante Rosario Di Salvo.
La speranza, per la verità, non era nata sotto i migliori auspici. Il
generale era stato inviato a Palermo come un’arma spuntata: Roma non
aveva voluto dargli gli stessi poteri che gli erano stati dati nella
lotta al terrorismo. Prefetto senza poteri speciali: un messaggio rassicurante per la palude palermitana, preoccupata
per la presenza di un uomo deciso, carabiniere nel Dna, poco incline
alle pantomime sicule dell’indignazione senza conseguenze.
E infatti la città gli dimostrò immediatamente tutta la propria avversione. La città del potere, ovviamente. Perché i cittadini, invece, riponevano molte aspettative sulle capacità del prefetto.
Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo in incognito. Ignorò l’auto
che l’aspettava in aeroporto, montò su un taxi ed arrivò in Prefettura
«pieno» delle notizie e degli umori strappati al tassista loquace. Non
si fidava, il generale, e con quella «presentazione» intendeva mettere
subito le cose in chiaro.
Fu criticato, ovviamente, per quella scelta. Non gli furono risparmiate ironie e commenti, pesanti allusioni sulla differenza di età con la giovane seconda moglie:
insomma tutto il repertorio della maldicenza e della mafiosità locale.
Persino il sindaco, l’avvocato Nello Martellucci, uomo del gruppo di
potere dominante (Lima, Ciancimino, Gioia), si rifiutò di portargli il
saluto con la pretestuosa motivazione che doveva essere il generale a
«presentarsi» al padrone di casa. E come lo sbeffeggiavano quando
andava nelle scuole a parlare di legalità coi ragazzi o quando faceva
sequestrare agli angoli delle strade il pane prodotto e venduto
abusivamente.
Solo Leonardo Sciascia capì il valore di quel gesto e spiegò che non si poteva battere la mafia fino a quando i mercati di Palermo sarebbero rimasti repubbliche indipendenti. Come a dire c’è Cosa nostra ma anche qualcosa di più subdolo, per esempio la mafiosità.
Solo Leonardo Sciascia capì il valore di quel gesto e spiegò che non si poteva battere la mafia fino a quando i mercati di Palermo sarebbero rimasti repubbliche indipendenti. Come a dire c’è Cosa nostra ma anche qualcosa di più subdolo, per esempio la mafiosità.
La
solitudine del generale, in quei cento giorni palermitani, è stata
ricordata più volte dal figlio, Nando, che non ha mai modificato il suo
giudizio duro sulla politica che isolò il padre (giudizio riproposto
oggi a Luciano Mirone, autore di «A Palermo per morire»). E quando si
parla dell’isolamento di Dalla Chiesa il discorso non può non cadere
sul rapporto con Giulio Andreotti, a cui il generale, in partenza -
«disarmato» per Palermo - anticipa che non avrà «nessun riguardo per la
corrente Dc più inquinata» (quella di Salvo Lima, di Gioia, di
Ciancimino e dei cugini Ignazio e Nino Salvo). Li conosceva bene, il
prefetto, quei personaggi. Aveva redatto un rapporto destinato alla
Commissione antimafia, quando era comandante della Legione a Palermo. Ma
quell’analisi - ricorda il figlio Nando - era arrivata in Parlamento
molto manipolata, addirittura coi nomi «sbianchettati».
Qual era lo stato d’animo del generale e della giovane moglie, pochi giorni prima dell’eccidio? Bastano le
parole dette al telefono alla madre da Emmanuela: «Non posso venire a
Milano, non voglio lasciare Carlo nemmeno per un momento, chi lo
salverebbe? Siamo dimenticati, mamma, da chi ci dovrebbe tutelare».
l'immagine dell'auto e dei corpi del prefetto e di sua moglie |
Chi ha tradito Dalla Chiesa? Quale conto hanno fatto pagare al generale sabaudo mandato nella terra degli infedeli?
Persino la Chiesa siciliana, solitamente cauta, nel giorno dei funerali usò parole di fuoco e puntò il dito sul potere ignavo: «Mentre a Roma si discute sul da farsi, Sagunto viene espugnata», gridò il cardinal Pappalardo dal sagrato della basilica di San Domenico.
Fu solo mafia? Oppure
il «conto» inglobava anche i segreti del sequestro Moro e di quel grumo
conseguente, conosciuto alle cronache come l’affaire del giornalista
Mino Pecorelli? Certo, dopo trent’anni è difficile andare a rovistare
nei pozzi neri, forse andava fatto subito. Ma una coincidenza va
sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le indagini: Moro,
Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da una non
frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo. La mafia siciliana
ha ucciso (chissà perché?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è
stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e
ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale. Persino la Chiesa siciliana, solitamente cauta, nel giorno dei funerali usò parole di fuoco e puntò il dito sul potere ignavo: «Mentre a Roma si discute sul da farsi, Sagunto viene espugnata», gridò il cardinal Pappalardo dal sagrato della basilica di San Domenico.
Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri.
Cara Libera " Rita Atria" Pinerolo,Prov.To,
RispondiEliminaIl Prefetto della Repubblica di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, era stato nominato dallo Stato - più precisamente dal Consiglio del Ministri presieduto da Giovanni Spadolini - con la precisa intenzione di risolvere il cancro del fenomeno mafioso dell'isola.
Ancora, in parte tutto da decidere, quali sarebbero stati i Poteri speciali che lo Stato gli avrebbe concesso: il progetto, dunque, che spinse il Generale dei Carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, ad accordare il proprio consenso al Ministro dell'Interno, Virginio Rognoni, era più ambizioso rispetto alla sua grandiosità, oppure uomini come il Generale e l'appoggio esterno dell'On. Pio La Torre godevano e nutrivano aspirazioni idealiste per cui lo Stato ritenuto il massimo referente era predominante rispetto al Potere acquisito da un'organizzazione criminale di stampo mafioso?.
Grazie!...