sabato 11 maggio 2013

“Non è cosa vostra”.

“Non è cosa vostra”. Manifestazione per la Costituzione

 

Il 2 giugno, giorno della Festa della Repubblica, "Libertà e Giustizia" sarà in piazza a Bologna con Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà per rinnovare un atto di fedeltà alla Costituzione e mandare un forte appello alla politica affinché rinunci al progetto di travolgere l’impianto complessivo della nostra Carta.
La critica è rivolta soprattutto, ma non soltanto, al metodo con il quale Pd, Pdl e Scelta Civica hanno stabilito di smantellare la Costituzione. NO dunque a quella Convenzione, una sorta di Bicamerale rafforzata e comunque composta da figure che niente hanno a che spartire con i padri costituenti, che abbatte le garanzie essenziali previste dall’art.138. E NO al presidenzialismo all’italiana che potrebbe darci soltanto un presidente padrone e non garante di tutta la nazione. SI’ invece al varo di una legge elettorale che rispecchi le scelte dei cittadini.
Con LeG a Bologna, in piazza Santo Stefano, le voci più autorevoli del costituzionalismo italiano, della difesa della legalità e della giustizia.
Obiettivo è quello di unire associazioni, singoli cittadini e quelle forze politiche che saranno disponibili in un grande movimento che vigilerà nei prossimi mesi sul lavoro parlamentare: si possono cambiare singoli articoli e punti specifici ma non l’impianto e la stabilità della Costituzione del ’48.
Appuntamento quindi domenica 2 giugno dalle 13.30 alle 17.30 a Bologna in piazza Santo Stefano.

Prime adesioni:
Comitato Salviamo la Costituzione: aggiornarla non demolirla
Scuola di formazione politica “Antonino Caponnetto”
Articolo 21
Comitati Dossetti
MicroMega
Liberacittadinanza
Associazione reggiana per la Costituzione
Associazione  VIVA LA COSTITUZIONE di Rovigo
Comitato in Difesa della Costituzione di Ravenna
Associazione Treno Delle donne in difesa della Costituzione
Associazione Articolo 53
Associazione “ANDROMEDA”
ALBA, Alleanza Lavoro Beni Comuni e Ambiente
A.N.P.I. Nazionale
Associazione Libera

Gruppo Abele
Communitas2002
Fondazione Benvenuti in Italia

giovedì 9 maggio 2013

"Sai contare?... E allora conta e cammina!

"Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà... 
Felicia Impastato, la mamma, e la foto di Peppino

... All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore ". Peppino Impastato

Peppino non si arrese mai, nè all'omertà nè alla rassegnazione. 
"Sai contare? E allora conta e cammina!"

Sono passati 35 anni dalla notte del 9 maggio 1978, la notte in cui Peppino Impastato venne ucciso, fatto a pezzi dalla "montagna di merda". 
Ma il suo invito risuona ancora. Oggi più che mai, l'invito di Peppino Impastato a difendere la Bellezza è diventato l'imperativo per chi vuole cambiare le sorti di questo paese, un paese devastato nella sua Bellezza così come nella sua Etica. Ma la storia di Peppino Impastato e di mamma Felicia non è morta. La storia di Peppino, così come altre storie, continueranno a camminare con le nostre gambe se avremo il coraggio "di cambiare". 



fonte: La Repubblica

Ma il "caso Impastato" non è chiuso

S'indaga ancora, dopo trentacinque anni. Su depistaggi, carte sparite, testimoni scomparsi. Quello che sembrava un esemplare delitto di mafia, forse nasconde qualche altro movente e qualche altro mandante. Il "caso Impastato" non è chiuso, destinato per sempre agli archivi. Ci sono troppo indizi che raccontano un'altra storia sull'uccisione di Peppino.
Basta cominciare da ciò che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi: la scena del crimine. I binari, il "terrorista" steso in mezzo al sua sangue e ai frammenti della sua bomba. Quando avevano ucciso così i boss, in Sicilia? Mai. La scena del crimine  -  decisamente inconsueta per un omicidio di mafia  -  a rivederla anche dopo tanto tempo sembra più un'"operazione" di tipo militare che una vendetta di Cosa Nostra. 
E poi l'inchiesta contraffatta, fin dalle prime battute, per sostenere la tesi dell'attentato finito male. Una sentenza scritta in fretta: Peppino Impastato "morto sul lavoro", mentre metteva bombe. L'hanno "suicidato" tutti già quella notte il ragazzo di Cinisi. Tutti. Magistrati. Carabinieri. Testi mendaci. Un inquinamento investigativo così imponente (e sincronizzato) che non sembra giustificare  -  ora come allora - la copertura di un mafioso così importante come era Tano Badalamenti, il re della droga, un bovaro diventato ricco come un creso con l'eroina mandata in America.
Come è finita, si sa: don Tano è stato condannato all'ergastolo per l'uccisione di Peppino Impastato moltissimi anni dopo. Ma forse, forse è stata fatta giustizia solo a metà. Forse in quel delitto di Cinisi, fra la notte dell'8 e del 9 maggio 1978, si può scorgere adesso una di quelle "convergenze di interessi" fra Cosa Nostra e altri poteri che hanno segnato tante altre vicende siciliane. S'indaga ancora su Peppino, dopo trentacinque anni.






lunedì 6 maggio 2013

Giulio Andreotti è morto. Giancarlo Caselli spiega la sentenza del processo di Palermo che portò il senatore davanti ai giudici,


Giulio Andreotti è morto. Giancarlo Caselli spiega la sentenza del processo di Palermo  che portò il senatore  davanti ai giudici, accusato di "concorso esterno in associazione mafiosa".  Si terranno funerali di Stato?

Fonte : La Repubblica

Giulio Andreotti tra processi e misteri:
da Pecorelli a Sindona, a Cosa Nostra

La lunghissima carriera del leader Dc è stata costellata di tempeste giudiziarie. Le affrontò sempre con compostezza e rispetto per i giudici. Storica la sentenza della Cassazione sui rapporti con la mafia


Quella corazza impenetrabile che è sembrata da sempre invincibile di uomo politico, pronto a tutte le traversìe del destino in quasi un secolo di vita, Giulio Andreotti ha imparato ad indossarla fin dagli esordi del suo infinito viaggio nelle istituzioni dello Stato. E' diventato adulto con quell'"indumento" addosso e l'ha ispessito strada facendo in tutti i luoghi della politica italiana, rinforzandolo con la sua ironia sofisticata e il suo micidiale sarcasmo. 

Il "graffio" sulla "corazza". Nessun altro prima di lui ha dovuto e saputo affrontare tante tempeste giudiziarie, una più devastante dell'altra, tra condanne, assoluzioni e prescrizioni, tutto con la stessa impettita fermezza e una compostezza rigorosamente rispettosa verso i giudici. Tuttavia, alla fine, su quella corazza, un "graffio" incancellabile è rimasto, provocato da una sentenza storica della Cassazione, quella del 2 maggio 2003: "La partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione" con la mafia. Almeno fino al 1980. 

Le collusioni. Più in dettaglio, la Corte d'Appello scrisse che "con la sua condotta (...) (non meramente fittizia) ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando 
la sua disponibilità a favorire i mafiosi". 
Su di lui, insomma, di accuse se ne sono abbattute tante, alcune delle quali di gravità estrema: da mandante di omicidi, a mestatore di trame oscure, da colluso con strategie golpiste, a frequentatore di personaggi improponibili - come emerso, appunto, durante il processo di Palermo - per un uomo di Stato, quale lui è sicuramente stato per lunghissimi anni. 

Una maschera imperturbabile. Ma sarà probabilmente la sua maschera misteriosa e imperturbabile che resterà per sempre nella memoria di tutti, il suo severo contegno sacerdotale mantenuto anche sotto il diluvio di voci, insinuazioni e sospetti, così come le battute taglienti e gli aforismi illuminanti. La sua immagine rimarrà dunque scolpita nel ricordo dei suoi contemporanei come l'autentico emblema della cosiddetta Prima Repubblica, associato a un'idea della politica che ha permeato e condizionato il nostro Paese per oltre sessant'anni. 

Le tappe. Ecco le principali - non in ordine cronologico - del percorso giudiziario di Giulio Andreotti.

Il processo di Palermo. L'accusa che lo portò davanti ai giudici parlava di "concorso esterno in associazione mafiosa". Un reato ancora al centro di lunghi dibattiti fra giuristi, perché - al contrario del reato di associazione a delinquere - si configura come una sorta di "concorso nel concorso necessario". In altre parole, configura il comportamento di chi, pur non avendo alcun vincolo associativo, di fatto fornisce un contributo concreto al perseguimento degli obiettivi criminosi dell'associazione. 

Un marchio indelebile. Le parole pesanti scritte sulla sentenza, disegnano un profilo drammatico dell'immagine pubblica di Giulio Andreotti. La Corte infatti elenca i punti salienti di una condotta compromessa con un mondo contiguo, se non addirittura immerso, in Cosa Nostra. I giudici parlano infatti di "interventi para-legali, ancorché per finalità non riprovevoli", parlano di "incontri ripetutamente esponenti di vertice della stessa associazione" con i quali intrattiene "relazioni amichevoli, rafforzandone la influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti". E ancora fanno riferimento a un "autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso e indichi ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discuta con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati". E infine parlano di omissioni nel denunciare "elementi utili a far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi", dando ad essi "segni autentici... di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale". 

Piersanti Mattarella. I "fatti di particolarissima gravità" cui allude la sentenza riguardano Piersanti Mattarella, il presidente democristiano della Regione Sicilia, che aveva avviato un processo di pulizia morale nel partito e nell'amministrazione regionale. Casa, questa, che aveva creato non pochi attriti con la mafia. Fu così che la mattina del giorno dell'Epifania del 1980, mentre con la famiglia si recava a messa, Piersanti Mattarella fu ucciso a fucilate. I giudici della Corte d'Appello hanno scritto che Andreotti "era certamente e nettamente contrario" al delitto, ma che però per evitarlo andò in Sicilia per incontrare l'allora capo di Cosa Nostra, Stefano Bontate, per trovare una soluzione, discutendo con il boss mafioso i "problemi" sollevati da Mattarella. 

Logiche non istituzionali. Secondo i magistrati, Andreotti così facendo non si mosse "secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità del presidente della Regione, facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità ed i loro disegni". Al contrario: "ha agito per assumere il controllo della situazione critica e preservare la incolumità dell'onorevole Mattarella, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro che, in quel contesto, non possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali". 

L'omicidio Pecorelli. E' la sera del 20 marzo 1979. Nel quartiere Prati, a Roma, a poca distanza dalla redazione dell'agenzia giornalistica Op, viene ucciso con tre colpi di pistola al volto e uno alla schiena Mino Pecorelli, direttore della stessa agenzia, vicinissima ad alcuni ambienti dei servizi segreti e specializzata in scoop scandalistici, con una spiccata propensione alle insinuazioni pesanti e alle rivelazioni clamorose sul conto del mondo politico.
Dicembre 1993: la Procura di Roma, dopo l'autorizzazione a procedere del Senato contro Andreotti, trasmette gli atti della nuova inchiesta sull'uccisione di Pecorelli alla Procura di Perugia, dopo che uno degli amici più intimi di Andreotti, Claudio Vitalone (all'epoca sostituto procuratore generale a Roma) era finito nell'inchiesta, a seguito delle dichiarazioni di alcuni pentiti della Banda della Magliana. Giulio Andreotti attraversa così una delle fasi più drammatiche della sua vita, perché contemporaneamente è anche chiamato in causa dalla Procura di Palermo, che crede alle affermazioni di Tommaso Buscetta, il quale sostiene che le uccisioni del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e quella di Pecorelli hanno molti punti in comune. Buscetta afferma inoltre che tutti e due i delitti hanno a che fare con il "caso Moro". 
24 settembre 1999. La corte d'Assise di Perugia, quattro anni dopo il rinvio a giudizio, emette la sentenza di assoluzione per i mafiosi Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò e Michelangelo La Barbera, oltre che per l'armiere dei Nar, Massimo Carminati, il magistrato Vitalone e lo stesso Giulio Andreotti dall'accusa di essere (secondo i casi) mandanti, organizzatori o esecutori dell'omicidio di Pecorelli.
17 novembre 2002. La Corte d'Assise d'Appello di Parugia condanna a 24 anni di reclusione Giulio Andreotti e Gaetano Badalamenti, considerati i principali registi del delitto Pecorelli. Vengono invece confermate le assoluzioni per tutti gli altri.
30 ottobre 2003. La Corte di Cassazione - a sezioni riunite - annulla senza rinvio la sentenza d'appello e assolve tutti per non aver commesso il fatto. 

I rapporti con Dalla Chiesa. E' il 1982 e Giulio Andreotti non ha incarichi di governo. Però si prodiga affinché il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa accetti l'incarico di Prefetto di Palermo. L'alto ufficiale dei carabinieri nelle pagine di un diario scrive tra l'altro che la corrente Dc che fa capo ad Andreotti in Sicilia sarebbe, di fatto, la frangia politica più inquinata da presenze mafiose. Dalla Chiesa scriverà poi sul suo quaderno, a proposito di Andreotti: "... sono stato molto chiaro con lui e gli ho dato la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori... Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno... lo ha condotto e lo conduce ad errori di valutazione...".

E quelli con Sindona. Stando agli atti scritti dai giudici di Perugia e di Palermo, Andreotti aveva vecchie relazioni con Michele Sindona, oltre che con diverse persone in qualche misura coinvolte nelle vicende del banchiere fondatore della Banca Privata Italiana, esponente delle loggia massonica P2. Relazioni che si infittirono nel 1976 quando ci fu il fallimento del finanziere e che coincisero con l'intervento di Licio Gelli presso lo stesso Andreotti (allora ministro della Difesa), il quale si prodigò, ma senza esito, affinché l'allora ministro del Tesoro, Ugo La Malfa, intervenisse per salvare le banche di Sindona. Andreotti, tuttavia, negò sempre l'interessamento che fu - disse - solo istituzionale.

La morte del banchiere. Un caffè al cianuro stroncò la vita di Sindona il 22 marzo del 1986, mentre era in carcere, all'indomani di una condanna all'ergastolo per l'omicidio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso a Milano l'11 luglio del 1979, mentre svolgeva il suo incarico di liquidatore. Anche in questa vicenda spuntò fuori il nome di Andreotti, sul conto del quale si era avanzata un'ipotesi secondo la quale a far avere la bustina di zucchero avvelenata in carcere sarebbe stato proprio lui, nel timore - si insinuò - che Sindona durante il processo d'appello rivelasse segreti riguardanti i rapporti di politici italiani con Cosa Nostra e la P2. Ipotesi, questa, mai sorretta da alcuna prova concreta capace di coinvolgere Giulio Andreotti.

IL TESTAMENTO DI AGNESE BORSELLINO AI GIOVANI


"Carissimi giovani, mi rivolgo a voi come ai soli in grado di raccogliere davvero il messaggio che mio marito ha lasciato, un`eredità che oggi, malgrado le terribili verità che stanno mano a mano affiorando sulla morte di mio marito, hanno raccolto i miei tre figli, di cui non posso che andare orgogliosa soprattutto perché servono quello stesso Stato che non pare avere avuto la sola colpa di non avere fatto tutto quanto era in suo potere per impedire la morte del padre.

Leggendo con i miei figli (qui in ospedale dove purtroppo affronto una malattia incurabile con la dignità che la moglie di un grande uomo deve sempre avere) le notizie che si susseguono sui giornali, dopo alcuni momenti di sconforto ho continuato e continuerò a credere e rispettare le istituzioni di questo Paese, perché mi rendo conto che abbiamo il dovere di rispettarle e servirle come mio marito sino all`ultimo ci ha insegnato, non indietreggiando nemmeno un passo di fronte anche al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato attorno a lui.
Io e i miei figli non ci sentiamo persone speciali, non lo saremo mai, piuttosto siamo piccolissimi dinanzi la figura di un uomo che non è voluto sfuggire alla sua condanna a morte, che ha donato davvero consapevolmente il dono più grande che Dio ci ha dato, la vita.
Io non perdo la speranza in una società più giusta ed onesta, sono anzi convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia, l’Italia del domani.
Un caloroso abbraccio a voi tutti
Agnese Borsellino

domenica 5 maggio 2013

Salvatore Borsellino: "Ha raggiunto Paolo. Ora saprà la verità sulla sua morte"


"Io e i miei figli siamo rimasti quelli che eravamo. E io sono orgogliosa che tutti e tre abbiano percorso le loro strade senza trarre alcun beneficio dal nome pesante del padre. Di questo siamo grati a Paolo. Ci ha lasciato una grande lezione civile. Diceva che chiedere un favore vuol dire diventare debitore di chi te lo concede. Era così rigoroso e attento al senso del dovere che alla fine della giornata si chiedeva: ho meritato oggi lo stipendio dello Stato?" Agnese Piraino Leto Borsellino


 fonte : La Stampa

E' Morta Agnese Borsellino, vedova
del magistrato ucciso dalla mafia

Agnese Borsellino aveva 71 anni

Malata da tempo, aveva 71 anni
Il fratello del giudice ammazzato
dalla mafia: “Ha raggiunto Paolo,
ora saprà la verità sulla sua morte”
Crocetta: “Un esempio di coraggio”
Non smise mai di cercare la verità sull’assassinio di suo marito, Paolo Borsellino. Riservata e lontana dai riflettori pubblici, Agnese Piraino Leto, preferiva parlare ai giovani dando messaggi di speranza e di riscatto da quel cancro della mafia che le tolse il marito, l’amico, il padre dei suoi tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta. Nella sua ultima apparizione, in occasione dell’inaugurazione a Palermo della nuova sede della Dia, già provata dalla malattia, Agnese pronunciò parole che ancora adesso sembrano pietre: «Questa città deve resuscitare, deve ancora resuscitare». 

Agnese Piraino Leto è morta oggi, nella sua abitazione, a 71 anni. A darne la notizia è stato Salvatore Borsellino, fratello del magistrato. «È andata a raggiungere Paolo . Adesso saprà la verità sulla sua morte». In una nota i figli chiedono che «oggi sia un momento di preghiera strettamente privato nel rispetto di una perdita che ha una dimensione prima di tutto familiare». 

Sempre a testa alta, in quella sua figura minuta ma fiera e orgogliosa, Agnese Borsellino, che sposò Paolo il 23 dicembre 1968, non ha mai perso la fiducia nella giustizia e nella verità, anche quando i depistaggi e i falsi pentiti raccontarono una storia che ora i magistrati di Caltanissetta stanno cercando di riscrivere, pezzo dopo pezzo.  Proprio per la malattia che l’affliggeva, non aveva potuto partecipare alle manifestazioni per il ventennale delle stragi. Aveva però mandato un messaggio ai giovani: «Dopo alcuni momenti di sconforto - aveva scritto - ho continuato e continuerò a credere e rispettare le istituzioni di questo Paese come mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato. Non indietreggiando nemmeno un passo di fronte anche al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato intorno a lui».  

In occasione delle udienze del processo per la strage di via D’Amelio aveva riferito le preoccupazioni del marito che si erano accentuate dopo la strage Falcone. «Mi disse che c’era un colloquio tra mafia e pezzi infedeli dello Stato», raccontò. E parlò di un Borsellino «sconvolto» mentre le rivelava di avere saputo che l’ex capo del Ros, Antonio Subranni, era «punciuto» (uomo d’onore, ndr). «Paolo mi disse: “Mi ucciderà la mafia ma solo quando altri glielo consentiranno”». I verbali dei suoi interrogatori sono stati acquisiti anche al processo al generale dei carabinieri Mario Mori. La malattia le impedì di essere presente in aula a ripetere quelle parole. 
L’anno scorso in un’intervista all’Ansa disse: «Io e i miei figli siamo rimasti quelli che eravamo. E io sono orgogliosa che tutti e tre abbiano percorso le loro strade senza trarre alcun beneficio dal nome pesante del padre. Di questo siamo grati a Paolo. Ci ha lasciato una grande lezione civile. Diceva che chiedere un favore vuol dire diventare debitore di chi te lo concede. Era così rigoroso e attento al senso del dovere che alla fine della giornata si chiedeva: ho meritato oggi lo stipendio dello Stato?». 

Unanime il cordoglio delle istituzioni. Il Capo dello Stato; Giorgio Napolitano, ha inviato un messaggio alla famiglia Borsellino. Solidarietà anche dal presidente della Camera Laura Boldrini, dal premier Enrico Letta, dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, dal Guardasigilli Annamaria Cancellieri, dal governatore della Sicilia, Rosario Crocetta, dall’Anm. «Con dolore vero sincero e immenso apprendo la notizia della morte di Agnese Borsellino, donna di singolare esempio di attaccamento e fedeltà alle istituzioni, di grande coraggio e grande forza», ha dichiarato il presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta. 

I funerali si terranno domani alle 9.30 nella chiesa di S. Luisa di Marillac a Palermo, la stessa dove si svolsero le esequie di Paolo Borsellino. 

venerdì 3 maggio 2013

Libera riapre il bar della ’ndrangheta a Torino. Festa con don Ciotti e Caselli


Il bar Italia di via Veglia 59, l’ex santuario della ’ndrangheta di Torino, è pronto al battesimo di una vita: quella della legalità.  
L’ultimo scontrino è stato battuto il 7 giugno 2011, alle 20.35. Poche ore dopo, Giuseppe Catalano, marito della titolare del bar Albina Stalteri, è finito in manette, insieme ad altri 153 presunti ’ndranghetisti, nella lunga notte dell’operazione "Minotauro"

Fonte : la Stampa

Libera riapre il bar della ’ndrangheta
Festa con don Ciotti e Caselli

GIUSEPPE LEGATO

Non ci sono più picciotti d’onore, padrini, sgarristi e vangelisti. Al loro posto, da oggi, troverete Adriana Nobile, 56 anni, impiegata in mobilità della Ages di Santena. E’ lei che armeggia al bancone, fa la spola tra la cucina e i frigo e chiede ai clienti cosa desiderano. Caffè corretto antimafia.  
Il bar Italia di via Veglia 59, l’ex santuario della ’ndrangheta di Torino, è pronto al battesimo di una vita: quella della legalità.  

L’ultimo scontrino è stato battuto il 7 giugno 2011, alle 20.35. Importo: 2 euro. Poche ore dopo, Giuseppe Catalano, marito della titolare del bar Albina Stalteri, è finito in manette, insieme ad altri 153 presunti ’ndranghetisti, nella lunga notte dell’operazione Minotauro, grattacielo di accuse contro le ’ndrine di Torino e provincia il cui processo si sta celebrando nell’aula bunker delle Vallette. 
Il bar, citato 373 volte nell’ordinanza di arresto dei boss, da oggi si chiama «Italia Libera». Addio ’ndrangheta, si volta pagina.  

Il bar della mala  
Peppe Catalano era il capo dei capi.. Pochi giorni prima di morire aveva firmato in carcere la dissociazione dall’organizzazione. Un’ammissione implicita: ne ha fatto parte. Poi, esattamente un anno fa, si è suicidato nella villetta di Volvera lanciandosi dal balcone. Ufficialmente perché in preda alla depressione, ma nessun atto nel faldone aperto in procura, parlerebbe di patologie psichiche. Un decesso su cui ci sono ancora molte domande. Di certo c’è che, da morto, non potrà vedere la nuova vita del bar dal quale, per vent’anni, ha dettato la linea dell’onorata società sotto la Mole.  

Giuramenti, appalti e riti  
Qui si sono decise le strategie criminali più importanti, qui autentici pezzi da novanta della ’ndrangheta calabrese come Giuseppe Commisso «U mastru», uno dei tre più potenti boss in circolazione in Italia, venivano a dirimere controversie, celebrare riti, spartire appalti, distribuire doti e promozioni Qui si effettuava la«colletta» per le famiglie dei carcerati. In questo bar - secondo l’accusa - è diventato «padrino» Bruno Iaria, mentre Arcangelo Gioffrè appena diciottenne è stato battezzato nella famiglia criminale come «giovane d’onore» salvo poi, pochi mesi dopo (28 dicembre 2008), essere quasi ucciso in un agguato a Bovalino in cui morì suo padre Giuseppe «Peppe» Gioffrè, capo del locale di Settimo. Adesso ci sono Adriana e altre due giovani ragazze della cooperativa Nanà che gravita nell’orbita di Libera, associazione contro le mafie fondata da don Luigi Ciotti. Da mesi, insieme a Maria Jose Fava, referente regionale dell’associazione, hanno iniziato a lavorare per rimettere a posto i locali: «E’ saltato fuori di tutto, anche un santino elettorale del 2009 di Fabrizio Bertot (mai indagato ndr) candidato alle elezioni europee che venne qui a fare un pranzo con il gotha della ’ndrangheta (in aula ha negato di sapere che fossero criminali ndr)». Non solo: «In un cassetto c’era perfino il certificato antimafia con tanto di timbri» racconta Fava.  

La nuova vita  
Oggi pomeriggio alle 17 ci sarà l’inaugurazione. Vi parteciperanno il procuratore Giancarlo Caselli, don Luigi Ciotti e molti ufficiali dei carabinieri e delle forze armate che hanno contribuito all’indagine dalla quale è scaturito il sequestro del bar. Adriana è già al bancone e non ha paura di niente: «Siamo qui per metterci in gioco, per mandare alla città un segnale positivo. L’antimafia . dice - non è solo quella delle manette»

giovedì 2 maggio 2013

Torino. Inaugurazione "Bar Italia Libera"




In Piemonte “Bar Italia Libera”

fonte: Libera Piemonte
Il bar sequestrato alla ‘ndrangheta nel corso della più grande operazione antimafia del Piemonte, l'Operazione "Minotauro", torna alla collettività grazie al riutilizzo sociale sancito dalla legge 109/96. Libera Piemonte e la Cooperativa Nanà, che ne hanno rilevato la gestione, invitano tutti domani 3 maggio all’inaugurazione del locale. 
Alla giornata saranno presenti rappresentanti delle Istituzioni cittadine. Non Mancate.