Visualizzazione post con etichetta Giulio Andreotti. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Giulio Andreotti. Mostra tutti i post

domenica 7 gennaio 2018

Piersanti Mattarella: “Aveva studiato per diventare Mazzarino e improvvisamente divenne Pericle.Come poteva vivere un uomo così, e per giunta vivere da presidente?"

In concomitanza col l'anniversario dell'uccisione, gli organi di stampa hanno battuto notizie relative alla riapertura delle indagini sul "delitto Mattarella", allora Presidente della Regione Sicilia. Oggi si parla, come fosse una novità, della pista neofascista. In realtà, il delitto Mattarella è uno di quei delitti eccellenti che, come altri, ha mostrato il nodo essenziale delle organizzazioni mafiose: il legame fra queste e "pezzi" delle istituzioni, quello Stato-mafia "che continua a nascondere" e di cui oggi torna a parlare Saverio Lodato (leggi qui)

Piersanti Mattarella, Presidente della Regione, è stato ucciso voleva cambiare la sua Sicilia, anzitutto smantellando i legami indicibili che legavano il suo stesso partito -la Democrazia Cristiana- a "cosa nostra". Un uomo scomodo quindi, e non solo per le organizzazioni criminali. 

L'assassinio di Piersanti Mattarella ha infatti rivelato una delle pagine più vergognose della storia italiana. Il processo che si sarebbe celebrato negli anni successivi contro Giulio Andreotti ha dimostrato come "il caso Mattarella" preoccupasse sia le mafia che la politica del tempo: fu proprio l’ex presidente del consiglio Giulio Andreotti a prendere parte a due incontri -al cospetto di un boss quale Stefano Bontade- nei quali si parlò della necessità di fermare-eliminare Piersanti Mattarella. La sentenza del processo acclara che sebbene Andreotti fosse “nettamente contrario” all’esecuzione del delitto, Giulio Andreotti “non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi ed a allontanarsi senz’altro dagli stessi, ma è sceso in Sicilia per chiedere conto al Bontade (il boss Stefano Boutadendrdella scelta di sopprimere il presidente della Regione

Il ritratto morale di Piersanti Mattarella venne tracciato da Giuseppe Fava che, nell'articolo "I cento padroni di Palermo", così scriveva dell'uomo che sognava “una Sicilia con le carte in regola”: 

"(...) Aveva studiato tutte le arti per diventare Mazzarino e improvvisamente divenne PericleIndossò tutta la dignità che dovrebbe avere sempre un uomo; dignità significa intransigenza morale, nitidezza nel governo, onestà nella pubblica amministrazione. Piersanti Mattarella fu capace di pensare in grande e pensare in proprio. Figurarsi la società palermitana degli oligarchi, i cento padroni di Palermo. Come poteva vivere un uomo così, e per giunta vivere da presidente? Nessuno capirà mai se Mattarella venne ucciso perché aveva fermato una cosa che stava accadendo, oppure perché avrebbe potuto fermare cose che invece ancora dovevano accadere.(qui il testo dell'articolo)


sera del 5 gennaio 1980
La sera di sabato 5 gennaio 1980 il Telegiornale regionale siciliano aveva mandato in onda  l'ultima intervista rilasciata da Piersanti Mattarella, allora presidente della Regione Sicilia. Il tema dell'intervista era "Sicilia: nel buio degli anni ’80". L'intervista viene pubblicata in una sintesi dal «Giornale di Sicilia» proprio nell'edizione del 6 gennaio, il giorno in cui Mattarella sarà ucciso. Il titolo scelto era: “I nodi sono molto grossi, le armi appaiono spuntate: spero di farcela, e presto”: sono le parole che Piersanti Mattarella pronuncia in un passaggio della stessa intervista. Riportiamo la parte finale dell'intervista, quando il giornalista incalza Piersanti Mattarella sule azioni messe in atto per contrastare la mafia
Stralcio dell'intervista di Piersanti Mattarella: 
“I nodi sono molto grossi, le armi appaiono spuntate: spero di farcela, e presto”
(...) Domanda. Il ’79 è stato l’anno in cui della mafia, dopo un crescendo di violenza, si è parlato dentro il palazzo. È riconosciuto che il fenomeno si alimenta di un malessere sociale per rispondere al quale sono necessari fatti politici, non solo misure di polizia. Ma quali fatti politici in tal senso la Regione ha prodotto, quali potrà produrre?

Risposta di P. Mattarella. «Fatti politici ci sono stati. Cito soltanto i due dibattiti in Assemblea regionale conclusi con voto unanime. Molte indicazioni concrete per far fronte al fenomeno sono state accolte dai recenti provvedimenti del Consiglio dei ministri in materia di ordine pubblico». 

D. Siamo sempre sul piano delle misure di polizia. I fatti politici riguardano il risanamento del costume pubblico. Il cardinale Pappalardo nell’ultima lettera pastorale ha detto che la mafia è pure quella sensazione di sicurezza prodotta dall’esser «protetti da un amico o da un gruppo di amici che contano». Questi gruppi si insediano pure dentro la classe dirigente.


R. «Il richiamo del cardinale è appropriato. Il problema esiste perché nella società a diversi livelli, nella classe dirigente non solo politica, ma pure economica e finanziaria, si affermano comportamenti individuali e collettivi che favoriscono la mafia. Bisogna intervenire per eliminare quanto a livello pubblico, attraverso intermediazioni e parassitismi, ha fatto e fa proliferare la mafia. Pure è necessario risvegliare doveri individuali e comportamenti dei singoli che finiscono con il consentire il formarsi di un’area dove il fenomeno ha potuto, dico storicamente, allignare e prosperare».

6 gennaio 1980
La mattina del 6 gennaio 1980 mentre la famiglia Mazzarella stava recandosi alla messa, senza la scorta che Piersanti Mazzarella aveva sempre rifiutato nei giorni festivi, i killer di cosa nostra si avvicinano all'auto del presidente nella quale vi erano anche la maglie, le figlie e la suocera. Nella fotografia di Letizia Battaglia, l'immagine del corpo morente di Piersanti Mattarella sorretto dal fratello Sergio, attuale Presidente della Repubblica, accorso appena udito gli spari. 
Lo stesso Giovanni Falcone era convinto che ambienti eversivi di destra fossero implicati del delitto di Piersanti Mattarella. Per questo Falcone chiamò a giudizio Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, accusati – e poi assolti – di essere gli autori materiali di un omicidio per il quale finora furono condannati solo i mandanti: i boss della Cupola di Cosa nostra Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci. 






giovedì 11 luglio 2013

Giorgio Ambrosoli. Un Eroe Borghese

«A quarant'anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito». 
Era il 25 febbraio del 1975 quando Giorgio Ambrosoli scrisse queste parole in una lettera alla moglie Anna. Aveva appena completato la faticosa ricostruzione dello stato passivo della Banca privata italiana, cuore dell'impero di Michele Sindona, di cui la Banca d'Italia aveva disposto la liquidazione coatta. Intuiva che la sua vita da quel momento era a rischio ma era orgoglioso di quanto era riuscito a fare.
Ambrosoli, che fu nominato commissario della Banca privata nel 1974, era un professionista milanese non molto in vista. Avvocato contro la volontà del padre, che avrebbe preferito una carriera in banca, sposato con tre figli, si era "fatto le ossa" nel 1964 con il fallimento della Sfi, una finanziaria "vicina" a Giuseppe Pella, pezzo da novanta democristiano. Il buco era di 70 miliardi delle lire di allora.
Ambrosoli venne assassinato la sera dell'11 luglio 1979, rincasando dopo una serata trascorsa con amici, Ambrosoli: fu avvicinato sotto il suo portone da un killer italo-americano che gli esplose contro quattro colpi .357 Magnum. Ad ucciderlo fu William Joseph Aricò, pagato da Michele Sindona con 25 000 dollari in contanti ed un bonifico  di altri 90 000 dollari  depositati su un conto corrente svizzero
Ai  funerali di giorgio Ambrosoli non era presente nessun rappresentante delle istituzioni italiane. 
Anni dopo, Giulio Andreotti ebbe a dire che Giorgio Ambrosoli era uno che "se l'andava cercando"


Non un borghese qualunque
Ambrosoli, cresciuto in un ambiente conservatore, da giovane aveva simpatizzato per l'Unione monarchica e per la Gioventù liberale. Era un borghese, sì, ma non qualunque. Era un eroe borghese, come lo dipinse Corrado Stajano in un bellissimo libro del 1991. Quando accettò l'incarico dal governatore Guido Carli, probabilmente non immaginava i guai cui sarebbe andato incontro. Ma gli bastò pochissimo per rendersi conto che dietro quel crac si nascondeva un intreccio di politica, finanza, poteri costituiti e poteri occulti, malavita. Giorno dopo giorno si imbatté in documenti che provavano come il bancarottiere siciliano fosse legato a filo doppio a politici di primo piano (Giulio Andreotti, soprattutto, e la sua corrente Dc, ma anche Amintore Fanfani), banchieri burattini (Ferdinando Ventriglia, Mario Barone, Roberto Calvi), uomini di chiesa troppo legati alle cose terrene (Paul Marcinkus e il suo Ior), torbidi manovratori della massoneria (Licio Gelli e la sua loggia P2 che fu scoperta solo parecchi anni dopo), magistrati manovrabili (Carmelo Spagnuolo, Antonio Alibrandi, Luciano Infelisi), capibastone della mafia.
Conscio del pericolo in cui la sua onestà lo poneva, volendo indagare uomini e fatti del potere oscuro,  nel febbraio 1975 scrisse alla moglie la lettera che costituisce il testamento spirituale lascito alla sua famiglia e all'Italia intera. 

« Anna carissima,

è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I., atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende alla Verzotto e il fatto stesso di dover trattare con gente dì ogni colore e risma non tranquillizza affatto. E' indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il paese. Ricordi i giorni dell'Umi, le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene, a quarant'anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l'incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato - ne ho la piena coscienza - solo nell'interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione, anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo. I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [... ] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell'altro.. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi (...) Giorgio »

lunedì 6 maggio 2013

Giulio Andreotti è morto. Giancarlo Caselli spiega la sentenza del processo di Palermo che portò il senatore davanti ai giudici,


Giulio Andreotti è morto. Giancarlo Caselli spiega la sentenza del processo di Palermo  che portò il senatore  davanti ai giudici, accusato di "concorso esterno in associazione mafiosa".  Si terranno funerali di Stato?

Fonte : La Repubblica

Giulio Andreotti tra processi e misteri:
da Pecorelli a Sindona, a Cosa Nostra

La lunghissima carriera del leader Dc è stata costellata di tempeste giudiziarie. Le affrontò sempre con compostezza e rispetto per i giudici. Storica la sentenza della Cassazione sui rapporti con la mafia


Quella corazza impenetrabile che è sembrata da sempre invincibile di uomo politico, pronto a tutte le traversìe del destino in quasi un secolo di vita, Giulio Andreotti ha imparato ad indossarla fin dagli esordi del suo infinito viaggio nelle istituzioni dello Stato. E' diventato adulto con quell'"indumento" addosso e l'ha ispessito strada facendo in tutti i luoghi della politica italiana, rinforzandolo con la sua ironia sofisticata e il suo micidiale sarcasmo. 

Il "graffio" sulla "corazza". Nessun altro prima di lui ha dovuto e saputo affrontare tante tempeste giudiziarie, una più devastante dell'altra, tra condanne, assoluzioni e prescrizioni, tutto con la stessa impettita fermezza e una compostezza rigorosamente rispettosa verso i giudici. Tuttavia, alla fine, su quella corazza, un "graffio" incancellabile è rimasto, provocato da una sentenza storica della Cassazione, quella del 2 maggio 2003: "La partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione" con la mafia. Almeno fino al 1980. 

Le collusioni. Più in dettaglio, la Corte d'Appello scrisse che "con la sua condotta (...) (non meramente fittizia) ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando 
la sua disponibilità a favorire i mafiosi". 
Su di lui, insomma, di accuse se ne sono abbattute tante, alcune delle quali di gravità estrema: da mandante di omicidi, a mestatore di trame oscure, da colluso con strategie golpiste, a frequentatore di personaggi improponibili - come emerso, appunto, durante il processo di Palermo - per un uomo di Stato, quale lui è sicuramente stato per lunghissimi anni. 

Una maschera imperturbabile. Ma sarà probabilmente la sua maschera misteriosa e imperturbabile che resterà per sempre nella memoria di tutti, il suo severo contegno sacerdotale mantenuto anche sotto il diluvio di voci, insinuazioni e sospetti, così come le battute taglienti e gli aforismi illuminanti. La sua immagine rimarrà dunque scolpita nel ricordo dei suoi contemporanei come l'autentico emblema della cosiddetta Prima Repubblica, associato a un'idea della politica che ha permeato e condizionato il nostro Paese per oltre sessant'anni. 

Le tappe. Ecco le principali - non in ordine cronologico - del percorso giudiziario di Giulio Andreotti.

Il processo di Palermo. L'accusa che lo portò davanti ai giudici parlava di "concorso esterno in associazione mafiosa". Un reato ancora al centro di lunghi dibattiti fra giuristi, perché - al contrario del reato di associazione a delinquere - si configura come una sorta di "concorso nel concorso necessario". In altre parole, configura il comportamento di chi, pur non avendo alcun vincolo associativo, di fatto fornisce un contributo concreto al perseguimento degli obiettivi criminosi dell'associazione. 

Un marchio indelebile. Le parole pesanti scritte sulla sentenza, disegnano un profilo drammatico dell'immagine pubblica di Giulio Andreotti. La Corte infatti elenca i punti salienti di una condotta compromessa con un mondo contiguo, se non addirittura immerso, in Cosa Nostra. I giudici parlano infatti di "interventi para-legali, ancorché per finalità non riprovevoli", parlano di "incontri ripetutamente esponenti di vertice della stessa associazione" con i quali intrattiene "relazioni amichevoli, rafforzandone la influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti". E ancora fanno riferimento a un "autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso e indichi ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discuta con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati". E infine parlano di omissioni nel denunciare "elementi utili a far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi", dando ad essi "segni autentici... di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale". 

Piersanti Mattarella. I "fatti di particolarissima gravità" cui allude la sentenza riguardano Piersanti Mattarella, il presidente democristiano della Regione Sicilia, che aveva avviato un processo di pulizia morale nel partito e nell'amministrazione regionale. Casa, questa, che aveva creato non pochi attriti con la mafia. Fu così che la mattina del giorno dell'Epifania del 1980, mentre con la famiglia si recava a messa, Piersanti Mattarella fu ucciso a fucilate. I giudici della Corte d'Appello hanno scritto che Andreotti "era certamente e nettamente contrario" al delitto, ma che però per evitarlo andò in Sicilia per incontrare l'allora capo di Cosa Nostra, Stefano Bontate, per trovare una soluzione, discutendo con il boss mafioso i "problemi" sollevati da Mattarella. 

Logiche non istituzionali. Secondo i magistrati, Andreotti così facendo non si mosse "secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità del presidente della Regione, facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità ed i loro disegni". Al contrario: "ha agito per assumere il controllo della situazione critica e preservare la incolumità dell'onorevole Mattarella, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro che, in quel contesto, non possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali". 

L'omicidio Pecorelli. E' la sera del 20 marzo 1979. Nel quartiere Prati, a Roma, a poca distanza dalla redazione dell'agenzia giornalistica Op, viene ucciso con tre colpi di pistola al volto e uno alla schiena Mino Pecorelli, direttore della stessa agenzia, vicinissima ad alcuni ambienti dei servizi segreti e specializzata in scoop scandalistici, con una spiccata propensione alle insinuazioni pesanti e alle rivelazioni clamorose sul conto del mondo politico.
Dicembre 1993: la Procura di Roma, dopo l'autorizzazione a procedere del Senato contro Andreotti, trasmette gli atti della nuova inchiesta sull'uccisione di Pecorelli alla Procura di Perugia, dopo che uno degli amici più intimi di Andreotti, Claudio Vitalone (all'epoca sostituto procuratore generale a Roma) era finito nell'inchiesta, a seguito delle dichiarazioni di alcuni pentiti della Banda della Magliana. Giulio Andreotti attraversa così una delle fasi più drammatiche della sua vita, perché contemporaneamente è anche chiamato in causa dalla Procura di Palermo, che crede alle affermazioni di Tommaso Buscetta, il quale sostiene che le uccisioni del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e quella di Pecorelli hanno molti punti in comune. Buscetta afferma inoltre che tutti e due i delitti hanno a che fare con il "caso Moro". 
24 settembre 1999. La corte d'Assise di Perugia, quattro anni dopo il rinvio a giudizio, emette la sentenza di assoluzione per i mafiosi Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò e Michelangelo La Barbera, oltre che per l'armiere dei Nar, Massimo Carminati, il magistrato Vitalone e lo stesso Giulio Andreotti dall'accusa di essere (secondo i casi) mandanti, organizzatori o esecutori dell'omicidio di Pecorelli.
17 novembre 2002. La Corte d'Assise d'Appello di Parugia condanna a 24 anni di reclusione Giulio Andreotti e Gaetano Badalamenti, considerati i principali registi del delitto Pecorelli. Vengono invece confermate le assoluzioni per tutti gli altri.
30 ottobre 2003. La Corte di Cassazione - a sezioni riunite - annulla senza rinvio la sentenza d'appello e assolve tutti per non aver commesso il fatto. 

I rapporti con Dalla Chiesa. E' il 1982 e Giulio Andreotti non ha incarichi di governo. Però si prodiga affinché il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa accetti l'incarico di Prefetto di Palermo. L'alto ufficiale dei carabinieri nelle pagine di un diario scrive tra l'altro che la corrente Dc che fa capo ad Andreotti in Sicilia sarebbe, di fatto, la frangia politica più inquinata da presenze mafiose. Dalla Chiesa scriverà poi sul suo quaderno, a proposito di Andreotti: "... sono stato molto chiaro con lui e gli ho dato la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori... Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno... lo ha condotto e lo conduce ad errori di valutazione...".

E quelli con Sindona. Stando agli atti scritti dai giudici di Perugia e di Palermo, Andreotti aveva vecchie relazioni con Michele Sindona, oltre che con diverse persone in qualche misura coinvolte nelle vicende del banchiere fondatore della Banca Privata Italiana, esponente delle loggia massonica P2. Relazioni che si infittirono nel 1976 quando ci fu il fallimento del finanziere e che coincisero con l'intervento di Licio Gelli presso lo stesso Andreotti (allora ministro della Difesa), il quale si prodigò, ma senza esito, affinché l'allora ministro del Tesoro, Ugo La Malfa, intervenisse per salvare le banche di Sindona. Andreotti, tuttavia, negò sempre l'interessamento che fu - disse - solo istituzionale.

La morte del banchiere. Un caffè al cianuro stroncò la vita di Sindona il 22 marzo del 1986, mentre era in carcere, all'indomani di una condanna all'ergastolo per l'omicidio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso a Milano l'11 luglio del 1979, mentre svolgeva il suo incarico di liquidatore. Anche in questa vicenda spuntò fuori il nome di Andreotti, sul conto del quale si era avanzata un'ipotesi secondo la quale a far avere la bustina di zucchero avvelenata in carcere sarebbe stato proprio lui, nel timore - si insinuò - che Sindona durante il processo d'appello rivelasse segreti riguardanti i rapporti di politici italiani con Cosa Nostra e la P2. Ipotesi, questa, mai sorretta da alcuna prova concreta capace di coinvolgere Giulio Andreotti.

lunedì 14 gennaio 2013

Il sen. Giulio Andreotti compie 94 anni . Noi lo ricordiamo così


Oggi il sen. Giulio Andreotti compie 94 anni. Per non dimenticare cosa è stato, noi oggi ricordiamo l'assassinio di Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980) e la Sentenza Corte della Corte di Appello di Palermo, 2 maggio 2003, con le parole del Procuratore di Torino Gian Carlo Caselli,  



Gli incontri tra Giulio Andreotti e i boss mafiosi al fine di discutere il delitto Mattarella, e di cui parla Gian carlo Caselli, sono trattati nella Sentenza Corte di Appello di Palermo 2 maggio 2003, Parte III cap. 2 pp. 1093-1185 Presidente Scaduti, Relatore Fontana. 
In particolare, nelle conclusioni si legge (pp. 1514-1515): 
Piesanti Mattarella
insieme al Presidente Sandro Pertini
«(...) Del resto, ad ultimativo conforto dell’assunto, basta considerare proprio la vicenda, assolutamente indicativa,  che ruota attorno all’assassinio dell'on. Pier Santi Mattarella. 
Anche ammettendo la prospettata possibilità che l’imputato sia personalmente intervenuto allo scopo di evitare una soluzione cruenta della questione Mattarella, alla quale era certamente e nettamente contrario, appare alla Corte evidente che egli ( Giulio Andreotti . n.d.r.) nell’occasione non si è mosso secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità del Presidente della Regione facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità ed i loro disegni: il predetto, invece, ha, sì, agito per assumere il controllo della situazione critica e preservare la incolumità dell’on. Mattarella, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro, che, in quel contesto, non possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali. A seguito del tragico epilogo della vicenda, poi, Andreotti non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi ed a allontanarsi senz’altro dagli stessi, ma è "sceso" in Sicilia  per chiedere al boss Stefano Bontade conto della scelta di sopprimere il Presidente della Regione: anche tale atteggiamento deve considerarsi incompatibile con una pregressa disponibilità soltanto strumentale e fittizia e, come già si è evidenziato, non può che leggersi come espressione dell’intento (fallito per le ragioni già esposte in altra parte della sentenza) di verificare, sia pure attraverso un duro chiarimento, la possibilità di recuperare il controllo sull'azione dei mafiosi riportandola entro i tradizionali canali di rispetto per la istituzione pubblica e di salvaguardare le buone relazioni con gli stessi, nel quadro della aspirazione alla continuità delle stesse