Pio La Torre e Rosario Di Salvo |
Erano le 9:20 del 30 aprile 1982. Pio La Torre stava raggiungendo la sede del PCI, a Palermo, a bordo di una Fiat 131 guidata da Rosario Di Salvo.
Quando
la macchina si trovò in una strada stretta, una moto di grossa cilindrata
obbligò Di Salvo a fermarsi. L'auto venne investita da una raffica di proiettili. Da
un'auto scesero altri killer a completare il duplice omicidio. Pio
La Torre morì all'istante mentre Di Salvo ebbe il tempo per estrarre una
pistola e sparare alcuni colpi, prima di soccombere.
Erano i giorni della "seconda guerra di mafia": la "mattanza" condotta dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano mietevin in Sicilia centinaia di vittime. Pio La Torre propone al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini di inviare a Palermo -come prefetto- il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo. Non fanno in tempo a incontrarsi.
Il giorno dell'uccisione di Pio La Torre in Sicilia arriva a Palermo il generale Dalla Chiesa. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde lui.
Il giorno dell'uccisione di Pio La Torre in Sicilia arriva a Palermo il generale Dalla Chiesa. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde lui.
Fonte : Narcomafie
A oltre tre decenni dalla morte, gli
interrogativi rimangono aperti sul delitto e l'eredità civile del dirigente
politico italiano.
Ripercorriamo la storia di quei giorni. A seguire la "Conversazione con Franco La Torre".
Pio La Torre e Rosario Di Salvo, massacrati |
Ripercorriamo la storia di quei giorni. A seguire la "Conversazione con Franco La Torre".
La storia
L'uccisione di Pio La Torre e del
suo collaboratore Rosario Di Salvo avveniva in un clima convulso. Dalla fine
degli anni settanta nella capitale siciliana era stata una sequela di delitti
che avevano scosso l'opinione pubblica dell'intero Paese. Erano stati
assassinati il segretario provinciale della DC Michele Reina, il giornalista
Mario Francese, il vicequestore Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova, il
presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri
Emanuele Basile e il giudice Gaetano Costa. Tutto questo evocava già allora un
disegno coeso. Lo stesso La Torre ne era in convinto, e interpretava i delitti
di quel periodo come «terrorismo mafioso».
Dopo l'uccisione di Mattarella
intitolava un editoriale di Rinascita: "Se terrorismo e mafia si scambiano le
tecniche". Poi venne il suo turno, e dopo di lui, ancora con ritmi incalzanti,
fu la volta del generale Dalla Chiesa, dei magistrati Ciaccio Montalto e Rocco
Chinnici, dei poliziotti Calogero Zucchetto, Beppe Montana e Ninni Cassarà, del
giornalista Giuseppe Fava, dell'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco.
Infine, nel pieno dell'offensiva giudiziaria di Falcone e Borsellino, che
avrebbe prodotto il maxiprocesso alla mafia, il gioco cambiava. Ma era stato
decapitato a quel punto il ceto politico e istituzionale della Sicilia.
Si era arrivati in realtà a uno
snodo. I proventi del narcotraffico e del contrabbando incrostavano ormai da
anni l'economia regionale, e le famiglie mafiose, a loro modo, avevano giocato
la carta della «modernizzazione», attraverso la partecipazione alle grandi
opere, sullo sfondo dei patti che correvano da decenni con la politica. Ma da
tempo, tanto più dopo l'implosione del sistema Sindona, qualcosa scricchiolava.
Nella relazione di minoranza della Commissione Antimafia, del 1976, Pio La
Torre, dopo aver documentato gli affari illeciti della capitale siciliana,
chiamando in causa tra gli altri Vito Ciancimino, Giovanni Gioia, Salvo Lima e
Giovanni Matta, affermava: «Il sistema di potere mafioso è entrato ormai
irrimediabilmente in crisi anche a Palermo. Ne sono una testimonianza gli
ultimi sviluppi della lotta politica all'interno della DC palermitana».
L'analisi, molto lucida, riusciva a interpretare una tensione reale, che
sarebbe divenuta esplosiva a fine decennio, quando dentro il partito
democristiano andavano polarizzandosi due visioni della politica. Da una parte
era la DC di Piersanti Mattarella, presidente della Regione, che, come era
nelle ispirazioni del popolarismo cattolico, guardava in avanti, in direzione
di una modernizzazione conseguente, che tenesse conto dei principi di
trasparenza e di moralità. Dall'altra era quella andreottiana di Salvo Lima e
Mario D'Acquisto, che con varie declinazioni si ergeva a difesa del sistema che
a lungo aveva retto Palermo e la Sicilia.
Insediatosi a palazzo d'Orleans
il 20 marzo 1978 con l'appoggio esterno del Pci, Piersanti Mattarella per le
cosche e i loro referenti diventava in poco tempo, per l'incisività della sua
azione, un problema di difficile gestione. Venivano fermati appalti sospetti,
si cominciava a rivoluzionare la macchina burocratica e arrivavano atti
politici conseguenti, come nell'autunno del 1978, quando il presidente della
Regione rimuoveva dalla sua giunta l'assessore ai Lavori Pubblici Rosario
Cardillo, repubblicano, ritenuto a capo di un sistema illecito di controllo
degli appalti. Ma erano percepiti altri pericoli. Cesare Terranova, finita la
sesta legislatura, che gli aveva consentito di operare in seno alla Commissione
Antimafia e di collaborare con La Torre e altri parlamentari della Sinistra
alla stesura della relazione di minoranza, rientrava al palazzo di giustizia di
Palermo con l'incarico di consigliere istruttore presso la Corte d'Appello. Da
procuratore della Repubblica era riuscito a fermare Luciano Liggio, e con il
nuovo incarico, oltre che con il bagaglio di conoscenze acquisite
all'Antimafia, avrebbe potuto infliggere danni non meno significativi ai poteri
criminali della città. La Guardia di Finanza aveva schedato intanto circa
tremila imprese sospettate di collusione mafiosa, mentre da diverse parti si
rivendicava una legge che consentisse di portare le indagini oltre i santuari
delle banche. La bancarotta di Sindona, che registrava un clamoroso colpo di
scena nel giugno 1979, con l'assassinio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli,
nominato commissario liquidatore della BPI, restava infine un nervo scoperto. E
su tale sfondo di tensioni e timori cresceva con rapidità, fino a occupare in
poco tempo il centro della scena, la presenza politica e legislativa di Pio La
Torre.
Dopo la conclusione dei lavori
della Commissione Antimafia, nel 1976, il politico siciliano, allora
responsabile nazionale dell'Ufficio agricoltura del PCI, aveva continuato a
seguire con scrupolo il fenomeno mafioso nel Sud, denunciandone l'evoluzione
nelle sedi di partito, sulla stampa e in diverse sedute parlamentari. Egli
sostenne quindi con convinzione la ricerca delle sinergie che resero possibile
l'esperimento del Governo Mattarella, facendo arrivare, quando necessario, la
propria voce sui percorsi della Regione, con suggerimenti anche forti. Alla
Conferenza dell'agricoltura che si tenne a Villa Igea il 9 febbraio 1979, Pio La Torre non
esitò a denunciare l'assessorato regionale al ramo di illeciti gravi,
additandone il capo, l'andreottiano Giuseppe Aleppo, come colluso alla
criminalità organizzata. E in quella occasione, Piersanti Mattarella, che
chiuse i lavori con un'ampia relazione, si guardò bene dal difendere il proprio
assessore, sconcertando i presenti. Il segnale che giungeva alle consorterie
era chiaro.
Quando si mise in moto a Palermo
la macchina degli omicidi, Pio La Torre fu tra i primi, appunto, a comprendere
la complessità strategica del progetto. Intervenendo alla Camera il 26
settembre 1979, appena un giorno dopo l'uccisione di Cesare Terranova e del
maresciallo Lenin Mancuso, egli affermava che si era di fronte a un salto
qualitativo, «ad una sfida frontale allo Stato democratico da parte
dell'organizzazione mafiosa».
E due giorni dopo l'assassinio di Piersanti Mattarella sottolineava, ancora alla Camera, che in Sicilia era in corso una battaglia cruciale «fra le forze impegnate per il cambiamento contro il sistema di potere mafioso per il rinnovamento economico, sociale e democratico delle strutture dell'isola, e quanti invece difendono tenacemente il sistema di potere mafioso». Il dirigente politico non limitava però il proprio intervento all'analisi e alla denuncia. Egli riteneva che per sostenere lo scontro occorressero strumenti nuovi, soprattutto di livello normativo. Il 6 marzo alla Camera dei Deputati annunciava quindi una legge che avrebbe proposto «misure di prevenzione e di accertamento e misure patrimoniali nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, la modifica del codice penale, con la definizione di associazione mafiosa, con l'obiettivo di perseguire come reato la semplice appartenenza all'associazione stessa». La legge nota come 416 bis, di cui Pio La Torre era il redattore e il primo firmatario, veniva presentata alla Camera dei Deputati il 31 marzo 1980.
E due giorni dopo l'assassinio di Piersanti Mattarella sottolineava, ancora alla Camera, che in Sicilia era in corso una battaglia cruciale «fra le forze impegnate per il cambiamento contro il sistema di potere mafioso per il rinnovamento economico, sociale e democratico delle strutture dell'isola, e quanti invece difendono tenacemente il sistema di potere mafioso». Il dirigente politico non limitava però il proprio intervento all'analisi e alla denuncia. Egli riteneva che per sostenere lo scontro occorressero strumenti nuovi, soprattutto di livello normativo. Il 6 marzo alla Camera dei Deputati annunciava quindi una legge che avrebbe proposto «misure di prevenzione e di accertamento e misure patrimoniali nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, la modifica del codice penale, con la definizione di associazione mafiosa, con l'obiettivo di perseguire come reato la semplice appartenenza all'associazione stessa». La legge nota come 416 bis, di cui Pio La Torre era il redattore e il primo firmatario, veniva presentata alla Camera dei Deputati il 31 marzo 1980.
Gli eventi incalzavano. Ancora
nel Palermitano venivano assassinati Emanuele Basile a Gaetano Costa, e il
dirigente del PCI, mentre faceva il possibile per allontanare dalle secche il
suo disegno di legge, continuava ad esporsi pericolosamente. In una Tribuna
politica televisiva del 30 maggio 1981 egli si domandava: «Perché sottovalutare
la spaventosa coincidenza tra la presenza di Sindona a Palermo e l'esecuzione
mafiosa del giudice Terranova?».
Rompendo ogni indugio, tornava poi in Sicilia, a dirigere il comitato regionale del partito. Finiva quindi sotto una pressante minaccia, mentre si accendeva nel Paese la vicenda dei missili Cruise e Pershing che la NATO, con l'avallo del governo italiano, intendeva installare nei pressi di Comiso. L'uccisione di Pio La Torre e Rosario Di Salvo avveniva appena otto mesi dopo l'arrivo del primo a Palermo. Quale ne era il significato? Ugo Pecchioli, responsabile del partito per il problemi dello Stato, in un'intervista su «L'Ora» del 2 maggio 1982, parlava di una decisione presa in alto, «dai burattinai della mafia, perché piena di implicazioni politiche». In una relazione interna dell'11 maggio rilevava inoltre che non poteva essere esclusa nessuna ipotesi, «neppure quella da qualche parte affacciatasi di connessioni straniere». E da allora l'argomento delle possibili convergenze, politiche e atlantiche, ha attraversato i decenni. Mancati però i riscontri, la morte di La Torre e del suo compagno di partito, addebitata in via definitiva a Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca e altri capimafia, resiste tra i segreti di Palermo e della Repubblica.
Rompendo ogni indugio, tornava poi in Sicilia, a dirigere il comitato regionale del partito. Finiva quindi sotto una pressante minaccia, mentre si accendeva nel Paese la vicenda dei missili Cruise e Pershing che la NATO, con l'avallo del governo italiano, intendeva installare nei pressi di Comiso. L'uccisione di Pio La Torre e Rosario Di Salvo avveniva appena otto mesi dopo l'arrivo del primo a Palermo. Quale ne era il significato? Ugo Pecchioli, responsabile del partito per il problemi dello Stato, in un'intervista su «L'Ora» del 2 maggio 1982, parlava di una decisione presa in alto, «dai burattinai della mafia, perché piena di implicazioni politiche». In una relazione interna dell'11 maggio rilevava inoltre che non poteva essere esclusa nessuna ipotesi, «neppure quella da qualche parte affacciatasi di connessioni straniere». E da allora l'argomento delle possibili convergenze, politiche e atlantiche, ha attraversato i decenni. Mancati però i riscontri, la morte di La Torre e del suo compagno di partito, addebitata in via definitiva a Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca e altri capimafia, resiste tra i segreti di Palermo e della Repubblica.
La considerazione del lavoro
politico e civile di Pio La Torre è cresciuta di molto lungo gli anni,
maggiormente per l'evoluzione, abnorme, registrata dalle narco-economie e dagli
imperi criminali. In numerosi Paesi il dirigente del PCI è riconosciuto come un
legislatore che ha anticipato i tempi, per avere inaugurato la storia delle
leggi di contrasto alla criminalità finanziaria. La Torre ebbe tuttavia una
vicenda complessa, che solo in parte è riferibile al suo impegno contro la
mafia. Egli fu, prima di tutto, un meridionalista, che dagli anni del latifondo
operò per il riscatto del Sud.
Da questa storia meno nota, o meno considerata, ma importante,
prendiamo allora le mosse, con il figlio Franco La Torre, esperto di
cooperazione allo sviluppo, per definire i percorsi del dirigente politico
assassinato, fino all'epilogo e ai perché senza risposta.
- Franco, come merita di essere ripensata oggi l'esperienza politica e di
vita di Pio La Torre? Ritieni che in questi decenni sia stato ricordato in
maniera adeguata?
Nonostante Pio La Torre, a trenta
anni dal suo omicidio, sia ricordato come un uomo politico impegnato sul fronte
antimafia, chi ha avuto la fortuna o la ventura di conoscerlo e di lavorare con
lui sin dall'inizio della sua carriera, che comincia alla fine degli anni
quaranta, sa che egli ha dedicato il suo impegno al riscatto della Sicilia, e
la lotta antimafia era uno degli strumenti per perseguire questo fine. Il punto
di vista che restringe la figura di Pio La Torre all'impegno antimafia, gli fa
quindi torto. Questo non vuol dire che sin dai primi anni egli non abbia svolto
un ruolo importante su questo terreno. Dopo la carcerazione che subì per le
occupazioni delle terre a Bisacquino, giovanissimo fu eletto al consiglio
comunale di Palermo, dove si distinse per una costante denuncia degli interessi
politico-mafiosi, legati al sacco della città. Nel corso degli anni poi la sua
facoltà di analisi del mondo mafioso andò affinandosi. È comprensibile allora
che nella memoria pubblica del nostro Paese rimangano impresse alcune conquiste
a lui associate: la legge che porta il suo nome, la definizione del reato di
associazione mafiosa, le procedure legali di confisca dei beni alla criminalità
organizzata. Limitare tuttavia il racconto della sua storia, l'analisi del suo
impegno, a questo aspetto, rischia di oscurare il dirigente politico che
operava appunto per lo sviluppo della Sicilia e del Mezzogiorno.
- Come si sono espressi in concreto il meridionalismo e l'impegno
politico di Pio La Torre? Oltre alla legge che porta il suo nome, tenuta in
alta considerazione in gran parte dei Stati dell'Europa e in altri continenti,
quali eredità civili ha lasciato al Paese?
Pio La Torre ha esercitato il suo
impegno di meridionalista in varie sedi, all'Assemblea ragionale siciliana, in
Parlamento, in seno alla Commissione Agricoltura, dove ha contribuito alla
stesura di leggi importanti per il progresso delle popolazioni meridionali. Ma
lo ha espresso in modo operativo e fattivo in momenti significativi della vita
nazionale. Fu un animatore delle battaglie contro il latifondo, per
l'applicazione della legge Gullo, da quelle fondamentali quelle del 1946-47 e
quelle del 1949-50. Nei primi anni settanta, dopo gli anni di Ciccio Franco, fu
lui a riportare il movimento sulla piazza di Reggio Calabria, con
l'organizzazione della prima grande manifestazione di sinistra, nella quale
Pietro Ingrao tenne un discorso memorabile. Nel 1980 fu ancora mio padre, a
fianco di Enrico Berlinguer, a coordinare una grande azione di solidarietà
verso le vittime del terremoto dell'Irpinia. In quei frangenti, furono la lega
delle cooperative, i giovani comunisti e le federazioni del Pci, in particolare
quelle della Toscana, le prime organizzazioni italiane a mobilitarsi, mentre
Pertini, recatosi sul luogo della tragedia, denunciava le inefficienze dello
Stato. Mi preme dire poi che fu ancora Pio La Torre, negli ultimi anni della
sua vita, a organizzare una delle più straordinarie mobilitazioni pacifiste
avvenute in Italia, contro l'installazione dei missili atomici in Europa, gli
SS20 e in particolare i Cruise e i Pershing in Sicilia, presso la base militare
dell'aeroporto di Comiso. Ecco, pure per ragioni di questo tipo, che sono
quelle che meno si conoscono, la lezione di La Torre merita di essere ricordata
e ripensata.
- Negli anni 49-50 il movimento contadino entrava in una fase molto
delicata. Emergevano tensioni significative, soprattutto con il Pci, che
considerava esaurita la fase di lotte che con l'occupazione delle terre aveva
dato avvio al «vento del sud». Le iniziative di quella stagione diedero
comunque una ulteriore spallata al latifondo siciliano, con la legge agraria
votata dall'ARS nel 1950, che obbligava alla limitazione della proprietà, oltre
che alla miglioria e alla coltivazione della terra. In quel contesto tanto
travagliato, quale fu il rapporto tra Pio La Torre, giovane sindacalista, e il
dirigente comunista Girolamo Li Causi?
Faccio riferimento alla mia
memoria, a partire dai primi ricordi, che mi riportano alla casa di Palermo
dove abitavamo. Ricordo mio padre e Girolamo Li Causi che di frequente, seduti
nel giardino, parlavano di politica. Ecco, basta questo a testimoniare che tra
loro doveva esserci un rapporto molto stretto, franco, autenticamente politico,
garantito dal prestigio, l'autorevolezza, le capacità, la dignità, il carattere
di Girolamo Li Causi. La storia ci dice tuttavia che, per ragioni di linea
politica, il loro rapporto fu attraversato pure da divergenze, in particolare
in alcuni snodi del dopoguerra. Dall'autunno 1949 alla primavera del 1950 mio
padre, allora responsabile della Federterra, e un altro giovane dirigente del
movimento democratico siciliano, Pancrazio De Pasquale, all'epoca segretario
della federazione provinciale di Palermo, ritenevano fosse il momento opportuno
per rilanciare le lotte contadine in Sicilia. E si mossero in questo senso con
determinazione. Essi non furono sostenuti però pienamente dal partito, e dallo
stesso Girolamo Li Causi, il quale, in sintonia con le scelte della direzione
nazionale, riteneva che la battaglia del mondo contadino avrebbe dovuto essere
canalizzata a quel punto nella dialettica parlamentare. Gli scritti di
Francesco Renda e di altri studiosi hanno restituito poi la verità storica su
quegli avvenimenti.
- Passiamo a un altro dettaglio. Nel 1948, dopo l'uccisione di Rizzotto,
il giovane sindacalista Pio La Torre conosceva a Corleone il giovane capitano
Carlo Alberto Dalla Chiesa. Due mondi molto distanti s'incontravano. Come e
perché questo accadeva? E quel rapporto di stima, ebbe un seguito lungo gli
anni?
L'episodio risale al 1948. Pio La
Torre s'incontrò il giovane capitano Carlo Alberto Della Chiesa a Corleone,
quando quest'ultimo, a capo della tenenza locale, svolgeva le indagini
sull'omicidio di Placido Rizzotto. Mio padre aveva appena assunto la reggenza
della camera del lavoro che fino ad allora era stata guidata dal sindacalista
ucciso. L'occasione dell'incontro fu il comizio che La Torre tenne in memoria
del giovane compagno. Finito il discorso l'allora capitano Dalla Chiesa si
presentò a mio padre, gli strinse la mano e si complimentò con lui. Era la
dichiarazione reciproca di un rispetto che si sarebbe perpetuato e consolidato
lungo gli anni. Si ritrovarono, ancora nell'isola, negli anni sessanta, quando
Dalla Chiesa assumeva l'incarico di generale comandante della legione della
Sicilia occidentale e mio padre era segretario regionale del Pci. Anche quelli
erano tempi difficili: era in atto il sacco edilizio di Palermo ed era in atto
una guerra di mafia. All'inizio degli anni ottanta infine, quando fu chiaro che
i poteri criminali avevano dichiarato guerra alle istituzioni, con l'adozione
del metodo terroristico, Pio La Torre fu tra i principali sostenitori della nomina
di Carlo Alberto Dalla Chiesa ad alto commissario per la lotta alla mafia in
Sicilia. Gli effetti di quella sollecitazione furono produttivi ma amari: il
generale si trovò a Palermo con l'incarico di prefetto il giorno successivo
all'assassinio di mio padre. Ma la nomina di alto commissario per la lotta alla
mafia dovette essere conferita al prefetto De Francesco, perché anche Dalla
Chiesa, dopo 100 giorni di servizio in Sicilia, era stato ucciso, il 3
settembre 1982.
- Gli assassinii di quegli anni sconvolsero la vita siciliana e
sgomentarono l'intero Paese. Dopo tanti anni, cosa si può dire delle ragioni di
fondo, del calcolo strategico che vi era sotteso?
Credo che occorra partire da un
dato di fatto. Dalla fine degli anni settanta la mafia riuscì a decapitare la
leadership della politica e delle istituzioni in Sicilia. In poco tempo eliminò
il capo del governo regionale, Bernardo Mattarella, il capo dell'opposizione,
Pio La Torre, il più alto rappresentante dello Stato, Carlo Alberto Dalla
Chiesa, numerosi giudici e funzionari di pubblica sicurezza. Di certo
esistevano motivi di autoconservazione. Per la prima volta nella storia della
Repubblica si stava consolidando nell'isola una leadership
politico-istituzionale coesa e determinata, con un obiettivo categorico:
sconfiggere la mafia. Le cosche avevano quindi sufficienti motivi per cercare
di impedirlo, di correre ai ripari, prima che fosse tardi. Questa penso fosse
la motivazione di carattere generale. Poi, la scelta dei bersagli, di volta in
volta, dovette essere ispirata da motivazioni specifiche. Ognuna delle vittime
costituiva un ostacolo da eliminare: Chinnici e Costa a causa delle loro
inchieste giudiziarie, Montana e Cassarà per le loro investigazioni sul
terreno, e così via. Per quanto riguarda infine la politicità dell'intera
operazione, non ho dubbi per due motivi. Il primo è che, in linea di massima, i
bersagli furono appunto politici e istituzionali. Il secondo è che, come
testimonia la storia della mafia, quando le cosche puntano a obiettivi di quel
livello, non lo fanno senza garanzie e condivisioni politiche.
- In quella stagione in Sicilia e in tutto il Paese esordiva un grande
movimento pacifista. Era la risposta democratica e unitaria alla decisione
della NATO, avallata dal governo italiano, di installare nell'isola oltre un
centinaio di missili a testata nucleare Cruise e Pershing. Pio La Torre, sceso
in Sicilia per dirigere il partito, era il maggiore animatore di questo
movimento, che assumeva presto dimensioni continentali. Dopo la sua uccisione,
da più parti, si è presa quindi in considerazione l'ipotesi di una trama
complessa, con sinergie di livello internazionale. Questa pista è ancora
sostenibile?
Numerosi analisti, in larga parte
non italiani, hanno sostenuto in effetti che una motivazione in più alla
necessità di eliminare mio padre poté derivare proprio dal suo impegno sul
fronte della pace, perché era inaccettabile che la decisione della NATO di
installare i missili in Sicilia fosse messa in discussione. All'origine, come
documentano gli storici, i missili Cruise e Pershing dovevano essere installati
nella Germania occidentale. Ma l'allora cancelliere della Repubblica Federale
Tedesca Helmut Smith si oppose con fermezza, buttando sul tavolo l'importanza
strategica della politica di apertura verso l'Est. L'installazione dei missili
nel territorio tedesco avrebbe vanificato gli sforzi di distensione di quegli
anni, che avrebbero dato peraltro risultati importanti dopo il crollo del muro
di Berlino e l'implosione del blocco sovietico. La decisione di installare i
missili atomici in Sicilia era concepita allora come definitiva e irrevocabile.
Mio padre era consapevole di questo, e sapeva, di conseguenza, che un movimento
come quello che si era formato in Europa e in Italia, che aveva assunto
proporzioni impensabili, non poteva essere tollerato dagli ambienti del patto
atlantico. Sono passati trenta anni e forse il ricordo è andato affievolendosi.
Quel movimento coinvolse milioni di persone. Solo in Sicilia furono raccolte un
milione di firme. Un siciliano su cinque appose la sua. Ogni famiglia aveva
quindi un firmatario. Tutta l'isola, o comunque la stragrande maggioranza di
essa, era contro. Se mio padre avesse avuto la possibilità di proseguire la
battaglia, la vicenda si sarebbe potuta complicare seriamente. Ed è questo il
motivo per cui la sentenza definitiva del processo sul delitto, con cui sono
stati condannati tutti i componenti della cupola mafiosa, ha lasciato aperto
uno spiraglio pure in questa direzione.
- Sono emersi indizi che portano, ancora oggi, a valorizzare questa pista
aggiuntiva? E in che modo il movente militarista e atlantico poté essersi
combinato con quello politico-mafioso, che rimane fuori discussione?
C'è un indizio che non andrebbe
sottovalutato. Mio padre, che aveva sempre fatto politica alla luce del sole,
era osservato dai servizi segreti da circa un ventennio. Dagli archivi sono
usciti rapporti dettagliati, che sono stati riportati negli atti del processo.
Poi, improvvisamente, questa attività di osservazione, si interruppe. E questo
avvenne appena quindici giorni prima dell'omicidio. Si tratta di un fatto
curioso, il cui significato non è stato mai chiarito. Il movente
politico-mafioso del delitto è assodato. Pio La Torre faceva paura alla mafia e
ai politici collusi per il suo impegno, la sua determinazione, ma più di tutto,
in quegli anni terribili, per essere stato il primo firmatario e il relatore d
una legge che segnava una svolta nelle normative di contrasto alla criminalità
organizzata. Non può essere escluso tuttavia che, in quelle particolari
circostanze, si fossero create delle sinergie aggiuntive.
- Anche sul delitto La Torre-Di Salvo si sono avuti dei depistaggi. Uno
dei più significativi è stato quello della «pista interna», con cui si è
cercato di far leva su alcune zone d'ombra del Partito Comunista in Sicilia.
Cosa si può dire oggi al riguardo?
Era appunto una pista falsa, che
è evaporata da sola. Il magistrato Giovanni Falcone la prese in considerazione
solo per scrupolo, perché il pubblico ministero ha il dovere di sottoporre a
esame qualsiasi ipotesi, anche la più inverosimile. Ma la rigettò in modo
definitivo. Indubbiamente, nel PCI dell'isola esistevano delle zone d'ombra. In
seno alle cooperative e in altri ambiti si erano sedimentati interessi di tipo
affaristico, che deturpavano la storia civile del partito. Pio La Torre ne era
a conoscenza ed era motivato a combatterli. Non può escludersi allora che
queste realtà, avvertendo i pericoli che correvano, avessero soffiato sul
fuoco. Ma non esistevano dentro il PCI le capacità organizzative e logistiche
per portare a termine e gestire un crimine di stampo mafioso di quella portata.
In conclusione, si è cercato solo di intralciare il lavoro degli inquirenti e
di disorientare l'opinione pubblica.
- L'uccisione di tuo padre era nell'aria. Enrico Berlinguer che
commemorò il suo compagno a Palermo disse che si trattava di un delitto
politico e che Pio La Torre sapeva di essere nel mirino. Lo sapeva e, come si è
venuti poi a conoscenza, ne parlava con compagni di partito e amici. Da dove
derivava questa consapevolezza?
Dopo il delitto si seppe che nei
mesi del suo soggiorno palermitano mio padre aveva ricevuto numerose telefonate
minacciose. Per la prima volta nella sua vita aveva deciso di chiedere quindi il
porto d'armi e si era dotato di una pistola, anche se non possedeva nessuna
cognizione di meccanica. E la stessa cosa aveva fatto Rosario Di Salvo. Su
suggerimento del partito mio padre aveva cambiato inoltre abitazione e aveva
suggerito al suo compagno di modificare di continuo i percorsi in auto che ogni
mattina lo portavano in ufficio, alla sede regionale del Partito. Era
consapevole in realtà che la sua vita era appesa a un filo. L'ultima volta che
incontrò Emanuele Macaluso, pochi giorni prima di essere ucciso, gli disse:
«Emanuele, la prossima volta tocca a noi».
- Dal latifondo alla Palermo dei primi anni ottanta, cioè dalla Sicilia
alla Sicilia, passando per un gran numero di vicende politiche e civili, nel
Paese. Chi era Pio La Torre al capolinea di questo lungo viaggio?
Alcuni giorni fa abbiamo visto
alcune carte di mio padre. Abbiamo trovato le tessere dell'AMAT di Palermo.
Negli anni del latifondo il partito non dava ai suoi quadri l'automobile, né
l'autista. Dava la tessera dell'autobus. Erano altri tempi. Allora Pio La Torre
era un giovane dirigente della Federterra. Nel 1981, quando decise di tornare
in Sicilia e riprendere il posto di segretario regionale che aveva occupato
negli anni sessanta, era un dirigente nazionale del Partito Comunista e un
parlamentare tra i più noti e attivi nella politica italiana. C'era di mezzo
una maturazione organizzativa di trent'anni. E fu soprattutto questo a
renderlo, in quei frangenti, un obiettivo della mafia.
- Il processo per l'uccisione di La Torre e Di Salvo si è chiuso con la
condanna degli esecutori materiali e dei componenti della cupola. Fino a che
punto si può dire che giustizia è stata fatta?
Nonostante l'impegno dei
magistrati, che è fuori discussione, non possiamo dire che, fino ad oggi,
giustizia sia stata fatta. Il pubblico ministero Nino Di Matteo, che condusse
un'inchiesta molto rigorosa, rilevò che gli elementi acquisiti lasciavano
intendere una convergenza di interessi, ma in assenza di indizi determinanti
non poté continuare l'azione penale in questa direzione. Gli input politici,
seppure impliciti e nella logica dei fatti, sono rimasti perciò fuori dal
processo. La condanna degli esecutori e dei membri della cupola rimane
ovviamente un fatto importante, ma non è tutto: avremmo voluto di più. Sono
passati trent'anni, e la situazione non è cambiata. Si può fare ancora
qualcosa? Non lo so.
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