mercoledì 26 giugno 2013

L’intervento di Caselli: “La ’ndrangheta è ormai una realtà radicata”

"La ’ndrangheta è ormai una realtà radicata”. E  sempre più spesso, come ha detto alcuni mesi orsono il giudice Antonio Ingroia, vediamo uomini non propriamente definibili "mafiosi" aver acquisito comportamenti  e modus di operare che retoricamente potremmo invece definire"mafiosi"

Fonte: La Stampa

L’intervento di Caselli: “La ’ndrangheta è ormai una realtà radicata”


Caselli al Processo Minotauro stamattina


«C’è una scarsissima sensibilità di gran parte del ceto politico e intellettuale verso un’emergenza che ha talmente attecchito nel territorio che non può essere più considerata un’emergenza ma è diventata una realtà radicata». Lo ha detto il procuratore capo di Torino, Gian Carlo Caselli, che questa mattina nell’aula bunker del carcere di Torino ha preso la parola nel processo Minotauro, contro la `ndrangheta nel torinese. Il procuratore ha parlato di «diffusa mancanza di consapevolezza anche in Piemonte» e ha sottolineato che nella lotta alla mafia «la magistratura è stata lasciata sola. Le porte per la `ndrangheta al nord - ha detto Caselli - sono rimaste spalancate e se ne è favorito l’insediamento». «Quello che l’accusa vuole dimostrare - ha spiegato il procuratore - è lo specifico dell’associazione mafiosa, l’intreccio tra gangsterismo e relazioni esterne, coperture e complicità derivanti dal reticolo di interesse mafioso».  


Processo Minotauro: la 'ndrangheta in Piemonte

IERI È INIZIATA LA REQUISITORIA DEL  PUBBLICO MINISTERO ROBERTO SPARAGNA AL "PROCESSO MINOTAURO".
NON È FORSE UN CASO CHE OGGI, ANNIVERSARIO DELL'UCCISIONE DI BRUNO CACCIA, SIA IN ATTO PROPRIO IN QUESTI MOMENTI LA REQUISITORIA DI GIANCARLO CASELLI, INCENTRATA SUI LEGAMI FRA ‘NDRANGHETA  E POLITICA.
Giancarlo caselli. foto di Simone Bauducco - ACMOS - Libera
NEL SUO INTERVENTO DI IERI, IL PUBBLICO MINISTERO ROBERTO SPARAGNA HA INIZIATO FACENDO RIFERIMENTO AD UNA INTERCETTAZIONE AMBIENTALE IN CARCERE NELLA QUALE È PROTAGONISTA GIUSEPPE CATALANO, PROPRIETARIO DEL FAMOSO "BAR ITALIA" A TRINO E MORTO SUICIDA LO SCORSO ANNO: "MI SPIACE PERCHÉ HANNO SCOPERTO QUELLO CHE ERO, QUELLA CHE ERA, QUELLA CHE È"
ROBERTO SPARAGNA HA PARLATO PER 7 ORE.
IL PUBBLICO MISISTERO SPARAGNA HA RICOSTRUITO IL CONTESTO GENERALE, L'ATTENDIBILITÀ DEI TESTIMONI E DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA. HA RIBADITO IL SIGNIFICATO DEL 416 BIS RICORDANDO LE SENTENZE DELLA CASSAZIONE CHE NE CERTIFICANO IL VALORE
HA RICOSTRUITO L'ORGANIZZAZIONE E I RAPPORTI CON LA "MADRE" IN CALABRIA.
NELLA VOLONTÀ DI FUGARE OGNI DUBBIO POSSIBILE DELLA CORTE, HA ESPLICITATO RILEVANZE, PROVE, FATTI.


Fonte: La Stampa
26/06/2013 - PROCESSO MINOTAURO

“’Ndrangheta, qui ci sono
più affiliati di quanti
sono finiti alla sbarra”

Lo dice in un’intercettazione il boss Giuseppe Catalano,
poi suicidatosi nel 2012 dopo aver lasciato una lettera

Sono iniziate nell’aula bunker delle Vallette, le requisitorie del pubblici ministeri che in 8 mesi si sono succeduti a sostenere le accuse contro settanta imputati
MASSIMILIANO PEGGIO
«Minotauro ci ha permesso di scoprire l’esistenza di 9 locali di ’ndrangheta in provincia di Torino. Se ogni locale ha almeno 40 “cristiani”, come vengono definiti in un’intercettazione gli affiliati alla struttura di Rivoli rimasta senza guida, stiamo parlando di almeno 360 persone per difetto. Molte di più di quelle finite nell’inchiesta. A Nichelino, ad esempio, sappiamo dell’esistenza di un locale, ma non siamo riusciti a identificare gli affiliati».  

Sono iniziate ieri, nell’aula bunker delle Vallette, le requisitorie del pubblici ministeri che in 8 mesi di udienze si sono succeduti a sostenere le accuse contro i 70 imputati del processo Minotauro, la più importante inchiesta sulle infiltrazioni della criminalità organizzata calabrese in Torino e provincia. 
Il fuoco di fila è stato aperto dal pm Roberto Sparagna, citando un’intercettazione ambientale fatta nel carcere delle Vallette nel 2010: riguarda due indagati eccellenti, arrestati nell’ambito dell’inchiesta della procura di Reggio Calabria che ha preceduto di un anno l’operazione Minotauro eseguita dai carabinieri del comando provinciale di Torino nell’estate del 2011. Da una parte Giuseppe Catalano, considerato il capo locale di Siderno a Torino, morto suicida nel 2012 dopo aver lasciato una lettera in cui scriveva di prendere le distanze dalla ’ndrangheta, dall’altra Francesco Tamburi, indicato come capo società di Siderno a Torino. «Catalano - dice il pm Sparagna - rivolgendosi a Tamburi afferma “mi dispiace, perché si è scoperto quello che ero, quello che era e quello che è”. Tamburi gli risponde di stare in silenzio. Ecco, in questa frase tra due personaggi non imputati in Minotauro ma molto vicini agli altri, c’è la sintesi di questo processo.  Cioè l’esistenza della ’ndrangheta a Torino». 

Poi rivolgendosi al collegio, presieduto dal giudice Paola Trovati, che alla fine del processo dovrà pronunciarsi sull’esistenza o meno di una struttura complessa di «soci criminali» e operativa sul territorio, pm ha detto: «Non avendo altre sentenze passate in giudicato da utilizzare come piedistallo, voi giudici siete chiamati a porre una pietra miliare nell’esperienza giudiziaria piemontese. Il processo farà storia, e sarà di insegnamento a tutti gli operatori del diritto».  

Fondamentali, nel processo, i collaboratori di giustizia, come Rocco Varacalli, forse il più famoso dei pentiti di ’ndrangheta, e Rocco Marando, membro di una famiglia di spicco della malavita calabrese, in parte sterminata da faide per il dominio del mercato della droga. «I pentiti sono stati genuini, sinceri, spontanei. Marando, è stato così attendibile da accusarsi persino di vari reati». Il pm ha ricordato anche intercettazioni, accertamenti patrimoniali, indagini tradizionali. «Così abbiamo scoperto quattro generazioni di affiliati che hanno agito nel territorio torinese fin dagli anni Settanta». 
Oggi è atteso il procuratore capo Gian carlo Caselli, sull’intreccio criminalità e politica.  

Nel trentennale dell'uccisione di Bruno Caccia, appello dei figli.

“Vogliamo conoscere la verità”.

LIBERA ricorda Bruno Caccia oggi alle ore 21,00  alla "Fabbrica delle e". 
Insieme ai figli del giudice assassinato, non sarà solo memoria ma la richiesta di verità e giustizia.

«I cittadini hanno diritto di conoscere la verità su ciò che è successo». È questo l’appello di Guido, Paola e Cristina Caccia, figli di Bruno Caccia - il procuratore capo di Torino ucciso il 26 giugno di trent’anni fa dalla `ndrangheta - contenuto nella lettera aperta indirizzata alla Città di Torino, che per la prima volta commemorerà l’anniversario con una cerimonia in Municipio. Una iniziativa, dicono i figli di Bruno Caccia, «che onora la memoria di nostro padre e che ci fa profondamente piacere», ma che non può ridursi soltanto a retorica: serve, sostengono, una «analisi storica». 
«Ciò che durante questi trent’anni sta diventando sempre più chiaro, è che l’assassinio di Bruno Caccia non è stato solo un gesto isolato, progettato in autonomia da un boss locale, l’unico condannato, e compiuto dalla mano di due sicari ancora oggi sconosciuti, ma è stato qualcosa di più complesso, un delitto commesso non tanto e non solo perché Bruno Caccia era un magistrato integerrimo, quanto per tutelare concretamente gli enormi interessi che dal suo operato potevano essere messi a rischio. (...) Torino è città-laboratorio, sarebbe bello che, ricordando il sacrificio di nostro padre, diventasse da quest’anno anche un laboratorio di verità».  

Bruno Caccia
Bruno Caccia aveva iniziato la sua carriera in magistratura nel 1941 nel Palazzo di giustizia torinese. Nel capoluogo piemontese rimase sino al 1964 ricoprendo la carica di Sostituto Procuratore, per poi passare ad Aosta come Procuratore della Repubblica. Nel 1967 Caccia ritornò nelle aule torinesi con l’incarico di sostituto Procuratore della Repubblica. Nominato nel 1980 Procuratore della Repubblica di Torino, si occupò di indagare sulle violenze ed i pestaggi che all'epoca puntualmente si verificavano in occasione di ogni sciopero. Come ricorda l'allora suo collega Marcello Maddalena: "Fu, nel settore, il primo segno di presenza dello Stato dopo anni di non indolore assenza". Le indagini di Bruno Caccia si indirizzarono quindi sui terroristi delle Brigate Rosse e Prima Linea e fu lui a condurre le indagini sui primi grandi scandali italiani che coinvolgevano"(...) i grandi petrolieri e i generali delle Fiamme Gialle corrotti, i politici torinesi della prima tangentopoli di Adriano Zampini, gli uomini della Fiat e le mafie trapiantate al Nord". Così Nicola Gratteri ricorda la figura di Bruno Caccia nel libro "Fratelli di sangue". 
Indagini che, come accerterà la storia processuale, dovettero rivelarsi così incisive da decretare la condanna a morte di Bruno Caccia. Ad oggi, Bruno caccia rimane l'unico giudice ucciso per mano delle mafie fuori dalle terre di Sicilia e Calabria. 
E' solo mafia? 
"Vogliamo conoscere la verità", proclamano i figli del giudice assassinato


l'assassinio di Bruno Caccia
Il 26 giugno 1983, Bruno Caccia si era recato con la famiglia fuori città rientrando a Torino soltanto nella serata. Essendo una domenica, aveva deciso di lasciare a riposo la propria scorta. La decisione facilitò il compito ai sicari della 'ndrangheta. Verso le 23,15 mentre Bruno Caccia portava da solo a passeggio il proprio cane, in via Sommacampagna  venne affiancato da una macchina con due uomini a bordo. Questi, senza scendere dall'auto, spararono 14 colpi e, per essere certi della morte del magistrato, lo finirono con 3 colpi di grazia.

Le indagini
Dapprima le indagini presero la via delle Brigate Rosse: erano quelli gli "anni di piombo" e diverse indagini di Bruno Caccia avevano riguardato proprio brigatisti. Il giorno seguente, le Brigate Rosse rivendicarono l'omicidio, ma presto si scoprì che la rivendicazione risultava essere falsa. Inoltre nessuno dei brigatisti in carcere rivelò che fosse mai stato pianificato l'omicidio del magistrato cuneese. Le indagini puntarono allora l'attenzione sui neofascisti del NAR, ma anche questa pista si rivelò ben presto infondata. L'imbeccata giusta arrivò da un mafioso in galera, Francesco Miano, boss della cosca catanese che si era insediata a Torino. Grazie all'intermediazione dei servizi segreti, Miano decise di collaborare per risolvere il caso e raccolse le confidenze del 'ndranghetista Domenico Belfiore, uno dei capi della 'ndrangheta a Torino, anch'egli in galera. Belfiore ammise che era stata la 'ndrangheta ad uccidere Bruno Caccia e il motivo principale fu che "con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare", come disse lo stesso Belfiore. Una frase inquietante al punto che i magistrati nella sentenza di condanna di colui che era diventato un referente di primo piano per le ‘ndrine calabresi in Piemonte, scriveranno «Egli [Bruno Caccia, nda], poté apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici. Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati».

A Bruno Caccia sono stati intitolati il Palazzo di Giustizia di Torino, il 26 giugno 2001, e il cascinale "Cascina Bruno e Carla Caccia" a San Sebastiano da Po, sulle colline torinesi. Il cascinale fu sequestrato proprio alla famiglia Belfiore, più precisamente a Salvatore Belfiore, fratello di Domenico, grazie alla legge 109/96.

Cascina Caccia è gestita da Libera 





venerdì 21 giugno 2013

Il procuratore Caccia ucciso dalla mafia infiltrata nei poteri forti?

E' questa la tesi di un libro sul delitto del magistrato torinese, ucciso a Torino nel 1983

Il procuratore Bruno Caccia

Fonte : LA STAMPA

ALBERTO GAINO
«La ’ndrangheta era infiltrata nei poteri forti della politica e dell’economia già trent’anni fa».  
Paola Bellone, coautrice con Sergio Leszczynski di «Il caso Bruno Caccia. La verità rivelata» si è occupata di studiare gli atti «dei processi paralleli» a quello del procuratore capo di Torino ucciso il 26 giugno 1983, i cui figli hanno chiesto la revisione del processo. «Ho letto gli atti dello scandalo dei petroli e del primo processo torinese sulle tangenti a tanti politici di primo piano. - spiega - Erano stati aperti su sollecitazione di Caccia. Dalla lettura di quegli atti emerge che la ’ndrangheta era infiltrata nei poteri forti"

Cinque sentenze  
Le cinque sentenze sul caso Caccia, compresa quella della Cassazione che annullò la precedente per difetto di motivazione sul movente del delitto, hanno rivelato tutto ciò che era dimostrabile in quel periodo. Tuttavia, a distanza di tanto tempo la nostra ricostruzione porta a dire che Domenico Belfiore (condannato all’ergastolo per l’omicidio Caccia) non è che l’ultimo mandante del delitto. Belfiore aveva tent’anni a quel tempo, e la ’ndrangheta era già gerarchizzata al suo interno. Pensare che avesse deciso di far uccidere di testa sua il procuratore capo di Torino non regge. Ricostruendo il contesto di infiltrazioni, Sergio Leszczynski e io abbiamo trovato riscontri e testimonianze significative alla nostra ipotesi». 

I magistrati  
Continua Bellone: «Comunque siano finiti i processi a carico dei magistrati (tutti prosciolti), resta il fatto che semmai per un equivoco, a purtroppo è difficile sperarlo, i calabresi credevano di avere accesso ad alcuni di loro. Quanto basta per fissare un punto importante. Indicando nel rigore di Caccia un movente per l’omicidio si fa riferimento alla sua intransigenza contrapposta alla benevola disposizione che i calabresi - a torto o a ragione - riconoscevano in altri magistrati». 

Il contesto  
Le frequentazioni di Belfiore, di altri componenti della sua famiglia mafiosa, in particolare del tesoriere Franco Gonella con magistrati torinesi fanno parte del contesto che ricorda molto ambienti siciliani: ambiguità e rapporti trasversali, silenzi e omertà. Caccia era un procuratore capo esposto come lo furono dirigenti di uffici giudiziari siciliani in quegli stessi anni. La famiglia Belfiore ha pagato a caro prezzo per il delitto Caccia in termini di perdita di potere economico: in quel periodo controllava attività fiorenti, in particolare il Banco dei pegni di piazza Carignano e la gioielleria Corsi di via Roma. Per dirla con le parole di un magistrato, non stava alla finestra. 

mercoledì 19 giugno 2013

Anche a Pinerolo puoi partecipare al riciclo dei tappi di sughero per finanziare la ristrutturazione di “Cascina Graziella”,


Facendo memoria di Graziella Campagna, anche a Pinerolo raccogliamo tappi di sughero

A partire dalle prossime ore, anche all'IperCOOP di Pinerolo saranno disponibili i contenitori per la raccolta di tappi di sughero. In Piemonte, Libera partecipa al riciclo dei tappi di sughero per finanziare la ristrutturazione di “Cascina Graziella”, una casa che accoglierà donne maltrattate situata a Moncalvo d'Asti.
Il progetto Etico della “Amorim Cork”
La Amorim Cork è una società multinazionale leader nella lavorazione del sughero e che basa la sua attività sulla sostenibilità dei processi produttivi, ponendo particolare attenzione ai diritti dei lavoratori e delle comunità. La Amorini Corke ha lanciato una campagna per la raccolta e il riutilizzo dei tappi di sughero che, riciclati, diventano materiale coibentante per l’edilizia, oggetti di arredamento e design. In Italia, tra i partner dell'iniziativa ci sono i Vignaioli Piemontesi e l'associazione Libera Piemonte. Fondamentale è anche il contributo della Cooperativa del carcere di Bollate (Milano) che vede i carcerati impegnati nello smistamento dei tappi raccolti.
Sono oltre trenta i punti di raccolta tra cantine vinicole, enoteche, i due negozi Eataly -a Torino e Pinerolo- e adesso anche l’IPERCOOP pinerolese.
 Il progetto si definisce "etico" non solo perché promuove una sensibilità ecologica ma anche perché prevede una destinazione benefica del ricavato dalla vendita dei tappi usati che Amorim non riutilizza ma cede -a titolo oneroso- ad aziende del settore edile o ad industrie del design. Tutto il ricavato viene poi destinato ad associazioni operanti nel sociale senza fini di lucro. 

Il progetto di Libera Piemonte: “Cascina Graziella”
Avviato nel giugno 2011, il progetto ha coinvolto dapprima le cantine del Veneto e quelle toscane aderenti al Consorzio Chianti Classico, in seguito ha visto l'adesione entusiastica di numerosi altri attori e nel 2012 è partita la raccolta in Piemonte. In Piemonte, si è scelto di raccogliere fondi per vedere realizzato il sogno di "Cascina Graziella", una cascina nelle campagne del Monferrato astigiano, a Moncalvo, che la magistratura ha confiscato ad un'esponente di spicco della criminalità trapanese che l'aveva acquistato con proventi illeciti di Cosa Nostra. Il bene è stato poi dato in gestione a Libera. Una volta finiti i lavori di ristrutturazione, Cascina Graziella è destinata a diventare un centro di accoglienza per donne in difficoltà, in fuga da maltrattamenti e dipendenze, e una cooperativa di lavoro (si pensa anche a un pastificio artigianale). 

La storia di Graziella Campagna

La cascina è dedicata a Graziella Campagna, una ragazza siciliana di 17 anni uccisa con cinque colpi di lupara. Graziella era nata il 3 luglio 1968 e faceva la stiratrice in una lavanderia di Villafranca Tirrena (Messina). Graziella scomparve la sera del 14 dicembre 1985, dopo essere uscita dalla lavanderia dove lavorava. Allora, il negozio era frequentato da due clienti che si presentavano come l'ingegner Toni Cannata e il geometra Gianni Lombardo, di Palermo. In realtà, i due erano Gerlando Alberti junior (nipote di Gerlando Alberti senior, braccio destro di Pippo Calò) e Giovanni Sutera, pericolosi latitanti ricercati per associazione mafiosa e traffico di droga. Da anni, abitavano in una villetta a Villafranca, a due passi dalla caserma dei carabinieri.
Il destino fa incrociare i due mafiosi con Graziella. Qualche giorno prima della sua esecuzione, la ragazza aveva trovato alcuni fogli, forse una agendina, dimenticata nei vestiti che uno dei latitanti aveva consegnati in lavanderia. Tra le mani di Graziella si aprirono pagine nelle quali erano annotati nomi, fatti, segreti che nessuno doveva conoscere. Inconsapevolmente, Graziella  era diventata una pericolosa testimone.
La sera del 14 dicembre Graziella Campagna non sale sulla corriera che la riporta a casa. Due giorni dopo, il suo cadavere viene trovato a Forte Campone, in un luogo isolato: uccisa con cinque colpi di lupara, un colpo le viene sparato sul viso. Il medico legale aveva cercato invano di impedire che Piero, il fratello carabiniere di Graziella, ne vedesse il viso sfigurato. Sarà proprio grazie a Piero, alla sua volontà di giustizia nel dare un nome agli assassini di Graziella, che i colpevoli verranno infine individuati e processati.
Racconta Piero: “Hanno fatto di tutto per depistarmi, ma non ho mai smesso d'indagare. Graziella aveva confidato a mia madre di aver trovato i documenti di Cannata, aveva capito che era un'altra persona. Tralasciarono volutamente l'indizio".  Depistaggi, collusioni mafiose, Piero viene addirittura censurato dall'Arma dei Carabinieri per aver collaborato con la Squadra Mobile.
Nel 2004, riconosciuti colpevoli dell'omicidio di Graziella Campagna, vengono condannati all'ergastolo Gerlando Alberti e Giovanni Sutera.  L’Alberti uscirà di prigione il 4 novembre 2006 per un vergognoso cavillo burocratico: il ritardo con cui è stata depositata la sentenza.
Gerlando Alberti e Giovanni Sutera saranno comunque ricondannati all'ergastolo il 18 marzo 2008 dai giudici della Corte d'Assise d'Appello di Messina. Il 18 marzo 2009 la Cassazione respinge il ricorso formulato dai due imputati e conferma definitivamente la pena dell'ergastolo ai due assassini

martedì 18 giugno 2013

IV Raduno Nazionale dei Giovani di Libera


Attraverso questo modulo puoi iscriverti al IV Raduno Nazionale dei Giovani di Libera, che si terrà dal 24 al 29 luglio a Villa Genna, in Contrada Spagnola a Marsala (TP):


Il viaggio è a carico di ciascun partecipante. Sarà garantito un servizio navetta da/per l'aeroporto di Birgi. L'alloggio è previsto con attendamento presso Villa Genna: i partecipanti dovranno portare per proprio conto le tende. Chi avesse esigenze diverse può farlo presente nella sezione note e cercheremo insieme delle soluzioni adatte.
L'arrivo a Villa Genna è previsto dalle 9.00 alle 13.00 del 24 luglio, per effettuare il check in, montare la tenda ed essere pronti in tempo per l'apertura del Rauno.
L'iscrizione al Raduno ha un costo di 70€ e include l'attendamento e tutti i pasti dalla cena del 24 alla colazione del 29 luglio. In seguito all'iscrizione saranno segnalate le modalità di pagamento della quota.

Per i minori è necessario compilare e inviare la liberatoria che sarà inviata via e-mail dopo l'iscrizione.

lunedì 17 giugno 2013

Rapporto Ecomafie: crescono illegalità e corruzione

Nel nostro paese il settore della corruzione e della illegalità non incontra crisi.



Il paese-Italia è al declino: "Impensabile come sia potuto accadere(...) Mentre una schiera di economisti arroganti e politici tremebondi lasciava sfiorire il capitale umano e produttivo del nostro paese". Così scrive Edoardo Nesi nel suo libro "Storia della mia gente"

Ma un sistema simile a quello mafioso permette fatturati miliardari a coloro che, come bestie "saprofite", vivono sottraendo ricchezze e risorse alle comunità: gli insospettabili, i colletti bianchi, la solita triade "cosche -cricche-caste" 


 

Fonte:  Libera Informazione


Rapporto Ecomafie: crescono illegalità e corruzione

di redazione il Lazio
I clan “fatturano” quasi 17 miliardi di euro// . “Va sviluppata la più attenta vigilanza da parte delle istituzioni affinché, attraverso il ricorso a tutti i più efficaci mezzi di indagine e coordinamento investigativo, sia assicurato il massimo contrasto delle attività illecite contro l’ambiente”.  Con un messaggio inviato dal Quirinale, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, fa sentire la propria voce alla presentazione annuale del Rapporto Ecomafie, curato dall’Osservatorio Ambiente e Legalità di Legambiente che si tenuta questa mattina  a Roma. Alla presentazione del rapporto presenti molti esponenti delle istituzioni, associazioni e giornalisti: il Presidente nazionale di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza e il responsabile dell’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente Enrico Fontana, il Presidente del Senato della Repubblica Pietro Grasso, il Ministro degli Interni Angelino Alfano, il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, il Ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, il presidente della Commissione Ambiente Ermete Realacci e il presidente della Commissione Giustizia Donatella Ferranti.
Quella delle ecomafie” –  ha dichiarato il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza –  ”è l’unica economia che continua a proliferare anche in un contesto di crisi generale. Semplicemente perché conviene e, tutto sommato, si corrono pochi rischi. Le pene per i reati ambientali continuano ad essere quasi esclusivamente contravvenzioni, un po’ come le multe per chi passa con il rosso, e di abbattimento degli edifici quasi sempre non si parla. Anzi, agli ultimi 18 tentativi di riaprire i termini del condono edilizio si è aggiunta la sciagurata idea di sottrarre alle procure il potere di demolire le costruzioni abusive”. Anche quest’anno le irregolarità nel ciclo del cemento – su tutte l’abusivismo – e quella della gestione dei rifiuti sono le due “voci” del rapporto ecomafie che fanno aumentare e stabilizzare il fatturato complessivo delle mafie a danno dell’ambiente e dell’economia legale. «Per combattere l’ecomafia è necessario ricostituire la Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e approvare la legge che introduce i reati contro l’ambiente nel nostro codice penale, due iniziative sulle quali mi sono attivato si dall’avvio della Legislatura» – ha osservato Ermete Realacci, presidente Commissione Ambiente Territorio e Lavori Pubblici della Camere.  «La vera piattaforma per combattere la criminalità penso oggi debba essere la Calabria che insieme all’area di Caserta, la cosidetta Terra dei fuochi, ha bisogno di un segnale forte di presenza dello Stato» – afferma il ministro Andrea Orlando parlando di reati contro l’ambiente nel corso della presentazione del rapporto. «Lì, in quei luoghi, c’è stata un’evoluzione di illegalità ambientale – osserva Orlando – e la forza criminale sul territorio significa che c’è debolezza dello Stato. Serve un rafforzamento dei controlli – aggiunge – dopo esserci andato all’inizio del mio mandato giovedì tornerò là, per annunciare anche qualche iniziativa con la collaborazione di Legambiente». Per il ministro «la rimonta dello Stato, in questi territori spogliati della legalità, non si realizza solo con una visita o con un decreto ma con la costanza e la presenza». Si sta preparando, fa sapere Orlando, un gruppo di lavoro su questi temi che opererà in sinergia con gli altri interlocutori coinvolti.

I numeri del rapporto. Cresce l’incidenza dell’abusivismo edilizio e soprattutto la piaga della corruzione con il raddoppio delle denunce e degli arresti. Un giro di affari che si attesta sui 17 miliardi di euro. Questa la fotografia scattata  nel rapporto ecomafie, prefazione di  Carlo Lucarelli ed edito da Edizioni Ambiente, in merito alle illegalità ambientali nel nostro Paese. Nel mercato delle costruzioni abusivismo e illegalità ha portato un aumento di incidenza che va dal 9% del 2006 al 16,9% stimato per il 2013. Mentre le nuove costruzioni legali sono crollate da 305.000 a 122.000, quelle abusive hanno subito una leggerissima flessione: dalle 30.000 del 2006 alle 26.000 nel 2013. Variano, chiaramente i costi di mercato, quindi  a fronte di un valore medio del costo di costruzione di un alloggio con le carte in regola pari a 155.000 euro, quello illegale si realizza con un terzo dell’investimento, esattamente 66.000 euro. Una ondata di cemento abusivo  si è abbattuta sul nostro paese: dal 2003 al 2012 sono state 283.000 le nuove case illegali, con un fatturato complessivo di circa 19,4 miliardi di euro. Ma la criminalità ambientale, oltre a coltivare i soliti interessi, sa anche cogliere tutte le nuove opportunità, offerte dall’economia: l’Ufficio centrale antifrode dell’Agenzia delle dogane segnala che i quantitativi di materiali sequestrati nei nostri porti nel corso del 2012 sono raddoppiati rispetto al 2011, passando da 7.000 a circa 14.000 tonnellate grazie soprattutto ai cosiddetti cascami, cioè materiali che dovrebbero essere destinati ad alimentare l’economia legale del riciclo, che invece finiscono in Corea del Sud (è il caso dei cascami di gomma), Cina e Hong Kong (cascami e avanzi di materie plastiche, destinati al riciclo o alla combustione), Indonesia e di nuovo Cina per carta e cartone, Turchia e India, per quelli di metalli, in particolare ferro e acciaio. Sotto il profilo dei reati tracciabili Legambiente conta 34.120  reati, 28.132  persone denunciate, 161 ordinanze di custodia cautelare, 8.286 sequestri, per un giro di affari di 16,7 miliardi di euro gestito da 302 clan, 6 in più rispetto a quelli censiti lo scorso anno. La “tradizionale classifica delle illegalità ambientali” colloca il  45,7% dei reati nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Sicilia, Calabria e Puglia) seguite dal Lazio, con un numero di reati in crescita rispetto al 2011 (+13,2%) e dalla Toscana, che sale al sesto posto, con 2.524 illeciti (+15,4%). Prima regione del Nord Italia, la Liguria (1.597 reati, +9,1% sul 2011). Da segnalare per l’incremento degli illeciti accertati anche il Veneto, con un +18,9%, e l’Umbria, passata dal sedicesimo posto del 2011 all’undicesimo del 2012. Crescono nel 2012 anche gli illeciti contro gli animali e la fauna selvatica (+6,4% rispetto al 2011), sfiorando quota 8mila, a una media di quasi 22 reati al giorno e ha il segno più anche il numero di incendi boschivi che hanno colpito il nostro paese: esattamente +4,6% rispetto al 2011, un anno orribile per il nostro patrimonio boschivo dato che aveva fatto registrare un picco del 62,5% rispetto al 2010. È la Campania a guidare anche quest’anno la classifica dell’illegalità ambientale nel nostro paese, con 4.777 infrazioni accertate (nonostante la riduzione rispetto al 2011 del 10,3%), 3.394 persone denunciate e 34 arresti. Posizione che la vede capofila sia per il ciclo dei rifiuti che per quello del cemento. Per quel che riguarda il “Made in Italy” in particolare della filiera alimentare sono stati accertati  ben 4.173 reati penali, più di 11 al giorno, con 2.901 denunce, 42 arresti e un valore di beni finiti sotto sequestro pari a oltre 78 milioni e 467.000 euro. Per quanto riguarda la tutela del nostro patrimonio culturale alla minaccia dei clan si sommano altri interessi criminali: secondo l’Istituto per i beni archeologici e monumentali del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibam-Cnr), la perdita del patrimonio culturale ci costa circa un punto percentuale del Pil, calcolando il solo valore economico e non anche quello culturale che non può essere calcolato. Nel corso del 2012 le forze dell’ordine hanno accertato 1.026 furti di opere d’arte (891 a opera dei carabinieri del Comando tutela patrimonio culturale), quasi tre al giorno, con 1.245 persone indagate e 48 arrestate; e ancora 17.338 oggetti trafugati e ben 93.253 reperti paleontologici e archeologici recuperati, per un totale di oltre 267 milioni di euro di valore dei beni culturali sequestrati.
Corruzione, fenomeno in crescita. Secondo la relazione al Parlamento della Dia relativa al primo semestre 2012, le persone denunciate e arrestate in Italia per i reati di corruzione sono più che raddoppiate rispetto al semestre precedente, passando da 323 a 704. In Campania 195 persone denunciate e arrestate, segue la Lombardia con 102 casi e la Toscana a quota 71, solo dopo  Sicilia (63), Basilicata (58), Piemonte (56), Lazio (44) e Liguria (22). Dal primo gennaio 2010 al 10 maggio 2013, sono state ben 135 le inchieste relative alla corruzione ambientale, in cui le tangenti, incassate da amministratori, esponenti politici e funzionari pubblici, sono servite a ‘fluidificarè appalti e concessioni edilizie, varianti urbanistiche e discariche di rifiuti. La Calabria è, per numero di arresti eseguiti (ben 280), la prima regione d’Italia, ma a guidare la classifica come numero d’inchieste è la Lombardia (20) e al quinto posto della classifica, dopo Campania, Calabria e Sicilia, figura la Toscana. Nel corso del 2012 il numero dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa è salito a 25 (erano 6 nel 2011), il record nell’ultimo anno.

mercoledì 12 giugno 2013

Processo Pioneer : la 'ndrangheta in Piemonte è anche edilizia e grandi opere

Oltre al processo "Minotauro", così denominato dal nome della imponente operazione portata a termine dalla procura torinese nel giugno 2011, a Torino ieri è stata emessa la sentenza del processo "Pioneer". Ancora una volta , la sentenza mette in evidenza come l'edilizia sia uno dei settori privilegiati dalle mafie per il riciclaggio del "denaro sporco". 
Riportiamo la notizia della sentenza ma soprattutto un articolo de "Il Fatto Quotidiano", pubblicato il 2 marzo 2012, nel quale si spiega chi siano i due imputati, capaci di avere appalti in opere di primaria importanza quali le passate Olimpiadi Invernali 2006 e i lavori legati alla realizzazione della TAV

Fonte : LA Stampa 12 giugno 2013
Processo Pioneer, due condanne . Chiuso il processo sulla presenza dell ’ndrangheta in Piemonte
Due condanne hanno chiuso a Torino il processo «Pioneer» sulla presenza della `ndrangheta in Piemonte. I giudici hanno inflitto a Ilario D’Agostino 8 anni e 6 mesi di reclusione, e 6 anni e 6 mesi a Francesco Cardillo: i due sono stati processati in una causa che riguardava una presunta attività di riciclaggio in attività edilizie ed immobiliari di denaro della cosca calabrese di Antonio Spagnolo di Ciminà. A sostenere l’accusa in aula i pm Roberto Sparagna e Antonio Rinaudo.

Fonte : Il Fatto Quotidiano - 1 marzo 2012

‘Ndrangheta in Piemonte, confische per dieci milioni. “Riciclaggio in Olimpiadi e Tav”

La Dia mette i sigilli a una serie di immobili, anche in Lombardia e in Calabria, per riciclaggio dei profitti del narcotraffico. Il gruppo riconducibile a Ilario D'Agostino e Francesco Cardillo ha ottenuto commesse nelle grandi opere, dall'Alta velocità in Val Susa ai Giochi invernali del 2006, al porto di Imperia


Sorveglianza speciale e confisca milionaria per la ‘ndrangheta imprenditrice in Piemonte, Lombardia e Calabria. La Direzione investigativa antimafia di Torino ha posto questa mattina i sigilli su terreni, ville, abitazioni, locali adibiti ad esercizi commerciali, fabbricati in provincia di Torino, Cuneo, Asti, Milano (Legnano) e in Calabria (Caulonia e Riace) e contanti (un tesoretto di 150 mila euro) per un valore superiore ai 10 milioni di euro. I beni confiscati sono riconducibili a Ilario D’Agostino e Francesco Cardillo, secondo gli inquirenti esponenti della ‘ndrangheta incaricati di riciclare negli appalti e nel settore immobiliare i soldi sporchi del narcotrafficante calabrese Antonio Spagnolo, boss di Ciminà. Nell’ottobre 2009, alla data del loro arresto nell’ambito dell’operazione Pioneer, in cui è stata sequestrata la società Ediltava, “cassaforte” del gruppo, il Procuratore della Repubblica di Torino Gian Carlo Caselli ha parlato della “più importante operazione antiriciclaggio mai realizzata in Piemonte”.
Secondo le ricostruzioni della Dia, il gruppo è riuscito a riciclare milioni di euro anche in importanti commesse pubbliche inserite tra le opere realizzate per le Olimpiadi invernali di Torino 2006, la Tav e il porto di Imperia. La “lavatrice” era azionata attraverso il lavoro nero e un sistema di false fatturazioni: gli operai, per la stragrande maggioranza calabresi legati alle famiglie della ‘ndrangheta, venivano prima assunti regolarmente e poi licenziati perché continuassero a lavorare in nero, mentre le fatture “gonfiate” venivano emesse all’interno di un reticolo che metteva in relazione le società paravento del gruppo con altre società satellite. Un modello complesso che richiedeva la consulenza di un colletto bianco, il commercialista Giuseppe Pontoriero, che imputato con Cardillo e D’Agostino nel processo Pioneer, per i fatti relativi alla confisca odierna, ha scelto la via del patteggiamento.
I beni confiscati sono riconducibili alle società “Ediltava srl”, “Italia costruzioni srl” e “Domus Immobiliare srl”, tutte facenti capo a Ilario D’agostino e al nipote, Cardillo, considerato una “consapevole” spalla degli affari imprenditoriali e immobiliari dello zio.
Ma chi è l’imprenditore D’agostino, capace in Piemonte di penetrare gli appalti “blindati” delle Olimpiadi invernali?
Ilario D’agostino, attualmente in carcere con l’accusa di associazione mafiosa in seguito all’Operazione Minotauro, la maxi operazione contro la ‘ndrangheta del giugno scorso, già arrestato (e assolto) nel 1988 in Calabria per sequestro di persona, violenza privata, lesioni personali e detenzione illegale di armi, indagato dalla Procura di Torino per narcotraffico nel 1994 (poi archiviato), ha intrattenuto comprovati rapporti con il boss calabrese Rocco Lopresti, deus ex machina dell’edilizia in Val di Susa e all’origine dello scioglimento del Comune di Bardonecchia nel 1995 per condizionamento mafioso.
Condannato nel 2002 dalla Corte d’Appello di Torino alla pena di tre anni e 4 mesi di reclusione per l’importazione di 250 chilogrammi di hashish dalla Spagna, è stato rinviato a giudizio per riciclaggio, aggravato dal favoreggiamento alla ‘ndrangheta, insieme al nipote Francesco Cardillo e al commercialista Pontoriero.
Secondo gli inquirenti D’Agostino coltiva numerosi legami con esponenti dalla ‘ndrangheta, a partire da Antonio Spagnolo, boss di Ciminà, di cui secondo le ricostruzioni degli inquirenti è incaricato di riciclare il denaro. Ma anche con Bruno Polito, Pietro Guarnieri, Nicola Polito, Pasqualino Marando, Cosimo Salerno, Peppe Aquino e soprattutto Cosimo Barranca, uno dei capi riconosciuti della ‘ndrangheta milanese.
Secondo il pentito Rocco Varacalli «è il contabile di Antonio Spagnolo, è affiliato alla ’ndrangheta di Ciminà ed è un imprenditore edile». Le sue imprese servirebbero «per far girare e riciclare i soldi di Spagnolo e coprirne il lavoro sporco».
“Questa confisca arriva dopo un lungo dibattimento – spiega il procuratore aggiunto Alberto Perduca – dimostrazione che le misure di prevenzione hanno oggi valore ed efficacia come strumento per colpire i patrimoni di origine sospetta, posseduti da persone socialmente pericolose e fortemente sospettate di appartenere a sodalizi criminali. La Procura di Torino si è attrezzata con un pool apposito. Nel 2011″, continua Perduca, “sono state presentate 25 proposte di prevenzione, di cui la metà per misure patrimoniali, con un sostanziale incremento rispetto al passato. Destinato ad aumentare ulteriormente”.


martedì 11 giugno 2013

Miele e orti per bambini nelle cascine confiscate alla mafia


L'impegno nel riutilizzo dei beni confiscati alle mafie è uno dei cardini dell'attività di LIBERA. I beni confiscati alle mafie in Piemonte comprendono 168 immobili e 13 aziende. Fra questi, "Cascina Caccia " a san Sebastiano da Po e "Cascina Arzilla" a Volvera

Fonte: La Repubblica Torino

Tanto miele e orti per bambini
nelle cascine confiscate alla mafia

A San Sebastiano Po e a Volvera due dei casali sottratti ai boss ospitano le attività di Libera. "Vogliamo dimostrare che la legalità produce lavoro, anche se non potrà mai eguagliare i proventi delle attività illegali"

di ROSITA FATTORE e GIORGIO RUTA 

Nella collina più alta di San Sebastiano da Po, 30 chilometri da Torino, viveva il boss Domenico Belfiore e la sua famiglia. Oggi quella stessa cascina che ospitava summit della 'ndrangheta è diventata un'opportunità di lavoro per cinque ragazzi dell'associazione Acmos: producono miele, ospitano matrimoni, organizzano corsi di pittura e accolgono studenti per iniziative educative.
Nella cantina hanno aperto una mostra. Ci sono più di 900 faldoni polverosi, ognuno rappresenta un morto ammazzato dalla mafia. Su uno di questi c'è scritto "Bruno Caccia". E proprio al magistrato ucciso dalla 'ndrangheta a Torino  e alla moglie Carla è intitolata la cascina. 



I Belfiore arrivarono in Piemonte dalla Calabria negli anni '60. Domenico, uno dei figli, si impose ben presto nel traffico di droga e nel gioco d'azzardo. Ma qui per tutti era una famiglia rispettabile: dal paese salivano per andare a fare il pane nel forno di questo fortino circondato da un ettaro di terra. 
Noemi laureata in architettura vive e lavora qui con Matteo, il suo ragazzo. Condividono la casa con Valeria, Marco e Enzo e il cane Cenere. Hanno tutti 27 anni, tranne Enzo che ne ha 35. 
Noemi ci fa da guida: "Produciamo una tonnellata di miele l'anno. L'idea è venuta al mio ragazzo che ha studiato agraria. Abbiamo 44 famiglie di api e presto speriamo di averne di più per entrare nei circuiti della grande distribuzione". Ci sono altri animali: asini, galline, papere, capre. Oltre
allo spazio dedicato alle mostre, i ragazzi di Acmos hanno allestito una sala per le feste in quello che una volta era il fienile e garantiscono 30 posti letto per i campi estivi.
Il bene è stato confiscato nel '98 a Salvatore Belfiore, fratello di Domenico. Nel 2007 la cascina è stata affidata ad Acmos. "Abbiamo lavorato molto per rendere di nuovo utilizzabile questo luogo. La famiglia nonostante la confisca è rimasta a vivere qui fino al 2006 e, poi, prima di andarsene ci ha fatto un bel regalo: ha distrutto tutto", racconta Noemi. 



A Volvera, 70 chilometri da San Sebastiano da Po, un'altra cascina. L'hanno chiamata Arzilla quando nel 2010 è stata riaperta. Era proprietà di Vito Riggio, narcotrafficante. Lui voleva abbatterla e costruirci delle villette. La magistratura arrivò prima. Oggi più di dieci ragazzi animano questo spazio. Elena, 25 anni studente di Scienze sociali a Torino, è la responsabile. Corre da un punto all'altro della cascina per far andare tutto al meglio. Ci sono più di cento bambini che disegnano, curano l'orto con piccole zappe, e intanto imparano che cos'è la mafia. "Tenendo aperta questa struttura abbiamo voluto fare un regalo al territorio  -  spiega Elena  -  è un luogo per tutti i cittadini di Volvera, il simbolo della condivisione e della legalità. E soprattutto oggi è davvero arzilla e non è più una proprietà frutto della droga". 
Maria José Fava è la referente regionale di Libera. Insieme ad altri volontari ha fatto una mappatura dei beni confiscati alle mafie in Piemonte: 168 immobili e 13 aziende.  "Quasi tutti sono già stati assegnati  -  spiega Maria Josè  -  ora punteremo sul riutilizzo delle imprese. Dimostrare che la legalità produce lavoro è molto importante. Anche se non è facile realizzare utili con attività che prima prosperavano a grazie a proventi illegali".

lunedì 10 giugno 2013

Processo Minotauro. Dopo il suicidio boss della 'ndrangheta Giuseppe Catalano, ai domiciliari dopo essersi dissociato, il suicidio del figlio Cosimo

Fonte : La Repubblica

'Ndrangheta, giù dal cavalcavia

un altro imputato del processo Minotauro

Cosimo Catalano, 40 anni, era imputato in quanto esponente della criminalità calabrese a Torino. Il corpo rinvenuto sotto un viadotto che sovrasta la Torino-Pinerolo. Anche il padre si era suicidato




Un altro morto, probabilmente un suicidio, nella vicenda Minotauro. Dopo che l'anno scorso si era già ucciso il boss della 'ndrangheta Giuseppe Catalano, ai domiciliari dopo essersi dissociato, questa mattina, poco prima delle sette, si è tolto la vita anche il figlio Cosimo di 40 anni. L'uomo si è gettato dal ponte del cavalcavia che sovrasta la Torino-Pinerolo. Cosimo Catalano era imputato nel processo Minotauro in quanto esponente della criminalità di Siderno a Torino. Il corpo ormai privo di vita è stato rinvenuto poco dopo dalla polizia stradale. 
Circa un anno fa, suo padre, Giuseppe Catalano, che allora aveva 70 anni, si era suicidato anche lui, a Volvera, gettandosi dal balcone della casa, dove si trovava agli arresti domiciliari. Ritenuto uno dei boss della 'ndrangheta in Piemonte, capo del "crimine" a Torino, aveva da poco ottenuto una misura di custodia cautelare più leggera dopo un anno e dieci mesi trascorsi nel carcere di Monza. Queste le parole che aveva scritto in una lunga lettera al presidente della Quinta Sezione penale del tribunale di Torino. "Sono vecchio, stanco e malato. Non posso negare le accuse che mi sono rivolte. Appartengo da anni all'organizzazione criminale che voi chiamate 'ndrangheta. Non rinnego il mio passato ma ora sono stanco e credo non mi resti più molto da vivere. Quel poco che mi resta voglio viverlo in pace. Mi dissocio da quello che ho fatto in questi anni. Non dirò nulla contro gli altri che sono imputati con me in questo processo, Non sono un infame. Ma sono troppo stanco per continuare a vivere in questo modo...".
"Quello di Cosimo Catalano è un suicidio connesso all'aggressione al patrimonio di famiglia". E' il parere di Carlo Romeo, il legale che difendeva nel processo Minotauro l'imputato. "Per ora - precisa il legale - non posso aggiungere altro perchè si tratta di una questione molto delicata". La famiglia Catalano era stata colpita lo scorso anno - dopo il suicidio del padre di Cosimo, Giuseppe, ritenuto il boss della locale di Siderno in Piemonte - dal sequestro anticipato dei beni finalizzato alla confisca. La misura di prevenzione era stata disposta dal tribunale su richiesta della procura.


Riportiamo una intervista a Giancarlo Caselli pubblicata  il 22 aprile scorso

Molti boss della 'ndrangheta trovano rifugio in

Piemonte: significa che hanno appoggi"

Il procuratore Giancarlo Caselli mette in guardia dopo l’arresto a Castelnuovo di Strangio, uomo di spicco dei clan calabresi

di SARAH MARTINENGHI
 
Dall'Aspromonte alla Pianura Padana, da San Luca a Castelnuovo Scrivia. Non è un caso se l'hanno preso qui in Piemonte. E non è una coincidenza che Sebastiano Strangio il boss della 'ndrangheta considerato uno dei mandanti della strage di Duisburg, abbia trovato rifugio proprio nell'Alessandrino. "Perché in Piemonte, come in Calabria  -  lo dice il procuratore capo Giancarlo Caselli  -  c'è una rete di protezione che li fa sentire al sicuro". E l'arresto di Strangio non è il primo caso.


Procuratore Caselli perché il boss Strangio ha scelto il Piemonte per la sua latitanza?
"Non è un buon segno. E Strangio non è certo il primo: l'11 marzo scorso Vincenzo Femia è stato arrestato in Val di Susa, nell'aprile 2011 è stato preso Giorgio Demasi, detto 'U' Mungianisi", capo della locale di Gioiosa Ionica: era gestito qui in Piemonte da Rocco Schirripa. Nell'aprile 2009 fu arrestato nel nostro territorio Francesco Coluccio, che è stato scarcerato alcuni mesi fa, ucciso e trovato carbonizzato: anche lui era gestito da alcuni imputati del processo "Minotauro". Lo stesso Varacalli durante un recente e poi rientrato periodo di latitanza aveva scelto la protezione di alcuni parenti a Volpiano.Perché il Piemonte? Perché evidentemente anche da noi esiste una rete di protezione".

E' meglio per un boss nascondersi al Nord che in Calabria, dunque?
"Forse hanno la convinzione o la percezione che anche qui possono stare tranquilli. Sanno di poter contare sulla protezione di personaggi fidati essendo della loro stessa organizzazione. La latitanza generalmente è sempre stata vissuta in Calabria perché per loro lì c'è una situazione di relativa sicurezza. Però sempre più frequentemente quando poi vengono catturati si scopre che si nascondevano anche da noi. Tutto questo vorrà dire qualcosa.."

Che cosa, ad esempio?
"Rocco Marando, con le sue rivelazioni ha permesso di individuare 7 bunker in Calabria: 7 in un colpo solo significa che forse giù non si sentono più così sicuri. Allora cercano altre zone in cui nascondersi
che abbiano requisiti di sicurezza non inferiori, cioè che assicurino una rete di gestione che dia loro tutto l'appoggio di cui hanno bisogno".

Nell'Alessandrino, avevate sferrato un duro colpo alla 'ndrangheta con l'operazione Albachiara. In primo grado un giudice ha ritenuto di prosciogliere gli imputati. Questo arresto proprio in quella zona è un ulteriore segnale che avevate ragione?
"Questa sentenza l'abbiamo appellata e aspettiamo l'esito. Registriamo però che la corte d'Appello in un ricorso contro alcuni sequestri di beni di imputati in Albachiara, ha ritenuto che fossero validi e ci fossero tutti gli estremi dell'associazione mafiosa. A proposito dell'arresto di Strangio, io mi limito a osservare: se un personaggio di questo spessore sceglie quel posto significa che lì qualcosa che gli dà fiducia c'è. Non serve alla mafia ammazzare tutti i giorni, per dimostrare di esistere".

Come si caratterizza la 'ndrangheta al Nord?
"La pericolosità non va misurata sul rumore, sul clamore mediatico e imprese eclatanti, esibite con protervia. La mafia silente è persino più pericolosa perché è quella che meglio intreccia rapporti, crea una piattaforma di legami per crescere sempre di più".

Minotauro sta infatti svelando un fitto intreccio anche con la politica...
"Senza fare riferimento a casi specifici: è nel dna della mafia, della 'ndrangheta in particolare, non commettere solo omicidi, estorsioni, e traffico di droga, ma avere anche relazioni con "pezzi" del mondo degli affari, della politica e dell'amministrazione: è una rete di potere quella che creano, non esibita più di tanto. Ma dovrebbe essere avvertita, conosciuta ed evitata dai pezzi di mondo legale agganciati: certe cose non si possono non sapere, eppure c'è chi continua a negare nel modo più ostinato".
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