lunedì 26 febbraio 2018

Questa sera a Pinerolo Salvatore Borsellino racconta "Il sogno di Paolo"

Questa sera , alle ore 20.30, al Teatro Incontro , Salvatore Borsellino racconta "Il sogno di Paolo". Lo scorso anno Salvatore Borsellino così scriveva: (...)Venticinque anni e nelle orecchie ancora la voce di mia madre che dice a me e a mia sorella Rita, mentre ancora ha nello orecchie il boato dell’esplosione che le portava via il figlio, “Andate dappertutto, dovunque vi chiamano, a parlare del sogno di Paolo, fino a che qualcuno parlerà di Paolo e del suo sogno vostro fratello non sarà morto. 
Venticinque anni e nel cuore una sola certezza: che il sogno di Paolo non morirà mai, perché era soltanto un sogno d’amore. E non potranno mai intentare una bomba che uccida l’amore»”.
Fra i sogni di Paolo Borsellino c'era certamente quello di rendere più giusta la sua terra, la Sicilia, e l'Italia, il paese nel quale si trovava a vivere la sua esperienza di uomo e giudice onesto. Qualcuno ha detto di Paolo Borsellino, come di Giovanni Falcone, e dei tanti che hanno sacrificato la loro stessa vita per rendere questo paese più giusto: "non eroi ma un esempi". Esempi, "maestri di vita" Paolo Borsellino come Giovanni Falcone, che tante lezioni hanno ancora da trasmettere alle nostre coscienze.
Intiamo a partecipare all'incontro di questa sera: "Il Sogno di Paolo"

Lo scorso anno Salvatore Borsellino: «Venticinque anni, ed è come se fosse successo solo ieri.Venticinque anni, la voce di mia moglie che mi chiama e mi dice: “Corri perché stanno dicendo alla televisione di un attentato a Palermo”. Ed io che non ho bisogno di correre perché da 57 giorni tutti sappiamo quello che sarebbe successo.Venticinque anni e un volo verso Palermo che dura quanta una vita, con la speranza che quelle notizie non siano vere, che mio fratello sia ancora vivo. E invece all’arrivo la voce di mia madre, al telefono, che mi dice: “Tuo fratello è morto”.




Venticinque anni ed è come se fosse successo solo ieri, venticinque anni e le ferite che continuano a sanguinare, venticinque anni ed è come se tutti gli orologi si fossero fermati con le lancette su quell’ora del 19 luglio, come l’orologio nella sala d’aspetto della stazione di Bologna si fermò a segnare l’ora in cui tante vite erano state spezzate su quel treno.
Venticinque anni e i ricordi di milioni di persone si sono fermati come cristallizzati sulla scena di quello che stavano facendo in quel giorno e a quell’ora, un ricordo fermo, immobile, che non potrà mai essere cancellato.
Venticinque anni e non puoi più dimenticare, perché tuo fratello è andato in guerra ma ad ucciderlo non è stato il fuoco del nemico che era andato a combattere, ma il fuoco di chi stava alle sue spalle, di chi avrebbe dovuto proteggerlo, di chi avrebbe dovuto combattere insieme a lui.
Venticinque anni e non c’è tempo per piangere, non è tempo di lacrime perché é solo tempo di combattere per la Verità e per la Giustizia, per quella Giustizia che viene invece irrisa, vilipesa, calpestata da un depistaggio durato per l’arco di ben tre processi. Un depistaggio ordito da pezzi deviati dello Stato, ma avallato da magistrati che se ne sono resi complici, che avrebbero dovuto rigettarlo tanto era inverosimile che potesse essere stato affidato ad un balordo di quartiere il compito di uccidere Paolo Borsellino.(...)Venticinque anni e nelle orecchie ancora la voce di mia madre che dice a me e a mia sorella Rita, mentre ancora ha nello orecchie il boato dell’esplosione che le portava via il figlio, “Andate dappertutto, dovunque vi chiamano, a parlare del sogno di Paolo, fino a che qualcuno parlerà di Paolo e del suo sogno vostro fratello non sarà morto”.
Venticinque anni, e non so quanti anni ancora per obbedire, fino all’ultimo giorno della mia vita, al giuramento fatto a mia madre.
Venticinque anni e nel cuore una sola certezza: che il sogno di Paolo non morirà mai, perché era soltanto un sogno d’amore. E non potranno mai intentare una bomba che uccida l’amore».

domenica 11 febbraio 2018

A Sanremo , Favino recita un monologo tratto da "La notte poco prima delle foreste": una voce dai tanti che non hanno (più) voce

"La notte poco prima delle foreste", La nuit juste avant les forêts, è un atto unico del drammaturgo e regista francese Bernard-Marie Koltès. L'opera teatrale è stata scritta nel 1977 ma, come dimostra l'effetto emotivo che ha suscitato il testo, il monologo letto da Pierfrancesco Favino sul palco di Sanremo, parla alle donne e agli uomini di oggi, di ogni  tempo, dimostrando il significato della vera Arte: costruire immagini nuove, scoprire mondi nuovi, per fissare un'emozione, un valore, che parla alle donne e agli uomini di tutti i tempi. Nelle parole recitate dal Pierfranco Favino, ognuno di noi ha potuto riconoscere i drammi delle moltitudini scacciate dalla propria terra da guerre, politiche predatrici, miseria e fame,- Moltitudini costrette a varcare deserti, steppe, foreste e mari, per giungere semmai si può raggiungere, in un luogo in cui sia possibile la speranza di una vita migliore. 
Parole, quelle recitate da Pierfrancesco Savino, che sono una voce  dai tanti che non hanno più voce ma che avrebbero forse tante cose da raccontare alle vite di ciascuno, in un misto di rabbia, disperazione, solitudine che si vorrebbe rompere, speranza che si vorrebbe ricostruire. magari  sentendosi più vicini  e responsabili delle sorte di chi ci sta accanto e che inceve troppe volte sentiamo "estraneo, diverso, nemico".


Il testo nel monologo
Bisognerebbe stare dall’altra parte senza nessuno intorno, amico mio
quando mi viene di dirti quello che ti devo dire,
stare bene tipo sdraiati sull’erba, una cosa così
che uno non si deve più muovere con l’ombra degli alberi.
Allora ti direi: ‘qua ci sto bene, qua è casa mia, mi sdraio e ti saluto’.
Ma qua, amico mio, è impossibile, mai visto un posto dove ti lasciano in pace e ti salutano.
Ti dobbiamo mandare via, ti dicono, vai là, tu vai là
vai laggiù, leva il culo da là
e tu ti fai la valigia, il lavoro sta da un’altra parte,
sempre da un’altra parte che te lo devi andare a cercare,
non c’è il tempo per sdraiarsi e per lasciarsi andare, non c’è
il tempo per spiegarsi e dirsi ‘ti saluto’.
A calci in culo ti manderebbero via, il lavoro sta là, sempre più lontano, fino in Nicaragua.
Se vuoi lavorare, ti devi spostare, mai che puoi dire ‘questa è casa mia e ti saluto’
tanto che io quando lascio un posto ho sempre l’impressione che quello sarà casa mia,
sempre di più di quello in cui vado a stare.
Quando ti prendono a calci in culo di nuovo, tu te ne vai di nuovo
là dove te ne vai sei sempre più straniero, sempre meno a casa tua.
E quando ti prendono a calci in culo, tu te ne vai di nuovo
quando ti giri a guardarti indietro, amico, è sempre il deserto.
Fermiamoci una buona volta e diciamo ‘Andate a fanculo’
io non mi sposto più, voi mi dovete stare a sentire
se ci sdraiamo una buona volta sull’erba e ci prendiamo tutto il tempo
che tu racconti la tua storia, quelli venuti dal Nicaragua
che ci diciamo che siamo tutti, più o meno stranieri
ma che adesso basta, stiamo a sentire, tranquilli, tutto quello che ci dobbiamo dire
allora sì che capisci che a loro non gliene frega un cazzo di noi.
Io mi sono fermato, ho ascoltato, mi sono detto: ‘Io non lavoro più’
finché non ve ne frega un cazzo di me.
A che serve che quello del Nicaragua viene fino qua e che io vado a finire laggiù
se da tutte le parti la stessa storia.
Quando ho lavorato ancora, ho parlato a tutti quelli presi a calci in culo che sbarcano qua
per trovare lavoro e loro mi sono stati a sentire.
Io sono stato a sentire quelli del Nicaragua che mi hanno spiegato com’è da loro
Laggiù c’è un vecchio generale, che sta tutto il giorno e tutta la notta al bordo di una foresta
gli portano da mangiare perché non si deve spostare
che spara su tutto quello che si muove
gli portano le munizioni quando non ce ne ha più.
Mi parlavano di un generale coi suoi soldati che circondano la foresta
tutto quello che si muove diventa un bersaglio
tutto quello che compare al bordo della foresta
tutto quello che notano che non c’ha lo stesso colore degli alberi
e che non si muove allo stesso modo
Io sono stato a sentire tutto questo e mi sono detto che da tutte le parti è la stessa cosa
più mi faccio prendere a calci in culo e più sarò straniero
loro finiscono qua e io finirò laggiù
laggiù dove tutto quello che si muove sta nascosto nelle montagne
Io ho ascoltato tutto questo e mi sono detto: “Io non mi muovo più, se non c’è lavoro non lavoro
se il lavoro mi deve far diventare matto e mi devono prendere a calci in culo, io non lavoro più
Io voglio sdraiarmi, una buona volta, voglio spiegarmi, voglio l’erba
l’ombra degli alberi, voglio urlare, voglio poter urlare, anche se poi mi sparano addosso.
Tanto è quello che fanno. Se non sei d’accordo, se apri la bocca,
ti devi nascondere in fondo alla foresta. Ma allora meglio così
almeno ti avrò detto quello che ti devo dire.