martedì 31 luglio 2012

"Più leggo le parole pronunciate da Roberto Scarpinato per Borsellino


Giorno verrà, dottor Scarpinato


 Fonte: Notizie Radicali
30-07-2012
Più leggo le parole pronunciate da Roberto Scarpinato per Borsellino e più mi convinco che sono e suonano spietata critica di «questo» Stato, un gelido mostro, direbbe Nietzsche, che ha mentito e mente in tutte le lingue del bene e del male, ed è bello leggere, insieme alle parole di Scarpinato, le ultime parole della giovane testimone di giustizia Rita Atria, Partanna 4 settembre 1974 – Roma 26 luglio 1992, «Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi», «Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta», ed è bello leggere, insieme alle parole di Rita, le parole dell’Associazione Antimafie che porta il suo nome, «“Noi Sappiamo” anche senza le sentenze. Chi sorride, chi stringe le mani ai “figli” del malaffare e quindi ai complici dell’oppressione sociale… è complice», ed è bello leggere, insieme alle parole dell’Associazione Antimafie «Rita Atria», le parole di Borsellino, «La rivoluzione si fa con la gente in piazza; il cambiamento si fa con la matita», e qui la «bellezza» non ha niente a che fare con l’eroismo a basso prezzo, ha a che fare con il coraggio di quelle persone che come Rita denunciarono la mafia eretta a Stato e lo Stato sulla mafia fondato, ha a che fare con la stessa «bellezza» da Yeats cantata per l’Easter Rising irlandese, «A terrible beauty is born», e io mi dico, «We will arise and go now, and go to…», con i sospensivi d’obbligo.

Avvocato. Docente ordinario di Filosofia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa.


Caro dott. Scarpinato,
quando lei entrò in magistratura c’era ancora nel nostro codice penale il cd. delitto d’onore, io avrei potuto uccidere in stato d’ira anche mia sorella scoprendola in qualsiasi luogo nell’atto di consumare un’illegittima relazione carnale, me la sarei cavata con una pena diversa e minore rispetto alla pena prevista per l’omicidio, e altri orrori c’erano, io potevo stuprare una minorenne, poi me la sposavo per non andare in galera, e il matrimonio riparava al mio delitto, lo estingueva. Ci sono voluti sacrifici e lotte e morti per cambiare, sacrifici e lotti e morti della società civile contro la società politica che quelle norme manteneva. E abbiamo dovuto aspettare la legge 5 agosto 1981 n. 442 perché il cd. delitto d’onore fosse abrogato. Quanto tempo abbiamo dovuto aspettare? Tanto: dall’emanazione del codice Rocco, e lei e io non c’eravamo allora.
Questo per dirle, io di lei più anziano, che alle porte dei lussuosi palazzi del potere politico ed economico menzognero, quando lei busserà in nome dello Stato sognato da Falcone e Borsellino, non sarà solo. Ci saremo con lei pure noi della società civile democratica. E forte busseremo. Per giustizia e non per vendetta busseremo a quelle porte. E non importerà dove saranno e se alte o basse saranno e se saranno presidiate da cavalieri a cavallo o da guardie imponenti più dei Bronzi di Riace. «Giorno verrà».

E quel giorno ci ricorderemo delle parole di Sepulveda all’indomani della condanna di Pinochet da parte della Camera dei Lords di Londra, era il 25 novembre 1998: «I Lords britannici hanno appena finito di leggere le loro ragioni legali che tolgono l’immunità diplomatica a quella spazzatura chiamata Pinochet […]. Scrivo queste righe perché non so fare altro. Abbraccio mia moglie e tutti e due piangiamo. Piangiamo per la nostra casa saccheggiata dai militari a Santiago, piangiamo per tutti e ciascuno dei nostri fratelli assassinati, piangiamo per quelli che hanno finito i loro giorni nei cimiteri senza nome dell’esilio, piangiamo per quelli che sono tornati sconfitti dagli anni. Piangiamo per la nostra gioventù decimata dal fascismo, piangiamo per il ricordo di mio padre, che vidi per l’ultima volta all’aeroporto di Santiago nel 1977 quando uscii dal carcere per andare in esilio. Piangiamo il pianto liberatorio di quanti non abbiamo mai dimenticato».


La Nazione, che lei non a torto cita e che crudeltà e viltà ha subíto, non si difende con la Nazionale ai Giochi Olimpici. E però, caro dott. Scarpinato, penso che dovremo anche bussare alle porte di non lussuosi palazzi, alle porte delle carceri, palazzi spesso fatiscenti, palazzi spesso buoni per sequestrare e torturare, palazzi spesso buoni per morirvi a causa di mancanze di cure o di frettolose diagnosi, palazzi spesso buoni per il suicidio di detenuti e guardie, era il 5 maggio 1972, lei aveva venti anni, fu a Pisa, Franco Serantini fu pestato a sangue dai celerini venuti da Roma, partecipava a una manifestazione antifascista, lo portarono al Don Bosco, il carcere di Pisa, abitavo allora a pochi passi dal Don Bosco, lo interrogò il giudice, disse che si sentiva male, non gli credette il giudice, e continuò a interrogarlo, morì il 7 maggio ore 9.45, venne poi Stajano a casa mia per raccogliere materiale sull’anarchico «sovversivo», un bel libro di documentata denuncia, e sta agli atti documentato il recente e avvilente episodio di un detenuto quarantenne a Regina Coeli, condanna a cinque anni di reclusione, un anno il residuo di pena da scontare, venti esami sostenuti al Dams di Roma Tre, chiede poche ore di permesso per discutere la sua tesi di laurea, l’avrebbe accompagnato il Garante dei detenuti, niente, il giudice di sorveglianza gli nega il permesso adducendo un motivo procedurale, il laureando deve prima attendere l’esito di un giudizio, ha impugnato il rigetto di un precedente permesso lo scorso gennaio, e il Garante dei detenuti, «Per una settimana la magistratura di sorveglianza, ha tenuto tutti in attesa: la famiglia, il detenuto, il nostro ufficio, la direzione del carcere, l’Università. Poi, a poche ore dalla discussione, ha deciso di respingere la richiesta di permesso facendo sfumare tutto», e tutto è sfumato, e oggi, caro dott. Scarpinato, ricorre il primo anniversario da quando fu lanciato il messaggio della «prepotente urgenza», e veda, caro dott. Scarpinato, la società civile democratica è indignata per le condizioni delle nostre carceri, non siamo più ai tempi di Silvio Pellico, e forse siamo ancora ai tempi del mio maestro di Economia politica Antonio Pesenti, «Dalla cattedra al bugliolo», al bugliolo ancora siamo in molte carceri, bussiamo alle porte delle carceri, caro dott. Scarpinato, per fortuna sua e nostra lei non è un magistrato che si auto celebra, caro dott. Scarpinato, lei alla giustizia tiene e non chiama eroi chi per la giustizia ha combattuto e combatte, e lei sa che la giustizia vive di vita perigliosa e combattente, e sa che nelle carceri si consumano a volte ingiustizie, l’ingiusta detenzione si consuma, l’ingiusto trattamento dei detenuti si consuma, meglio che vinca la giustizia anziché la Vezzali o la Pellegrini, e con stima ed empatia,

Domenico Corradini H. Broussard

 

domenica 29 luglio 2012

29 luglio 2012. Anniversario della morte di Rocco Chinnici, Salvatore Bartolotta, Mario Trapassi

da destra: Rocco Chinnici insieme a Giovanni Falcone
e al commissario Ninì Cassarà
Rocco Chinnici viene ucciso il 29 luglio 1983
Un auto imbottita di esplosivo viene piazzata in via Pipitone Federico a Palermo, dinanzi all'abitazione del giudice. Nell'attentato, oltre al giudice Chinnici muoiono Stefano Li Sacchi,  il portiere dello stabile   nel quale Rocco Chinnici abitava,  il maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi e l'appuntato Salvatore Bartolotta.
Col giudice Rocco Chinnici, Procuratore Capo della Procura di Palermo, cambia l'atteggiamento tenuto sino ad allora da larga parte dalla magistratura siciliana nei confronti di "cosa nostra": sembrano lontane le dichiarazioni ufficiali nei quali si affermava che la mafia non esiste.
L'efficacia del lavoro svolto attraverso la sua direzione è testimoniata da una dichiarazione dell'epoca dello stesso Rocco Chinnici: "Un mio orgoglio particolare è la dichiarazione degli americani secondo cui l'Ufficio Istruzione di Palermo è diventato il centro pilota della lotta antimafia, un  esempio per le altre magistrature".
Ma la risposta violenta di cosa nostra aveva già provocato le prime cosiddette "vittime eccellenti". 
A tale proposito così ebbe a dire Rocco Chinnici: "(...) anche se cammino con la scorta, so che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. per un magistrato come me è normale consdiderarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non mpedisce, nè a me nè ad altri giudici, d continuare a lavorare


venerdì 27 luglio 2012

Rita Atria: il rimprovero del vescovo Mogavero alla comunità, l'appello perché è adesso l'ora di liberare il sogno di Rita. E don Ciotti parla alle istituzioni, "lasciate lavorare bene gli investigatori contro la mafia"

Ci siamo, siamo a Partanna. Caldo pomeriggio del 26 luglio. La prima sosta è all'ingresso del cimitero dove 20 anni addietro, in una altrettanto calda giornata di fine luglio (ma poteva anche essere uno dei primi giorni di agosto), arrivò, portata a spalla da alcune donne, la bara dove dentro erano state composte le spoglie di Rita Atria, la ragazza che il 26 luglio si era uccisa a Roma, lanciandosi nel vuoto, dal sesto piano della palazzina di via Amelia dove viveva "nascosta" con la cognata, Piera Aiello: la loro colpa che le ha costrette a fuggire da Partanna a vivere lontano con altre identità e sotto protezione, quella di essere diventate "testimoni di giustizia".
Nel loro paese sono rimasti, e ci sono ancora oggi, gli uomini da loro accusati.
Le due donne, Piera e Rita, dovettero andare via dopo avere conosciuto la violenza mafiosa, per avere visto uccisi genitore, fratello e marito, Vito e Nicola Atria, padre e fratello di Rita, suocero e marito di Piera. Due donne che furono rinnegate dalla famiglia Atria, e ancora da tutta Partanna.
Piera Aiello ricorda con poche battute quel momento della fuga, "costretta a prendere una valigia di cartone, trascinare per mano mia figlia che aveva tre anni".
Rita si uccise una settimana dopo la strage di via D'Amelio, si era aggrappata a Paolo Borsellino e la morte del giudice la sconvolse fino a farle compiere quell'insano gesto. Partanna la accolse con le finestre chiuse, nessuno la andò ad accogliere, c'erano solo le associazioni antimafia, le donne e gli uomini venuti anche da lontano. Restò chiusa anche la Chiesa Madre, per ordine del vescovo dell'epoca, Rita suicidatasi non meritava il funerale.
Oggi un altro vescovo, mons. Mogavero ha posto rimedio celebrano lui la messa di commemorazione. Torniamo al cimitero. All'arrivo c'è un uomo, è sudato, come noi, scocciato, noi no. Chiediamo della cerimonia e lui si lamenta, dice che ancora non c'è nessuno e non sa ancora quanto deve aspettare, "non sono di Partanna dice, ma ho dovuto fare io il turno di oggi pomeriggio perché gli altri che sono del luogo non ci sono voluti essere". Poche parole per capire che l'andazzo non è cambiato. Una ripida salita per arrivare alla Chiesa Madre dove c'è già un bel po' di gente che si è raccolta, pochissimi i partannesi, c'è il sindaco Cuttone, qualche assessore e consigliere, i partannesi...guardano dalle finestre, non escono anche quando il corteo comincia sfilare, stavolta si torna al cimitero.
Don Luigi Ciotti cammina a piedi con tantissima altra gente, giovani, tantissimi, tiene tra le mani la lapide in marmo che solo simbolicamente verrà posta sulla tomba di Rita, al suo fianco tanti familiari di vittime della mafia a cominciare da Margherita Asta, dai genitori dell'agente Agostino, il poliziotto ammazzato a Palermo una calda estate del 1989, era il 5 agosto, con lui i killer uccisero anche la moglie, incinta.
I politici stanno in mezzo al corteo, ci sono Sonia Alfano, presidente della commissione antimafia del Parlamento Europeo, l'on. Beppe Lumia, il presidente del Consiglio provinciale Poma, restano confusi tra la gente presente, così come confusa nel corteo c'è Piera Aiello, tiene una rosa bianca tra le mani, è il fiore che Rita amava tanto.
L'arrivo al cimitero è segnato da una prima sorpresa, i referenti di Libera della provincia di Trapani, guidati dal coordinatore Salvatore Inguì, si staccano dal corteo e Gisella Mammo Zagarella, referente del presidio del capoluogo, tira fuori martello e chiodi da una borsa che porta a tracolla, e poi una targa ben coperta, viene collocata all'ingresso del cimitero, si legge, "in questo cimitero riposa Rita Atria testimone di Giustizia". Così che chi entra sappia. Il corteo continua fino alla tomba di Rita, qui si vive un lungo momento di silenzio, rotto infine da don Luigi Ciotti. Sono parole pesanti ma che allo stesso tempo vogliono stemperare gli animi, parole di richiamo ma anche di forte appello alle coscienze. "Non basta commuoversi – dice don Luigi – ma muoversi, Rita ci esorta ad essere noi tutti capaci ogni giorni di essere testimoni di giustizia dinanzi alle illegalità spacciate per legalità che si compiono, dinanzi a chi intende possa esistere una legalità malleabile, questa tomba è senza lapide, speriamo di metterla, ma intanto la vera lapide è quella che dobbiamo portare nelle nostre coscienze, cercando verità e costruendo giustizia dobbiamo ricordare Rita". Poi il richiamo alle istituzioni: "Rita ci ha lasciato scritto – ha affermato don Ciotti – come nel nostro Paese abbiamo bisogno di tanta verità, ancora oggi, abbiamo bisogno di una politica chiara e trasparente". E rivolto al dirigente della sezione anticrimine della questura, l'ex capo della Mobile Giuseppe Linares, che ieri a Partanna rappresentava il questore Esposito, lo ha salutato e ha invitato tutti a sostenerlo, "bisogna lasciarlo lavorare anche se ogni tanto qualcuno non lo permette". Le ultime parole di don Luigi sono state rivolte ai familiari di Rita: "Un pensiero alla sorella e alla mamma di Rita, noi speriamo che escano da questa cultura del ripiegarsi su se stessi ma nessuno giudichi, speriamo che con noi possano costruire nuovi percorsi con dignità e forza". Con la sua chiarezza però don Ciotti ha espresso da che parte bisogna stare: "Stiamo dalla parte di Piera Aiello per vivere perfettamente quello che ci ha lasciato Rita". "Noi oggi andremo via da Partanna con la responsabilità di sapere di doverci muovere di più.....lo spirito è il vento che non lascia mai dormire la polvere", mai frase è risultata giusta (citazione di Davide Maria Turoldo).
In Chiesa la messa con le parole attese del vescovo Mogavero che ha presieduto alla celebrazione. Parole rivolte alla comunità di Partanna. Nessuno potrà dire di non avere capito. L'obbligo della riconciliazione, del perdono, e della pace, sono stati i cardini dell'omelia del vescovo Mogavero e con le parole del Vangelo ha descritto cosa è oggi la comunità di Partanna, «guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono...il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!». Ecco da dove bisogna cominciare a cambiare e come cambiare: "La capacità di vedere parte dal cuore: chi ha il cuore freddo e indifferente non riesce a vedere e non è capace di ascoltare; chi ha cuore buono e partecipe coglie il senso della realtà e degli eventi e sa interpretarli correttamente, lasciandosene ammaestrare. Questo significa che l'osservazione di ciò che accade attorno a noi è questione di cuore e che, pur vedendo e sentendo le medesime cose, si può reagire in modo diverso a seconda di come il cuore fa vedere e sentire quelle stesse cose...Noi siamo qui stasera proprio per guardare alla vita e alla morte di Rita con il cuore, non per capire, ma per accettare; non per giudicare, ma per riconciliare; non per maledire, ma per custodire la memoria; non per contrapporre, ma per pacificare. È tempo, dopo venti anni, di liberare il sogno di chi ha creduto e crede nella capacità delle persone di vivere relazioni fondate sull'amore e sulla fratellanza; di chi si spende e muore per la pace e la giustizia; di chi dice basta alla violenza e alla sopraffazione di qualsiasi origine e genere ed è disposto a pagare di persona; di chi guarda non al proprio interesse, ma al bene comune per il quale sa sacrificare tutto, anche la propria vita". La mafia non è invincibile ha ripetuto il vescovo e ha ricordato che questo è stato dimostrato grazie "agli indifesi, i piccoli - in una parola i giusti - ad avviare l'opera di demolizione delle iniquità e malvagità diffuse. Essi, in apparenza, sono stati dei vinti perché hanno dovuto cedere alla violenza delle armi o alla sconforto della solitudine. Ma in effetti sono gli autentici vincitori che hanno detto: "basta" e hanno cambiato il corso della storia; e i loro nomi benedetti sono scritti in cielo". E rivolto alla comunità di Partanna: "Questa terra di Partanna in particolare, ha una aspettativa straordinaria di vita nuova che incida sulla qualità della vita delle persone e sulle relazioni interpersonali e con la realtà nella quale vivono. È una novità che dice accoglienza e rispetto della vita e dell'altro, giustizia, legalità per costruire un sviluppo vero e autentico, che - come ammoniva Giovanni Paolo nella sua visita a Mazara del Vallo il 9 maggio 1993 - «non può fondarsi sul solo profitto economico, il quale anzi, se assolutizzato, porta alla corruzione. È indispensabile che l'intera comunità civile cresca e si fondi su forti valori morali, e la fonte di tali valori, voi ne siete consapevoli, è spirituale!". Le ultime parole del Vescovo sono state rivolte alla famiglia, il 26 luglio è il giorno dedicato a Sant'Anna, i santi Gioacchino e Anna sono la base della famiglia cristiana: "La loro è una famiglia che ha costruito la sua pace in una relazione paziente, nell'accettazione reciproca, caratterizzata dalla sofferenza per la mancanza di figli, sempre implorati da Dio. E la fede dei due coniugi fu benedetta con la nascita di Maria, colei che tutte le generazioni avrebbero chiamato beata. Ai due santi chiediamo di intercedere presso Dio perché egli, nella sua bontà misericordiosa, dia riconciliazione e pace alla famiglia Atria, provata dolorosamente nei suoi legami affettivi e con un assai gravoso tributo di sangue; dia pace a questa città di Partanna, segnata profondamente dalle micidiali e odiose guerre di mafia; dia pace alla Sicilia, terra benedetta da Dio ma deturpata da mali secolari e da insipienze umane. Dopo vent'anni da quel 26 luglio 1992 osiamo sperare – e per questo preghiamo – che si chiuda un capitolo assai doloroso della storia recente". A tanti ha parlato il vescovo Mogavero, presenti e assenti, alla famiglia di Rita (qualche parente era in chiesa, per poi andare via quando ha preso la parola Piera Aiello), a chi oggi nel nome di Rita ha rischiato di provocare divisioni. In effetti non ci sono state divisioni perché mattina e pomeriggio del 26 luglio in tanti hanno avuto il merito di fare scorrere, sentire, il nome di Rita per le strade di Partanna, "Rita – ha concluso don Ciotti – ci impone a tutti scelte secondo verità e riconciliazione, facendo memoria".

fonte:www.corleonedialogos.it

giovedì 26 luglio 2012

La memoria di Rita Atria, fra Partanna e Roma

26 luglio 1992- 26 luglio 2012. 
Vent'anni dalla morte di RITA ATRIA, testimone di giustizia.



Le parole scritte da Rita Atria nel suo diario il giorno dopo la strage di Via D'Amelio:
"(...)Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita (…)  Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci"

Il brano brano è tratto dal tema di maturità di Rita

L'unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.
Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo2.
Rita Atria
Erice 5 giugno 1992




La memoria di Rita Atria, fra Partanna e Roma




mercoledì 25 luglio 2012

Vent'anni: ...la Memoria di Rita Atria tra Partanna e Roma


Partanna e Roma, le due città che hanno segnato la giovane vita di Rita Atria, unite da un filo invisibile di legalità e resistenza.
L'appuntamento è per il 26 luglio p.v. quando il presidio romano dell'Associazione antimafie Rita Atria ne celebrerà il ricordo nel ventennale della morte con un momento di memoria e testimonianza, ritrovandosi proprio in viale Amelia, dove dal settimo piano di una palazzina anonima Rita spiccò il volo. "Un fiore per Rita - Vent'anni
dopo per Rita Atria. Costruire un mondo onesto, testimoniando verità e giustizia" è il nome dell'evento che vuole essere occasione di memoria attiva, da tradurre in impegno concreto. A partire dalle 19, previsti gli interventi di Stefano Pierpaoli e Dale Zaccaria, che si cimenteranno nella lettura di stralci del diario di Rita, intervalli musicali a cura della violinista Antonella Serafini e la presenza di Ulisse, testimone di giustizia e presidente onorario dell'associazione, e delle donne di viale Amelia. A seguire, collegamento telefonico con Partanna (TP), cittadina natia di Rita Atria da dove L’Associazione Antimafie Rita Atria, presenti il presidente Santo Laganà, la fondatrice Nadia Furnari e i membri del direttivo nazionale e di altri presidi siciliani e i giovani del luogo, protagonisti del presidio di Partanna, neocostituitosi, rinnoveranno l’appuntamento che da 18 anni si ripete, ricordando a loro volta la testimone diciassettenne, attraverso la lettura delle sue memorie, a partire dalle 10.30 presso il cimitero comunale. Ed è proprio la presenza del Presidio di Partanna, voluto da un gruppo di giovani partannesi, il fatto più qualificante e significativo di questo ventennale: a Partanna, città natale di Rita, i giovani , dopo vent’anni, hanno deciso di impegnarsi nel solco tracciato da Rita e l’hanno voluto fare aderendo all’associazione antimafie che da 18 anni porta il suo nome. Ecco il regalo più bello per Rita. Saranno presenti, inoltre, a Partanna, il giornalista Pino Maniaci (Telejato), la direttrice di Casablanca, Graziella Proto e Michela Buscemi, testimone di giustizia e prima donna a testimoniare al maxiprocesso del 1987. Confermata anche la presenza di Amico Dolci, figlio di Danilo Dolci, e del fotografo Mario Spada.
"Vent'anni dopo, la verità vive" è il segnale inequivocabile che Partanna intende lanciare, attraverso una forte condivisione di intenti e di valori.
lì, 24/07/2012 
Associazione Antimafie "Rita Atria"

La lettera di Scarpinato a Paolo Borsellino

L'intervento del pg della corte d'Appello di Caltanissetta alla commemorazione per i 20 anni dell'attentato al magistrato antimafia: "Stringe il cuore a vedere talora tra le prima file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra la negazione dei valori di giustizia e legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere




L’intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale della Corte di Appello di Caltanissetta, letto alla commemorazione per i 20 anni dell’assassinio di Paolo Borsellino, con il quale ha lavorato fianco a fianco nel pool antimafia.


"Caro Paolo,


oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.


Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.


E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e abarattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.


Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.


Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.


Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.


Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti diBassano del Grappa ripetesti: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.


E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.


Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso.


Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “ Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.


Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.


Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca,Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”.


Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.


Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.


Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.


Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.


E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito.


Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.


Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.


Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.


E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.


Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.


Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo.


Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.


Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.


E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.


Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.


Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.


Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.


Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte.


E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione

lunedì 23 luglio 2012

21 LUGLIO 2012. "CENA DELLA LEGALITA'". Il Racconto di una serata in memoria delle stragi siciliane e di RITA ATRIA


Il racconto della serata svoltasi in memoria delle stragi siciliane del 1992 e di RITA ATRIA
L'occasione per incontrarci, conoscerci, riflettere, per confermare e ribadire 
l'impegno del presidio LIBERA "RITA ATRIA" Pinerolo


Non li avete uccisi: le loro idee camminano sulle nostre gambe 
RITA ATRIA: "Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza...
nella campagna pinerolese, l'atmosfera dell'EnPleinAir" 
FARE MEMORIA:“(...) ricordare non basta. Memoria è un ricordo “attivo” che vuole comprendere i meccanismi, le cause e dunque le ragioni che determinarono una storia, e sa rileggerle nel presente per capirne le “mutazioni” e le mimetizzazioni nelle forme nuove in cui quella stessa violenza torna e tornerà ad esercitarsi. " M. Ciancarella

Deborah e Valentino: prepariamoci...
...con gli amici del presidio RITA ATRIA

Cominciamo a fare memoria degli uomini e delle donne in nome dei quali siamo qui, questa sera... 


E siamo qui per ricordarci anzitutto le parole di Giovanni Falcone : "La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine..”
E noi siamo qui, questa sera, con la serenità e la forza di dire che contro le mafie VINCIAMO NOI!

Contro le mafie vinciamo NOI! 
 Angela e Cistina, del presidio "RITA ATRIA", leggeranno le parole di Paolo Borsellino e Rita Atria
Le parole di paolo Borsellino
23 giugno 1992. Ad un mese dalla morte del giudice Giovanni Falcone, a Capaci, i boyscouts organizzano un raduno a piazza Magione, nel cuore del quartiere della Kalsa di Palermo. Tra fiaccole accese, le parole di Paolo Borsellino a ricordare l'amico fraterno:
 “(…)  Sono morti per noi e abbiamo un grosso debito verso di loro. Questo debito dobbiamo pagarlo, gioiosamente, continuando la loro opera, facendo il nostro dovere. Rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici. Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne, anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro. (…)
La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le nostre giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.
Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo egli mi disse: "La gente fa il tifo per noi." E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l'appoggio morale della popolazione dava al lavoro del giudice, significava qualcosa di più: significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze." Paolo Borsellino

   Le parole di Rita Atria
E facciamo memoria di Rita Atria, la ragazzina siciliana che, nata in una famiglia mafiosa, decide di sfidare tutti denunciando i segreti confidatigli dal fratello. la mattina del 5 novembre del 1991 Rita esce di casa e invece di andare a scuola va dritta nell’ufficio di Paolo Borsellino, allora procuratore a Marsala. Ha deciso di seguire l'esempio di Piera Aiello, sua cognata, la moglie di suo fratello ucciso dalla faida mafiosa.
Mi chiamo Rita Atria e mi presento alla signoria vostra per fornire notizie e circostanze legate alla morte di mio fratello e all’uccisione di mio padredice emozionata al giudice.
Alla sua storia e al suo esempio fa esplicito riferimento la legge n. 45. del 13/2/2001 che introduce nell'ordinamento giudiziario italiano la figura del "testimone di giustizia"
Le parole di Rita Atria, tratte dal testo del suo tema di maturità:
"(....) Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c'e chi ha paura come Contorno, che accusa la giustizia di dargli poca protezione. Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per rassicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un'altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.
L'unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.
Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.
Rita Atria
Erice 5 giugno 1992

Tra  la Memoria e le parole, la musica de "Le Vie Traverse"...

Le Vie Traverse
Il Procuratore della Repubblica di Pinerolo, giudice Ciro Santoriello ci ha onorati della sua presenza e con la sua vicinanza.
Il giudice Ciro Santoriello ha fatto riflettere tutti noi con un intervento di forte valenza etica e morale. 
Il suo pensiero: anzitutto rivolto all'insegnamento che ci hanno lasciato i giudici-colleghi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, grandi e unici "maestri di giustizia", da molti colpevolmente (e ipocritamente) riconosciuti tali "solo una volta uccisi". 
Il giudice Santoriello ci parla poi del pericolo rappresentato delle "forme suadenti" con le quali si presentano le mafie al nord: in una società, in una cultura dove molti vogliono il "tutto e subito", le attività e i capitali delle mafie rappresentano la scorciatoia, "il mezzo" per conquistare potere e danaro. Ma il giudice ci confida di quanta tristezza, quanta squallida tristezza, abbia sempre visto sui visi dei mafiosi che ha dovuto interrogare. E quanta bellezza, quanta gioia di vivere invece risiede e determina avere le cose che si sono guadagnate grazie alla propria onestà e alle proprie capacità. 
La lotta alla mafia, lo ribadisce il giudice Santoriello, è davvero anzitutto una battaglia culturale, etica, morale. Laddove questi valori decadono, anche nel Nord, le mafie attecchiscono e innestano il loro potere.

l'intervento del giudice Ciro Santoriello, Procuratore della Repubblica di Pinerolo

...le parole dette fanno pensare
E allora facciamo memoria di Peppino Impastato e del suo "discorso sulla Bellezza"


-“Sai cosa penso?...che quest’aeroporto in fondo non è brutto..visto così dall’alto.
Uno viene quassopra e potrebbe pensare che la Natura vince sempre
che è ancora più forte dell’uomo
E invece non è così!
In fondo tutte le cose, anche le peggiori
una volta fatte poi si trovano una logica, una giustificazione
per il solo fatto di esistere.
Fanno ‘ste case schifose
con le finestre in alluminio
i muri di mattoni finti, i balconcini…
La gente ci va ad abitare
ci mette le tendine, i gerani, la televisione…
e dopo un po’ tutto fa parte del paesaggio!
C’è!…Esiste!
Nessuno si ricorda di com’era prima!
Non ci vuole niente a distruggere la Bellezza…”
-“Ti ho capito…e allora?”
- “E allora?..e allora prima della lotta politica
la coscienza di classe, tutte le manifestazioni e ‘ste fisserie
bisognerebbe ricordare alla gente che cos’è la Bellezza
aiutarla a riconoscerla, a difenderla..”
- “ La Bellezza…?”
- “La Bellezza…! E’ importante la Bellezza
Da quella scende giù tutto il resto…”

E finiamo col saluto rivolto a Tutti i volti, i nomi, le storie grazie alle quali vinceremo Noi!...
L'ultimo saluto va a  Rita Atria
Vinceremo Noi se seguiremo anche l'insegnamento che ci ha lasciato Rita Atria, la ragazzina siciliana divenuta Testimone di Giustizia. 
Il giorno dopo la strage di Via D'Amelio, Rita scrive nel diario le parole che costituiscono il suo testamento spirituale, parole che da allora si impongono alla riflessione di ognuno:
"(…) Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita …Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci"
Ma con Paolo Borsellino muore “la speranza” di Rita Atria. 
E' La domenica successiva alla strage, il pomeriggio del 26 luglio 1992. Rita è sola in casa, nell'appartamento di Roma in cui vive "in segreto" insieme a Piera Aiello, la moglie del fratello ucciso.
Forse Rita osserva la luce che le arriva dalla finestra; forse ascolta il silenzio e i rumori di Via Amelia in quel caldo pomeriggio d'estateMa quella luce e quei rumori per Rita non hanno più il colore della vita. 
Forse Rita si avvicina a piccoli passi alla finestra del suo appartamento al settimo piano. E decide di lasciare a noi il ricordo della sua vita. 
E' il pomeriggio del 26 luglio 1992

il volto di RITA ATRIA

la lapide sulla tomba di Rita Atria



venerdì 20 luglio 2012

Sentinelle del territorio. 19 luglio 2012 a Pinerolo: insediamento "Commissione Consiliare Speciale di promozione della cultura della legalità e del contrasto dei fenomeni mafiosi”

 
Fare Memoria di Paolo  Borsellino,  Emanuela Loi, Agostino Catalano,  Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli.
Fare Memoria di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, vito Schifani, Rocco Dicillo.
E' stato accolto l'invito del presidio Libera “Rita Atria” Pinerolo di voler impegnare simbolicamente i componenti e l’operato della neo-formata "Commissione Consiliare Speciale di promozione della cultura della legalità e del contrasto dei fenomeni mafiosi”  facendo sì che la seduta di insediamento della Commissione avvenisse proprio il 19 luglio,  nel ventennale della strage di Via D’Amelio. 



Il presidente della Commissione consiliare Speciale,  Massimiliano Puca,  e il proponente della mozione che ha dato vita alla Commissione, Marco Gaido, hanno presentato le finalità della commissione sottolineandone il carattere di organismo aperto ai contributi delle varie componenti della società civile.
Il Sindaco di Pinerolo, Eugenio Buttiero, ha espresso ancora una volta la difficoltà di riconoscere situazioni e personaggi "non cristallini" e la speranza che il territorio pinerolese sia e si mantenga libero da infiltrazioni della criminalità organizzata.


i membri della Commissione Consiliare Speciale
Il Procuratore della Repubblica di Pinerolo, dott. Ciro Santoriello, nel suo intervento ha sottolineato, fra le altre cose, il carattere e la forma "suadente" con la quale si attua l'infiltrazione della criminalità organizzata  nei territori del Nord Italia: il  riciclaggio del denaro impiegato in attività di differente natura; la disponibilità di capitali "offerti" ad aziende e attività messe in difficoltà dalla crisi economica. 
A parere del Procuratore Santoriello, contributo importante della Commissione Consiliare Speciale può essere quello di innescare -anche a Pinerolo- il dibattito e l'attenzione sui temi della Legalità e sui pericoli derivanti dalle peculiari caratteristiche che le infiltrazioni  mafiose hanno oramai assunto.


il Procuratore della repubblica Ciro Santoriello


Il presidio Libera "RITA ATRIA" lo ha ribadito: 
facendo memoria di coloro che oggi commemoriamo, auspichiamo,  chiediamo  che la Commissione  Consiliare Speciale non sia un "mero contenitore" ma diventi strumento utile ed efficace per impedire che fenomeni mafiosi, sinora solo paventati, possano penetrare nel tessuto sociale ed economico del nostro territorio
Riallacciandoci alla riflessione del giudice Santoriello, e facendo riferimento a quanto avvenuto nei territori interessati dalle operazioni "Minotauro" e "Maglio" portate a termine dalla magistratura torinese, (l'esempio di Nevio Coral e Leinì), abbiamo voluto ricordare l'importanza che, soprattutto su questi temi, riveste il carattere e l'indirizzo dato delle amministrazioni locali nella gestione delle risorse e nella tutela dei territori.




giovedì 19 luglio 2012

Palermo, 19 luglio 1992, Via D'Amelio


Palermo 19 luglio 1992 Via D'Amelio: giudice Paolo Borsellino (52 anni); Catalano Agostino (43 anni) assistente capo della Polizia di Stato; Emanuela Loi ( 24 anni) agente della Polizia di StatoWalter Eddie Cosina (31 anni) agente scelto polizia di Stato; Traina Claudio (27 anni) agente scelto della Polizia di Stato Vincenzo Li Muli   (22 anni) Agente della Polizia di Stato


Grazie caro papà  (lettera di Manfredi Borsellino)
Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.

Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.

Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.

Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.

La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.


Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.
Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.

Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.
Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.

Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.
Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.

Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.

La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.

Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.

Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre,  una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.

Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.

Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere

( La lettera di Manfredi, del figlio del giudice Paolo Borsellino– pubblicata per gentile concessione dell’editore – chiude il libro “Era d’estate”, curato dai giornalisti Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi- Pietro Vittorietti editore