sabato 31 dicembre 2016

L'AUGURIO per il Nuovo Anno: più GIUSTIZIA, più DIGNITA', più LIBERTA'

Anche L'AUGURIO per il Nuovo Anno è lo stesso dello scorso anno:
avere il Coraggio di provare a costruire il Cambiamento possibile 
e non più rinviabile

 più GIUSTIZIA, più DIGNITA', più LIBERTA'


Ripetiamo e ribadiamo quanto avevamo detto lo scorso anno, dal momento che le condizioni sociali, economiche, etiche e culturali del nostro Paese non sono affatto migliorate. 
"A coloro che sentono la “responsabilità etica” di vivere nella comunità l'invito e l'auspicio per l'Anno 2017 che ci apprestiamo a vivere: incontrarsi per dare vita ad un “cammino” (fatto di conoscenza, analisi e riflessioni) necessario ad elaborare azioni e misure concrete da proporre alle Istituzioni. Il contrasto reale del dramma delle povertà, l'eliminazione dei privilegi delle classi dominanti, la lotta alla corruzione e alle mafie, tutte facce differenti di una medesima "medaglia al disonore" ancora appuntata sul petto di un intero Paese.
Noi crediamo che sia necessario "essere voce e dare voce a coloro che voce" non hanno per affermare la necessità di un cambiamento, possibile e non più rinviabile.
Un cambiamente "non nasce se non è sognato", "un sogno sognato" anche da una ragazzina siciliana che si chiama RITA ATRIA."

"(...) Forse un mondo onesto non esisterà mai... 
ma chi ci impedisce di sognare...
forse se ognuno di noi proverà a cambiare...
forse ce la faremo".

Rita Atria 
Erice 5 giugno 1992

sabato 24 dicembre 2016

A NATALE L'AUGURIO E' SEMPRE LO STESSO

"Natale è riconoscerci nella nostra dignità. Impegnarci tutti per il bene comune. Aprire porte, menti, cuori. Dare Speranza a chi non ce l'ha". 
                                                                                                          Luigi Ciotti



PERTANTO, CHE CI CREDIATE O NO AL NATALE,  IL NOSTRO AUGURIO 
E' SEMPRE LO STESSO:
"L’augurio è di godere di buona salute,
di coltivare amichevoli rapporti,
di saper resistere con mitezza alle contrarietà,
di ricevere nelle difficoltà qualche 
incoraggiante consolazione ,
di continuare a trovare ragioni promettenti 
per vivere con onestà e decoro".


Auguri a Voi e alle vostre famiglie!



venerdì 23 dicembre 2016

Processo San Michele: ennesimo capitolo della 'ndrangheta in Piemonte

Per ritrovare la notizia della sentenza relativa al processo San Michele, ennesima prova conclamata della presenza della 'ndrangheta in Piemonte, occorre visitare le pagine de "La Repubblica", sezione Torino. Sul quotidiano piemontese la Stampa, almeno nella versione "on-line" e per quanto la si sia ricercata, la notizia non viene riportata. Eppure il processo tratta di crimini, rilevanti comessi in Piemonte dalla più potente organizzazione mafiosa , la 'ndrangheta. Così come lascia basiti la mancata richiesta di costituzione a "parte civile" da parte della Regione Piemonte. Perchè?
Acquista pertanto rilievo particolare, nell'articolo pubblicato da "La Repubblica", la riflessione di un esponente politico piemontese il quale dichiara: "(...)le condanne inflitte al processo San Michele dimostrano la rilevanza dei fatti contestati durante tutto il procedimento. E' emerso chiaramente il radicamento della malavita organizzata in Piemonte, i suoi appetiti per le grandi opere, Tav in primis, ed i rapporti con la cosiddetta zona grigia della politica, anche piemontese - sostiene -. Anche oggi abbiamo toccato con mano l'indifferenza della politica rispetto ad un tema che riguarda l'intero territorio (...)".
Parole che sembrano riprendere testualmente le dichiarazioni dell'allora procuratore Gian Carlo Caselli e la sua durissima requisitoria al "processo Minotauro", il processo (lo ricordiamo ancora una volta) che ha fatto emergere chiaramente i legami, "le relazioni" , degli 'ndranghetisti, con "pezzi" del mondo politico e imprenditoriale piemontese. Nella requisitoria del procuratore Caselli, ad essere messa sotto accusa non è sola la criminalità mafiosa ma anche il mondo politico piemontese, colpevole di aver lasciato da sola la magistratura a fronteggiare un cancro, le mafie, la 'ndrangheta; un mondo politico colpevole, riportiamo le testuali parole di Caselli, di scarsissima sensibilità verso un’emergenza che ha talmente attecchito da non poter neppure essere considerata un’emergenza”. Amara la considerazione del procuratore Caselli: "(...) La mafia c’è perché c’è mercato per i suoi servizi. Ci sono tante persone che traggono vantaggio dall’esistenza della mafia, persone che non hanno nessun interesse a denunciarla. Persone, politici e amministratori, che la legge penale non può punire perché la loro colpa è l’opportunismo”. (leggi qui l'articolo integrale sulle dichiarazioni di G.C. Caselli). 
Ecco perchè la lotta culturale contro le mafie riguarda tutti, ci riguarda in prima persona e investe i nostri personali comportamenti nella comunità, ciacuno per il ruolo e il compito che nella comunità riveste e assolve
Sempre più vere risuonano le parole di Rita Atria: " (...) la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci"














Fonte: La Repubblica



Torino, 'ndrangheta negli appalti pubblici: sei condanne. La più alta, per associazione mafiosa,nel processo San Michele,  è di 9 anni e 6 mesi. 

Assolto l'imprenditore Lazzaro che aveva svolto lavori per la Tav. Sei condanne, alcune delle quali per associazione mafiosa, hanno chiuso oggi a Torino il processo San Michele relativo alla presenza della 'ndrangheta nel Nord Ovest. 

La pena più alta è di 9 anni e 6 mesi per Vincenzo Donato. Ci sono state anche tre assoluzioni. Il processo si riferiva alle infiltrazioni delle 'ndrine crotonesi negli appalti pubblici.  Le altre condanne sono: Luigino Greco a 9 anni e 4 mesi di reclusione, Pasquale Greco a 3 anni di reclusione e 10mila euro di multa, Ion Marian Lubine a 5 anni e 5.500 euro di multa, Nicola Mirante a 9 anni di reclusione, Giovanni Toro a 7 anni.  Nicola Mirante, Vincenzo Donato, Luigino Greco e Giovanni Toro sono stati riconosciuti colpevoli di associazione mafiosa o, a seconda delle posizioni, di concorso esterno.  Gianluca Donato, Francesco Gatto e Ferdinando Lazzaro sono stati assolti. 

Lazzaro è un imprenditore della Valle di Susa che in passato aveva svolto lavori per la Tav. In questo processo rispondeva solo di reati ambientali relativi alla gestione di una cava in bassa Valle. All'imprenditore Mauro Esposito, che aveva denunciato di avere subito pressioni dalla 'ndrangheta, è stata riconosciuta una provvisionale  di 100mila euro. "Sono contento della sentenza, confido sul prosieguo per i prossimi gradi di giudizio. Il giudice ha riconosciuto l'associazione per delinquere di stampo mafioso e l'estorsione a mio danno perpetrata da una serie di soggetti tra cui Nicola Mirante. Mi sono stati riconosciuti i danni che dovranno essere quantificati in sede civile e una provvisionale di 100 mila euro". Così l'imprenditore piemontese Mauro Esposito, testimone chiave nel processo San Michele, commenta le condanne che hanno chiuso a Torino il processo relativo alla presenza della 'ndrangheta nel Nord Ovest. Spero che adesso tutte le istituzioni che mi hanno creato dei problemi, innanzitutto Inarcassa, mi vengano incontro alla luce della sentenza: le mie denunce erano fondate. Ringrazio tutti i parlamentari che mi sono stati vicino, in particolare il senatore Stefano Esposito e il deputato Davide Mattiello, entrambi della Commissione parlamentare Antimafia", conclude Esposito.

"Siamo soddisfatti. L'impianto accusatorio ha retto". Così il procuratore Roberto Sparagna al termine del processo San Michele questa mattina in Tribunale a Torino."Con San Michele si è ampliato il quadro relativo alla presenza della 'ndrangheta nel Nord Ovest. Per questo bisogna tenere presente le differenze con il processo Minotauro (che ha permesso di scoprire la presenza di una decina di 'localì legate tra loro e dipendenti dalla 'casa madre' del Reggino, ndr). Qui - continua Sparagna - non si parla di 'locali' ma di "ndrine", così come non si parla dell' 'ndrangheta di Reggio Calabria ma di quella di Crotone"

In una nota il capogruppo regionale  di M5s, Giorgio Bertola afferma che "le condanne inflitte al processo San Michele dimostrano la rilevanza dei fatti contestati durante tutto il procedimento. E' emerso chiaramente il radicamento della malavita organizzata in Piemonte, i suoi appetiti per le grandi opere, Tav in primis, ed i rapporti con la cosiddetta zona grigia della politica, anche piemontese - sostiene -. Anche oggi abbiamo toccato con mano l'indifferenza della politica rispetto ad un tema che riguarda l'intero territorio - aggiunge l'esponente pentastellato -. Un'indifferenza già messa in evidenza dalla mancata costituzione di parte civile al processo da parte della Regione Piemonte. Una macchia indelebile che sarà colmata, almeno in parte, dalla legge regionale 2/2016 promossa dal Movimento 5 Stelle che obbliga l'ente a costituirsi parte civile nei processi per mafia avvenuti sul nostro territorio".  


lunedì 12 dicembre 2016

Strage di Piazza Fontana - Milano - 12 dicembre 1969 ore 16.37

Il dovere della Memoria.12 dicembre 1969 alle ore 16:37, piazza Fontana a Milano. Una bomba scoppia nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura uccidendo diciassette persone (quattordici morirono sul colpo) e ferendone altre ottantotto.
La strage fascista di piazza Fontana viene generalmente considerata come l'inizio della cosiddetta strategia della tensione. Tuttavia, è forse più corretto indicare come primo atto di quella strategia addirittura la Strage di Portella delle Ginestre, avvenuta il 1 maggio del 1947 per mano dei banditi della banda Giuliano, ma che ebbe come "mandanti" la mafia siciliana, in combutta e al soldo dei latifondisti, e quelli che ora chiamiamo "poteri forti".
La verità è che ci sono stati in Italia, e certamente ci sono ancora, uomini che hanno pensato fosse conveniente, a qualcosa e a qualcuno, uccidere uomini e donne innocenti. Morti innocenti, delitti oscuri perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti: delitti commessi pensando che, in Italia, potesse servire spargere sangue innocente, per seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee e valori; per impedire o indirizzare cambiamenti.
Tutti i processi sinora dibattuti lo hanno stabilito senza il minimo dubbio: la strage di Piazza Fontana fu commessa da un gruppo di neofascisti che ideò ed eseguì l'attentato. Accanto a loro, uomini dei servizi segreti "deviati", terroristi, massoneria, forze "indicibili". Ma a distanza di tanti anni nessuno è stato condannato. Anche quella di Piazza Fontana, una "strage (di pezzi) di Stato" senza Giustizia. Vergogna!


Milano, 12 Dicembre 1969  ore 16,36
Le parole del giudice Salvini, il giudice che ha condotto l’ultima istruttoria sulla strage: "(...) La strage di Piazza Fontana non è un mistero senza mandanti, un evento attribuibile a chiunque magari per pura speculazione politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti (come disse nel 1995, alla Commissione Parlamentare Stragi, Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro) se non proprio da un progetto, da un clima comune. Nei cerchi più esterni c’erano forze che contavano di divenire i “beneficiari” politici di simili tragici eventi. Completando la metafora, i cerchi più esterni, appartenenti anche alle Istituzioni di allora, diventarono subito una struttura addetta a coprire l’anello finale, cioè gli esecutori della strage quando il “beneficio” risultò impossibile poichè quanto avvenuto aveva provocato nel Paese una risposta ben diversa da quella immaginata: non di sola paura, ma di giustizia e di mobilitazione contro piani antidemocratici.
Per questo non dobbiamo vivere l’anniversario del 12 dicembre solo con amarezza, o addirittura rimuovendolo, ma trarne un insegnamento utile, sopratutto per le giovani generazioni. La memoria serve anche a ridurre il rischio che simili trame a danno delle istituzioni e simili sofferenze in danno dei cittadini possano nel futuro ripetersi."

Fonte: Articolo originale tratto da Focus.it Storia

La verità su Piazza Fontana

Il 12 dicembre 1969, esattamente 44 anni fa, una bomba esplode alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, provocando 17 morti e 88 feriti. 10 anni di processi, depistaggi, condanne e assoluzioni. Ma cosa è successo veramente? La ricostruzione di Guido Salvini, il giudice che ha condotto l’ultima istruttoria in ordine di tempo, in un articolo tratto da Focus Storia.


Tutto ebbe inizio il 12 dicembre 1969, con le bombe all’Altare della Patria e nel sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro a Roma, con alcuni feriti. E, in contemporanea, con la terribile bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, che provocò 17 morti e 88 feriti. E che ebbe anche l’effetto di mutare l’ottimismo di molti giovani di allora in sfiducia verso le istituzioni del loro Paese. Su questa strage sono stati celebrati dieci processi, con depistaggi, fughe all’estero di imputati, latitanze più che decennali, condanne, assoluzioni. Fino alla definitiva assoluzione dei presunti esecutori: Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni e Carlo Maria Maggi. «Ma non dell’area nazifascista che aveva organizzato la strage e di quella parte degli apparati dello Stato con loro
il giudice Guido Salvini
collusa, per favorire, attraverso la paura, l’insediamento di un governo autoritario in Italia
» afferma il giudice milanese Guido Salvini. Il giudice Salvini ha condotto l’ultima istruttoria in ordine di tempo su Piazza Fontana, durata dal 1989 al 1997, sulla base della quale si sono avute la condanna degli imputati in primo grado (30 giugno 2001) e la loro assoluzione in appello (12 marzo 2004) con conferma dell’assoluzione in Cassazione (3 maggio 2005).

Giudice Salvini, nonostante non si sia arrivati alla definitiva condanna processuale di singole persone, Lei continua a essere un testimone della memoria storica su quei fatti. In che cosa consiste oggi questa memoria? 
Tutte le sentenze su Piazza Fontana anche quelle assolutorie, portano alla conclusione che fu una formazione di estrema destra, Ordine Nuovo, a organizzare gli attentati del 12 dicembre. Anche nei processi conclusi con sentenze di assoluzione per i singoli imputati è stato comunque ricostruito il vero movente delle bombe: spingere l’allora Presidente del Consiglio, il democristiano Mariano Rumor, a decretare lo stato di emergenza nel Paese, in modo da facilitare l’insediamento di un governo autoritario. Come accertato anche dalla Commissione Parlamentare Stragi, erano state seriamente progettate in quegli anni, anche in concomitanza con la strage, delle ipotesi golpiste per frenare le conquiste sindacali e la crescita delle sinistre, viste come il “pericolo comunista”, ma la risposta popolare rese improponibili quei piani.
L’on. Rumor fra l’altro non se la sentì di annunciare lo stato di emergenza. Il golpe venne rimandato di un anno, ma i referenti politico-militari favorevoli alla svolta autoritaria, preoccupati per le reazioni della società civile, scaricarono all’ultimo momento i nazifascisti. I quali continuarono per conto loro a compiere attentati. Cercarono anche di uccidere Mariano Rumor, con la bomba davanti alla Questura di Milano (4 morti e 45 feriti), del 17 maggio 1973, reclutando il terrorista Gianfranco Bertoli.

Perché non si è arrivati ad avere sufficienti prove sulle responsabilità personali nell’attentato di piazza Fontana? 
L’assoluzione definitiva è stata pronunciata con una formula che giudica incompleto ma non privo di valore l'insieme delle prove raccolte. Sono esistiti in questa vicenda pesanti depistaggi da parte del mondo politico e dei servizi segreti del tempo. Però non è del tutto esatto che responsabilità personali non siano state comunque accertate nelle sentenze. Almeno un colpevole c’è anche nella sentenza definitiva della Cassazione del 2005. Si tratta di Carlo Digilio, l’esperto in armi e in esplosivi del gruppo veneto di Ordine Nuovo, reo confesso, che fornì l’esplosivo per la strage ed il quale ha anche ammesso di essere stato collegato ai servizi americani.
Digilio ha parlato a lungo delle attività eversive e della disponibilità di esplosivo del gruppo ordinovista di Venezia,di cui faceva parte Delfo Zorzi, assolto poi per la strage in pratica per incompletezza delle prove nei suoi confronti, in quanto la Corte non ha ritenuto sufficienti i riscontri di colpevolezza raggiunti. Né sono bastate le rivelazioni di Martino Siciliano che aveva partecipato agli attentati preparatori del 12 dicembre insieme a quel gruppo, con lo scopo di creare disordine e far ricadere le accuse su elementi di sinistra.
Ma in tutte le tre ultime sentenze risultano confermate le responsabilità degli imputati storici di Piazza Fontana, pure loro di Ordine Nuovo: i padovani Franco Freda e Giovanni Ventura. Essi però, già condannati in primo grado nel processo di Catanzaro all’ergastolo, e poi assolti per insufficienza di prove nei gradi successivi, non erano più processabili. Perché in Italia, come in tutti i paesi civili, le sentenza definitive di assoluzione non sono più soggette a revisione.

Ci può spiegare meglio? Intende dire che Freda… 
Sì, se Freda e Ventura fossero stati giudicati con gli elementi d’indagine arrivati purtroppo troppo tardi, quando loro non erano più processabili, sarebbero stati, come scrive la Cassazione, condannati.
l'arresto di Franco Freda e Giovanni Ventura
L’elemento nuovo, storicamente determinante, sono state le testimonianze di Tullio Fabris, l’elettricista di Freda che fu coinvolto nell’acquisto dei timer usati il 12 dicembre per fare esplodere le bombe. La sua testimonianza venne acquisita solo nel 1995. Un ritardo decisivo e “provvidenziale”. Perché Fabris nel 1995 descrisse minuziosamente come nello studio legale di Freda, presente Ventura, furono effettuate le prove di funzionamento dei timers poi usati come innesco per le bombe del 12 dicembre.
Le nuove indagini hanno anche esteso la conoscenze dei legami organici fra i nazifascisti, elementi dei Servizi Segreti militari e dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, diretto all’epoca da Federico Umberto D’Amato.
E c’è di più: il senatore democristiano Paolo Emilio Taviani, in una sofferta testimonianza resa poco prima di morire e purtroppo non acquisita dalle Corti milanesi, ha raccontato di aver appreso che un agente del Sid, l'avvocato romano Matteo Fusco, il pomeriggio del 12 dicembre del 1969 era in procinto di partire da Fiumicino alla volta di Milano in quanto incaricato, seppure tardivamente, di impedire gli attentati che stavano per avere conseguenze più gravi di quelle previste. Tale "missione" non riuscita, confermata dalla testimonianza della figlia ancora vivente dell'avvocato Fusco, che aveva ben presente il rammarico del padre negli anni per non avere potuto evitare la strage, indica ancora una volta che la campagna di terrore non fu solo il parto di un gruppetto di fanatici, ma che a Roma almeno una parte degli apparati istituzionali era a conoscenza della preparazione degli attentati e cercò solo all'ultimo momento di ridurne gli effetti. Dopo l’esito tragico, si adoperarono per calare una cortina fumogena sulle responsabilità a livello più alto.

La frammentazione delle prove nei tanti processi ha favorito questa cortina fumogena? 
Indubbiamente. Ma la ricostruzione dell'accusa, senza effetti, ripeto, su persone non più processabili, è che il gruppo di Freda acquistò valige fabbricate in Germania in un negozio di Padova e comprò i timer di una precisa marca che mise nelle valige insieme con l’esplosivo procurato probabilmente dal gruppo veneziano che disponeva di propri depositi. Alcune valige furono portate a Roma e consegnate ad esponenti di Avanguardia Nazionale che effettuarono gli attentati minori all'Altare della Patria. Altri militanti invece raggiunsero Milano con altre due valige esplosive, attesi dai referenti locali di Ordine nuovo. Una bomba alla Banca Commerciale in piazza della Scala non esplose, l’altra alla banca dell’Agricolura, in piazza Fontana, provocò la strage.
Entrambi gli obiettivi,le banche e l'Altare della Patria, potevano essere letti in una chiave anticapitalista ed antimilitarista in modo da far ricadere la colpa sugli anarchici ed in genere sulla sinistra.

Tre giorni dopo la strage però un anarchico, Giuseppe Pinelli, volò dal quarto piano della

Questura di Milano. Un altro anarchico, Pietro Valpreda, fu incarcerato e indicato come il “mostro” nelle prime pagine dei quotidiani e nei telegiornali. Quando non si pensava nemmeno lontanamente a Internet e sistemi tipo Wikipedia, un gruppo di giovani, in soli sei mesi, scambiandosi informazioni, mise in piedi una controinchiesta collettiva, raccolta in un famoso libro “ La strage di Stato”. Che valore ebbe questo loro impegno per le indagini giudiziarie successive

Fu davvero profetico e quasi propedeutico rispetto agli accertamenti giudiziari avvenuti dopo. Soprattutto, ebbe il merito di smontare rapidamente la pista anarchica fabbricata apposta da infiltrati di Ordine nuovo, di Avanguardia nazionale e dei servizi segreti, per depistare le indagini e mettere sotto accusa di fronte all’opinione pubblica gli anarchici e, per estensione, gli studenti contestatori e le forze di sinistra impegnate nelle lotte sindacali di quel periodo, preparando così il clima per la svolta autoritaria. Che non ci fu, anche perchè la grande stampa, dopo un po’, fece suoi molti temi di quel libro inchiesta.

Quali conclusioni si devono trarre oggi da questa storia? 
La strage di Piazza Fontana non è un mistero senza mandanti, un evento attribuibile a chiunque magari per pura speculazione politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti (come disse nel 1995, alla Commissione Parlamentare Stragi, Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro) se non proprio da un progetto, da un clima comune. Nei cerchi più esterni c’erano forze che contavano di divenire i “beneficiari” politici di simili tragici eventi. Completando la metafora, i cerchi più esterni, appartenenti anche alle Istituzioni di allora, diventarono subito una struttura addetta a coprire l’anello finale, cioè gli esecutori della strage quando il “beneficio” risultò impossibile poichè quanto avvenuto aveva provocato nel Paese una risposta ben diversa da quella immaginata: non di sola paura, ma di giustizia e di mobilitazione contro piani antidemocratici.
Per questo non dobbiamo vivere l’anniversario del 12 dicembre solo con amarezza, o addirittura rimuovendolo, ma trarne un insegnamento utile, sopratutto per le giovani generazioni. La memoria serve anche a ridurre il rischio che simili trame a danno delle istituzioni e simili sofferenze in danno dei cittadini possano nel futuro ripetersi.
 "È scoppiata una caldaia", questo il primo allarme alla centrale radio della questura. Invece era l'eplosione dell'esplosivo chiuso in una valigetta. Diciassette morti, una novantina i feriti. In 300mila andarono ai funerali, chiunque c'è stato ricorda il silenzio e il vento. Il golpe, che molti temevano, non ci fu. E basta riascoltare i cinegiornali Luce per rendersi conto come la violenza stragista ''non passò'' tra la gente comune



Inspiegabili ci appaiono le accuse a Pietro Valpreda, anarchico, bollato come "il mostro" sin dalle prime fai delle indagini.Innegabili alcuni "depistaggi", eseguiti da uomini di Stato durante le varie indagini sulle stragi, e le responsabilità neo-fasciste. 
Lostesso Valpreda, rimasto in carcere innocente per più di tre anni, diceva: "Un tassista ha riconosciuto me, stanco e spettinato, tra alcuni agenti ben rasati e puliti, avvalorando le balle della polizia. Quasi subito è emersa la verità, e cioè che quella a Milano era una bomba dei gruppi fascisti d'accordo con i servizi segreti, nel quadro di un disegno europeo, ma bisognava trovare un colpevole di sinistra, e chi c'era di meglio di noi?".
Spaventosa è la morte di un altro anarchico, Giuseppe Pinelli, avvenuta in questura a Milano, durante un interrogatorio illegale: precipitò dalle finestre dell'ufficio politico diretto dal commissario Luigi Calabresi. 
E la gigantesca tragedia non finisce qui. Lo stesso Calabresi - occorre ricordare altre due essenziali date - venne ucciso sotto casa, sempre a Milano, in via Cherubini il 17 maggio del '72. E, un anno dopo, davanti alla questura in via Fatebenefratelli, mentre si teneva la celebrazione dell'omicidio, arrivò un soggetto che mai ha aperto seriamente bocca, Gianfranco Bertoli, il quale lanciò una bomba, che uccide quattro persone e ne ferisce 45.
Piazza Fontana 12 dicembre '69: la madre di tutte le stragi
La lapide in memoria di Giuseppe Pinelli


mercoledì 7 dicembre 2016

FELICIA BARTOLOTTA IMPASTATO. Una donna, una vita spesa per far vivere, per due volte, suo figlio GIUSEPPE

Oggi ricorrono 12 anni da quando FELICIA BARTOLOTTA IMPASTATO è morta: Una donna, una vita, quella di FELICIA, spesa per dare vita "due volte" a suo figlio PEPPINO

Chi era FELICIA BARTOLOTTA IMPASTATO ? Sul sito "GARIWO, la foresta dei Giusti" si può leggere questo profilo
FELICIA BARTOLOTTA IMPASTATO
1916 - 2004
La madre di Peppino Impastato
intervista a Felicia Bartolotta Impastato

Il 24 maggio 1916 nasce Felicia Bartolotta da una famiglia della piccola borghesia di Cinisi, provvista di qualche appezzamento di terra, coltivato ad agrumi e ulivi. Il padre è impiegato al Comune, la madre casalinga, come sarà anche Felicia. Si sposa, nel 1947, con Luigi Impastato, di una famiglia di piccoli allevatori legati alla mafia del paese. Il 5 gennaio 1948 nasce Giuseppe, detto Peppino; nel 1950 genera un altro figlio, che muore di meningite a due anni e nel 1953 nasce Giovanni, cui viene dato il nome del fratello morto. Luigi Impastato, durante il periodo fascista, aveva fatto tre anni di confino a Ustica, assieme ad altri mafiosi della zona, e durante la guerra era stato dedito al contrabbando di generi alimentari. Dopo non ebbe più problemi con la giustizia. Il cognato di Luigi, Cesare Manzella, marito della sorella, era il capomafia del paese. Manzella muore nel 1963, ucciso dall’esplosione di un’auto imbottita di tritolo.
La morte dello zio colpisce profondamente Peppino, che aveva quindici anni e da tempo aveva cominciato a riflettere su quanto gli dicevano il padre e lo zio. Felicia ricorda che le diceva: «Veramente delinquenti sono allora». L’affiatamento con il marito dura molto poco. Lei stessa afferma: «Appena mi sono sposata ci fu l’inferno. Attaccava lite per tutto e non si doveva mai sapere quello che faceva, dove andava. Io gli dicevo: ‘Stai attento, perché gente dentro [casa] non ne voglio. Se mi porti qualcuno dentro, che so, un mafioso, un latitante, io me ne vado da mia madre’». Felicia non sopporta l’amicizia del marito con Gaetano Badalamenti, diventato capomafia di Cinisi dopo la morte di Manzella, e litiga con Luigi quando vuole portarla con sé in visita in casa dell’amico. Il contrasto con il marito si acuirà quando Peppino inizierà la sua attività politica.
Peppino durante un comizio
Per quindici anni, dall’inizio dell’attività di Peppino fino alla morte di Luigi, avvenuta otto mesi prima dell’assassinio del figlio, la vita di Felicia è una continua lotta, che però non riesce a piegarla. In quegli anni non ha più soltanto il problema delle amicizie del marito. Ora c’è da difendere il figlio che denuncia potenti locali e mafiosi e rompe con il padre, impegnandosi nell’attività politica in formazioni della sinistra assieme a un gruppo di giovani che saranno con lui fino all’ultimo giorno. Felicia difende il figlio contro il marito che lo ha cacciato di casa, ma cerca anche di difendere Peppino da se stesso. Quando viene a sapere che Peppino ha scritto sul foglio ciclostilato L’idea socialista un articolo sulla mafia va in giro per il paese per raccogliere le copie e distruggerle. E quando l’attività politica di Peppino entra nel vivo, non ha il coraggio di andare a ascoltare i suoi comizi, ma intuendo di cosa avrebbe parlato chiede ai suoi compagni di convincerlo a non parlare di mafia. E a lui: «Lasciali andare, questi disgraziati».
Morto il marito in un oscuro incidente, Felicia intuisce che per Peppino il pericolo è aumentato: «Guardavo mio figlio e dicevo: ‘Figlio, chi sa come ti finisce’. Lo andai a trovare che era a letto, gli dissi: ‘Giuseppe, figlio, io mi spavento’. E come apro quella stanza, ché ci si corica mia sorella là, io vedo mio figlio, quella visione mi è rimasta in mente».
il manifesto affisso sui muri di Cinisi
dagli amici di Peppino
La mattina del 9 maggio 1978 viene trovato il corpo sbriciolato di Peppino. Felicia dopo alcuni giorni di smarrimento decide di costituirsi parte civile nel processo per l’omicidio. Una decisione che nelle sue intenzioni doveva servire anche per proteggere Giovanni, il figlio che le era rimasto e che, al contrario, in questi anni si è impegnato assieme alla moglie (anche lei Felicia), per avere giustizia per la morte di Peppino. Felicia ricorda: «Gli dissi: ‘Tu non devi parlare. Fai parlare me, perché io sono anziana, la madre, insomma non mi possono fare come possono fare a te’». Per questa decisione ha dovuto fare ancora una volta una scelta radicale, rompere con i parenti del marito che le consigliavano di non rivolgersi alla giustizia.
Al contrario, da allora Felicia ha aperto la sua casa a tutti coloro che volevano conoscere Peppino. Le delusioni, quando sembrava che non si potesse ottenere nulla, e gli acciacchi di un’età che andava avanzando non l’hanno mai piegata. Al processo contro Badalamenti (fortemente voluto da lei e dal figlio Giovanni), venuto dopo 22 anni, con l’inchiesta chiusa e riaperta più volte grazie anche all’impegno di alcuni compagni di Peppino e del Centro a lui intitolato, con il dito puntato contro l’imputato e con voce ferma lo ha accusato di essere il mandante dell’assassinio. Badalamenti è stato condannato, come pure è stato condannato il suo vice.
Entrambi sono morti, e Felicia, che aveva sempre detto di non volere vendetta ma giustizia, a chi le chiedeva se aveva perdonato rispondeva che delitti così efferati non possono perdonarsi e che Badalamenti non doveva ritornare a Cinisi neppure da morto. E il giorno in cui i rappresentanti dellaCommissione parlamentare antimafia le hanno consegnato la Relazione, in cui si dice a chiare lettere che carabinieri e magistrati avevano depistato le indagini, esprime la sua soddisfazione: «Avete risuscitato mio figlio». 

Felicia ha accolto sempre con il suo sorriso tutti, in quella casa che soltanto negli ultimi tempi, dopo un film che ha fatto conoscere Peppino al grande pubblico, si riempiva, quasi ogni giorno, di tanti, giovani e meno giovani che desideravano incontrarla. Rendendola felice e facendole dimenticare i tanti anni in cui a trovarla andavano in pochi e a starle vicino erano pochissimi. E ai giovani diceva: «Tenete alta la testa e la schiena dritta».
Muore il 7 dicembre 2004 nella sua casa a Cinisi.

lunedì 5 dicembre 2016

Don Luigi Ciotti: "Urge una rivoluzione culturale nel Paese, etica e sociale..."

Sul tema del Referendum Costituzionale LIBERA aveva deciso di non prendere posizione, contro oppure a favore del quesito referendario, lasciando (come sempre) libertà di coscienza a ciascuno. Don Luigi Ciotti, fondatore di LIBERA, era stato tuttavia chiaro nel suo pensiero a riguardo della riforma che il governo avrebbe voluto imporre: "Chi ha voluto questa "nuova" Costituzione vede la democrazia come un ostacolo, e il bene comune come una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi".
 Del resto, la grande manifestazione a difesa della Costituzione tenuta nell'ottobre del 2013, La Via Maestra, lo aveva visto protagonista, fra gli altri, insieme,  a Lorenza Carlassare, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky. In quella giornata, uno dei passaggi più significactivi era stato il seguente: "La difesa della Costituzione è innanzitutto la promozione di un’idea di società, divergente da quella di coloro che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e, ora, operano per manometterla formalmente. [...]. 
Pochi giorni orsono, lo scorso 1 dicembre a Bari, parlando con i giornalisti a margine del convegno 'Nei cantieri della città del noi', don Luigi Ciotti ha dato corpo a quello che è realmente il nodo cruciale della crisi sociale, morale, economica che viviamo. 
Le parole di don Ciotti: "Urge una rivoluzione culturale nel Paese, etica e sociale, che la classe politica attuale, non solo la nostra ma penso all'Europa, non sembra in grado di realizzare ma nemmeno di pensare in questo momento". 
Per don Ciotti oggi c'è il "divorzio della politica dall'etica", ma "la politica è etica" perché "nasce per governare le città, garantire la pacifica convivenza e la giustizia sociale". Don Ciotti ha sottolineato come in Italia "spendiamo 64 milioni al giorno per gli armamenti ma non ci sono soldi per le politiche sociali: il 37% degli italiani prendono meno farmaci perché non possono pagare i ticket, sull'Aids si è smesso di investire in prevenzione e nell'informazione e siamo tornati ai primi posti sia per i contagi tra i giovani sia per la mortalità". "L'inclusione sociale - ha rilevato - sta alla base della democrazia: solo se si ha accesso alle risorse garantite dai diritti sociali si può avere la capacità di sviluppare le proprie potenzialità". "I diritti sociali abilitano a esercitare gli altri diritti, non bastano quelli civili e politici. Ma l'Italia ha sei milioni di analfabeti di ritorno, quattro milioni e 600mila persone in povertà assoluta, un milione e 100mila bambini in povertà assoluta, quasi nove milioni di persone in povertà relativa". E nonostante notevoli miglioramenti - ha concluso - abbiamo la percentuale più alta di dispersione scolastica, e rispetto ad altri paesi i nostri investimenti per la cultura sono inferiori". 

"Sì, No, Perchè"
Come presidio "Rita Atria" , nel confronto proposto insieme ad Officina Pinerolese (vedi qui), avevamo espresso l'opinione che la nostra Costituzione, prima di pensare a come modificarla, occorrebbe pensare a come (finalmente!) attuarla. Sono ancora troppi i diritti sanciti -ma non ancora attuati- che la Costituzione pone invece a fondamento della stessa Democrazia: il lavoro, l'istruzione, l'uguaglianza, la dignità delle persone. Così ci eravamo espressi: "(...) noi pensiamo che le azioni che si compiono sulla nostra Costituzione non debbano avere altro scopo se non quello di rendere evidente, concreta, la volontà di mantenere "le promesse" contenute nella Costituzione. Questa la discriminante, questo il metro di giudizio che ci pare si debba considerare riflettendo, esprimendosi,  su quanto il quesito referendario propone."

venerdì 2 dicembre 2016

Il giudice NINO DI MATTEO sarà cittadino onorario anche di Pinerolo

Nella seduta del Consiglio Comunale del 30 novembre 2016 è stata approvata all'unanimità la mozione per giungere al conferimento della cittadinanza onoraria al giudice Nino di Matteo. 
Esprimiamo la nostra soddisfazione per l'atto di solidarietà espresso dal Consiglio Comunale di Pinerolo . Tuttavia, non dobbiamo pensare che una azione culturale concreta ed efficace contro le mafie,  ma soprattutto contro "il pensiero mafioso" diffusissimo anche tra coloro che "mafiosi" in senso stretto non potrebbero esere definiti, si possa esaurire con questo atto pure significativo. Ribadiamo pertanto quanto avevamo auspicato nell'articolo riportato anche da ANTIMAFIADUEMILA (leggi qui): «Riteniamo – che alla formazione di una cultura della comunità contro “il pensiero mafioso” possa servire anche riprendere quanto avviato nel passato, sia pure con scarsa convinzione: l’azione conoscitiva, culturale, che doveva essere svolta dalla cosiddetta Commissione Consiliare antimafia, formata dalla passata Amministrazione pinerolese. Insediata proprio su proposta del presidio “Rita Atria” il giorno 19 luglio 2012, anniversario della strage di Via D’Amelio, quella commissione si era riunita in realtà una sola volta per poi “sparire».
La battaglia culturale contro le mafie ed il pensiero mafioso abbisogna dell'impegno e dell'assunzione di responsabilità e consapevolezza di ciascuno perchè questo ci insegna Rita Atria: " Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci.(...)".


MOZIONE

CONFERIMENTO DELLA CITTADINANZA ONORARIA
AD ANTONINO DI MATTEO

PREMESSO CHE

ANTONINO DI MATTEO, DETTO NINO, È UN MAGISTRATO ITALIANO:

Nato a Palermo nel 1961, è entrato in magistratura nel 1991 come sostituto procuratore presso la DDA di Caltanissetta.- Divenuto pubblico ministero a Palermo nel 1999, ha iniziato ad indagare sulle stragi di mafia in cui sono stati uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti delle rispettive scorte, oltre che sugli omicidi di Rocco Chinnici ed Antonino Saetta; per l'omicidio Chinnici ha rilevato nuovi indizi sulla base dei quali riaprire le indagini e ottenere in processo la condanna anche dei mandanti, riconosciuti in Ignazio e Antonino Salvo, mentre per l'omicidio Saetta otteneva l'irrogazione del primo ergastolo per Totò Riina;

In seguito alle minacce ricevute, Di Matteo è stato sottoposto ad eccezionali misure di sicurezza (compresa l'assegnazione del dispositivo Bomb Jammer), annunciate alla stampa dallo stesso ministro dell'interno Angelino Alfano nel dicembre 2013, elevando il grado di protezione al massimo livello.- Purtroppo dietro l’ipocrisia delle dichiarazioni ufficiali, le cose non stanno così: da mesi Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso in via D’Amelio, porta avanti una battaglia per ottenere che sulla jeep blindata di Di Matteo possa essere montato il jammer, meccanismo che intercetterebbe i segnali radio scongiurando così l’eventuale deflagrazione di un esplosivo azionato da un telecomando. “l’unico strumento che potrebbe realmente tutelarlo dal rischio di un attentato”.

Nel settembre 2015 si ha notizia che, dopo due anni di continue intimidazioni, il tritolo per il pm della “trattativa” è pronto, nascosto da qualche parte nelle borgate di Palermo, e che il neopentito Vito Galatolo ha raccontato come il piano di morte per Nino Di Matteo sia pronto a scattare.

E' inoltre notizia di queste settimane che ci sarebbero ulteriori elementi, non divulgati alla stampa, tali da spingere il procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, a trasmettere con urgenza gli atti a Caltanisetta e al Consiglio superiore della Magistratura con un invito ad intervenire per l'alto rischio che lo stesso Pm, titolare delle indagini sulla trattativa Stato-Mafia, si trova a correre. Csm che, alla luce dei suddetti avvenimenti, pare aver recepito la gravità della situazione al punto da proporre un trasferimento del Pm per motivi di sicurezza.

CONSIDERATO CHE

Coltivare la passione civile è nostro dovere per evitare di adeguarci alla deriva prevalente di un Paese sempre più indifferente alla giustizia, insofferente alla verità, all’indipendenza della magistratura ed alla tutela vera dei valori costituzionali.
La cittadinanza onoraria al Magistrato Nino Di Matteo, rientra nella logica di non lasciare soli i servitori dello Stato che svolgono con diligenza il proprio lavoro, ed è un atto dovuto, per l’attività che sta svolgendo ed i rischi a cui è esposto, la massima attenzione e vicinanza da parte dei cittadini, come sta avvenendo in questi giorni attraverso la Scorta Civica, dalle Agende Rosse, ma anche e soprattutto dalle istituzioni.
Riteniamo che ogni Comune italiano abbia il dovere di mandare un messaggio forte, chiaro ed inequivocabile di grande solidarietà e chiediamo a tutte le coscienze civili e democratiche del Consiglio Comunale di Pinerolo, di non lasciare solo questo coraggioso magistrato e di sostenere la mozione, mettendo da parte bandiere ed appartenenze politiche.
Ricordando le parole di Paolo Borsellino: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri.

Il Consiglio Comunale di Pinerolo
IMPEGNA SINDACO E GIUNTA

ad attivarsi per il conferimento ad Antonino Di Matteo detto Nino, della cittadinanza onoraria, esprimendo con questo gesto vicinanza, piena solidarietà, senso civico e morale di una comunità che intende rendere omaggio ad un uomo, simbolo di un’Italia che con dedizione, impegno e senso del dovere, porta avanti il proprio lavoro di ricerca della verità, nonostante le violente pressioni a cui lui ed i suoi familiari sono sottoposti.



Pinerolo, XX novembre 2016