venerdì 28 agosto 2020

Martin Luther King - 28 agosto 1963: "I Have a dream - Io Ho un Sogno"

 Martin Luther King: "Sì, siamo estremisti, siamo estremisti nella volontà di giustizia, di eguaglianza, di pace." 

Sulla tomba di Martin Luther King è scritto: «Free at last. Free al Last». Finalmente libero!
Oggi, nel tempo della pandemia dolorosa che continua a colpire drammaticamente la comunità afro-americana degli Stati Uniti e non solo, il razzismo, a poco più di tre mesi dall'uccisione di George Floyd per mano di un poliziotto, il sogno di un uomo che agognava la Libertà per tutti gli esseri umani, a prescindere dal colore della pelle e dalle condizioni sociali, il sogno di una umanità unita e solidale, appare ancora un traguardo da raggiungere ma nello stesso tempo, l’unica meta verso cui orientare il cammino
Il pensiero perfetto, nel discorso perfetto tenuto da martin Luther King il 28 agosto del 1968



Martin Luther King saluta la folla il giorno del discorso "I Have a Dream"


George Floyd
                         "I have a dream". Il discorso perfetto 
E' il  28 agosto 1963. A Washington, di fronte ad una America profondamente intrisa e divisa dall'odio razziale,  Martin Luther King pronuncia il discorso che passa alla storia come "I Have a dream": Io Ho un Sogno". Per quel discorso Martin L. King aveva preparato attentamente un testo, con paragrafi suoi e altri scritti dai suoi collaboratori. Ma ad un certo punto, Mahalia Jackson, la grande cantante gospel che aveva aperto la manifestazione, inizia ad urlare: "Parla del sogno, Martin! Parla del tuo sogno!". A quel punto King mette da parte i fogli e comincia a parlare "a braccio", improvvisando la parte del discorso che passerà alla storia come il discorso perfetto, immortale.

I Have a dream - Io Ho un Sogno

Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo; il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra. Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un "pagherò" del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo "pagherò" permetteva che tutti gli uomini, si, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.

E’ ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo "pagherò" per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: "fondi insufficienti". Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia.

Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.

Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo. Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia. Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste. Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima. Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.

E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: "Quando vi riterrete soddisfatti?" Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia. Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande. Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono:"Riservato ai bianchi". Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente. Non ha dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice. Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.

E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

 Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!.

Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

 Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.

Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.

Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.

Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.

Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.

Ma non soltanto.

Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.

Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.

Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual:"Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente".

mercoledì 26 agosto 2020

Per Amore più che per paura: dobbiamo cambiare!

Vito Mancuso: "È la Vita la divinità primordiale, ma noi lo stiamo dimenticando. Stiamo riducendo la Vita a una specie di centro commerciale in cui ordinare beni e prodotti con un clic. Il mare di Poseidone? È diventato una riserva di cibo e petrolio e una superficie da solcare con le barche. Le foreste di Artemide? Una riserva di legna da abbattere per seminare la soia con cui nutrire il bestiame da macellare al più presto per farne hamburger. L’arte di Apollo? Un grande business ricolmo di finzioni che valgono solo per la capacità momentanea di vincere la noia e di sorprendere con l’ennesima profanazione. L’amore di Afrodite? Un turpe mercato che si ciba di corpi, spesso anche di bambini. E il denaro come unico dio, osservando, in questo sì, un purissimo monoteismo. Qualcuno sostiene che la Natura, espressione suprema della Vita, si sia ribellata a questa devastazione e ci stia prendendo alle spalle, anzi ai polmoni, così da riportarci nella condizione di capire di nuovo che è lei a essere più forte e che noi la dobbiamo rispettare con religioso timore. È così? Io non lo so, quello che so è che la Vita è la grande dea e che la paura in questo caso è la sua prima messaggera. E il messaggio della paura è chiaro: dobbiamo cambiare!"

Invitiamo ad assistere alla proiezione dei due film in programma



domenica 9 agosto 2020

ANTONINO SCOPELLITI: giudice e anche lui uomo "solo"

 ANTONINO SCOPELLITI: « Il giudice è quindi solo, solo con le menzogne cui ha creduto, le verità che gli sono sfuggite, solo con la fede cui si è spesso aggrappato come naufrago, solo con il pianto di un innocente e con la perfidia e la protervia dei malvagi. Ma il buon giudice, nella sua solitudine, deve essere libero, onesto e coraggioso. » Chissà se anche per queste parole il giudice Antonio Scopelliti a volte viene ricordato come "il giudice solo". Ma altre volte si parla di Antonio Scopelliti  anche come "il giudice dimenticato". 


Antonio Scopelliti, giudice impegnato nei più importanti processi degli anni '80 (  nel primo Processo Moro, il sequestro della Achille Lauro, la Strage di Piazza Fontana e la Strage del Rapido 904), fu tra i primi a denunciare anche la situazione di "assenza di Giustizia" come causa prima del sentimento di distacco fra "paese reale e paese legale" e della  sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni: "Il cittadino perde ogni giorno fiducia nella giustizia, e se è vero che rendere giustizia è il momento etico dello Stato, perde nello stesso momento fiducia nella eticità dello Stato e il distacco tra paese reale e paese legale, tra coscienza popolare e potere, si fa sempre più pauroso. Crisi della Giustizia, però, che è solo una componente della più generale crisi della legalità cioè a dire dell’ordine civile e del diritto. Quindi, crisi dello Stato."


Antonio Scopelliti viene ucciso da un commandos mafioso a Campo Calabro il 9 agosto 1991.   L'uccisione del giudice Scopelliti, sarebbe stata decisa  da un’alleanza fra mafia e `ndrangheta. È questa l’ipotesi d’indagine portata avanti dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria grazie alle rivelazioni del pentito catanese Maurizio Avola. Anche un altro collaboratore, Francesco Onorato, nel processo «`ndrangheta stragista» ha sostenuto che Scopelliti fu ucciso dalle `ndrine per fare un favore a Toto´ Riina che temeva l’esito del giudizio della Cassazione sul "Maxi-processo" a "cosa nostra"

La riflessione di Rosanna Scopelliti, figlia del giudice: "È una giornata strana oggi. C’è silenzio. Piove. Per la prima volta dopo tanti anni mi sveglio con calma. L’emergenza Covid ci ha imposto di evitare le consuete iniziative legate all’anniversario della morte di papà. Mi sono mancati i ragazzi del campus che la Fondazione organizza di solito in questo periodo. Quest’anno ci sarà la messa alle 18 e un momento di raccoglimento in sua memoria vicino l’Ulivo che ho piantato per lui. Ho più tempo per me. Ne approfitto. Guardo la mia piccolina che dorme e immagino di vederla crescere. Come sarà il suo sorriso, quali saranno i suoi sogni a 15 anni, le ambizioni a 20, chissà se indosserà qualche vestito dei miei… Penso a papà, chissà quante volte mi ha guardata mentre dormivo e si è chiesto se mi avrebbe vista crescere. Chissà se in quegli ultimi giorni, mentre scorreva le carte del “maxi processo” pensava alla promessa di accompagnarmi a scuola, al mare, a prendere un gelato. Chissà se vedendomi crescere, in quei pochi anni vissuti insieme, pensava alla normalità, alla “normalità canonica” che non abbiamo mai vissuto. E che chi lo ha ucciso mi ha rubato per sempre.

Immagino i suoi ultimi attimi e spero con tutto il cuore che non abbia avuto il tempo di accorgersi di nulla. Che il panorama dello Stretto alla sua destra abbia distolto il suo sguardo e che lo stupore della bellezza sia arrivato prima di quello della morte. Si, mi piace immaginare così quel momento. La forza della bellezza che vince sul male. La rassegnazione sconfitta dal pensiero che si è seminato bene e che un domani il bene germoglierà sul sangue versato. Sono trascorsi 29 anni. Anni difficili, anni di solitudine, di amarezze, di articoli ignobili. Anni in cui Antonino Scopelliti è stato un’immagine sbiadita nella Storia del nostro Paese. Uno di quei servitori dello Stato il cui ricordo vive nei 40 minuti di annuale commemorazione e poi basta: “arrivederci al prossimo anno”. Sono stati anni in cui l’impegno e la necessità di fare memoria, per noi che siamo vivi, “sopravvissuti” mi verrebbe da dire, sono diventati ragione di vita. In cui l’incessante richiesta di verità e giustizia si fonde con il desiderio di riscatto di un intero popolo che soffre la distanza dalle Istituzioni e il dubbio, per dirla con Corrado Alvaro che “vivere onestamente sia inutile”. Avere una verità giudiziaria, non è solo dare pace a chi Antonino Scopelliti lo ha vissuto ed amato, ma è dare giustizia a tutte quelle persone che credono che vivere onestamente sia non solo utile, ma necessario. Ai giovani, a chi lascia il proprio cuore in questa terra e parte col desiderio di tornare”.

“Per questo – aggiunge- dopo tutti questi anni l’appello che faccio ai magistrati che stanno lavorando per scrivere la verità e la parola fine sul caso Scopelliti, è di fare presto. Il tempo sta scadendo, purtroppo. Siamo stanchi. “Il cittadino perde ogni giorno fiducia nella giustizia e se è vero che rendere giustizia e il momento etico dello Stato, perde nello stesso momento fiducia nella eticità dello Stato e il distacco tra paese reale e paese legale, tra coscienza popolare e potere, si fa sempre più pauroso. Crisi della Giustizia, però, che è solo una componente della più generale crisi della legalità cioè a dire dell’ordine civile e del diritto. Quindi, crisi dello Stato” La crisi che ha investito la magistratura facendo emergere tutte quelle contraddizioni che papà già denunciava quarant’anni fa con queste parole rischia di svilire il grande lavoro svolto con passione e umanità da quei magistrati dediti allo studio del diritto e all’amore per il tricolore e la toga. Non possiamo permettercelo. E non sembri retorico affermare che lo dobbiamo a tutti quei servitori dello Stato, che prima e dopo papà hanno contribuito con il loro sacrificio ed il loro esempio a rendere le Istituzioni credibili e questo Paese un luogo in cui valga la pena vivere. Non è retorica: è orizzonte di senso”.


La carriera di Antonio Scopelliti
Entrato in magistratura a soli 24 anni, ha svolto la carriera di magistrato requirente, iniziando come Pubblico Ministero presso la Procura della Repubblica di Roma, poi presso la Procura della Repubblica di Milano. Procuratore generale presso la Corte d'appello quindi, Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione. Seguì una eccezionale carriera, che lo portò ad essere il numero uno dei sostituti procuratori generali italiani presso la Corte di Cassazione. Si è occupato di vari maxi processi, di mafia e di terrorismo. Ha rappresentato, infatti, la pubblica accusa nel primo Processo Moro, al sequestro della Achille Lauro, alla Strage di Piazza Fontana ed alla Strage del Rapido 904. Per quest'ultimo processo, che si concluse in Cassazione nel marzo del '91, il procuratore Scopelliti aveva chiesto la conferma degli ergastoli inferti al boss della mafia Pippo Calò ed a Guido Cercola, nonché l'annullamento delle assoluzioni di secondo grado per altri mafiosi. Il collegio giudicante della Prima sezione penale della Cassazione, presieduto da Corrado Carnevale rigettò la richiesta della pubblica accusa, assolvendo Calò e rinviando tutto a nuovo giudizio.

L'assassinio del giudice Scopelliti
Il magistrato fu ucciso il 9 agosto 1991, mentre era in vacanza in Calabria, sua terra d'origine, in località Piale (frazione di Villa San Giovanni, sulla strada provinciale tra Villa San Giovanni e Campo Calabro.
Senza scorta, metodico nei suoi movimenti, Scopelliti venne intercettato dai suoi assassini mentre, a bordo della sua automobile, rientrava in paese dopo avere trascorso la giornata al mare. L'agguato avvenne all'altezza di una curva, poco prima del rettilineo che immette nell'abitato di Campo Calabro. Gli assassini, almeno due persone a bordo di una moto, appostati lungo la strada, spararono con fucili calibro 12 caricati a pallettoni. La morte del magistrato, colpito con due colpi alla testa esplosi in rapida successione, fu istantanea. L'automobile, priva di controllo, finì in un terrapieno. In un primo tempo si pensò che Scopelliti fosse rimasto coinvolto in un incidente stradale. L'esame esterno del cadavere e la scoperta delle ferite da arma da fuoco fecero emergere la verità sulla morte del magistrato.

Il Maxiprocesso
Quando fu ucciso stava preparando, in sede di legittimità, il rigetto dei ricorsi per Cassazione avanzati dalle difese dei più pericolosi esponenti mafiosi condannati nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Si ritiene che per la sua esecuzione si siano mosse insieme la 'ndrangheta e Cosa Nostra, dopo che il magistrato rifiutò diversi tentativi di corruzione (il pentito Marino Pulito rivelò che al giudice Scopelliti furono offerti 5 miliardi di lire italiane per "raddrizzare" la requisitoria contro i boss della Cupola siciliana).
Anche secondo i pentiti della 'ndrangheta Giacomo Lauro e Filippo Barreca, sarebbe stata la Cupola di Cosa Nostra siciliana a chiedere alla 'ndrangheta di uccidere Scopelliti, che avrebbe rappresentato la pubblica accusa in Cassazione nel maxi processo a Cosa nostra. Cosa nostra, in cambio del favore ricevuto, sarebbe intervenuta per fare cessare la seconda guerra di mafia che si protraeva a Reggio Calabria dall'ottobre 1985, quando fu assassinato il boss Paolo De Stefano. Nell'abitazione paterna di Scopelliti, dove il magistrato soggiornava durante le vacanze, furono trovati gli incartamenti processuali del maxiprocesso.

Un assassinio ancora senza colpevoli
Per l'uccisione di Antonio Scopelliti furono istruiti e celebrati presso il Tribunale di Reggio Calabria ben due processi, uno contro Salvatore Riina e tredici boss della Cupola, ed un secondo procedimento contro Bernardo Provenzano ed altri nove boss della cosiddetta Commissione regionale di Cosa Nostra, tra i quali Filippo Graviano e Nitto Santapaola. Furono tutti condannati in primo grado nel 1996 e nel 1998 e successivamente assolti in Corte d'Appello nel 1998 e nel 2000 perché le accuse dei diciassette collaboratori di giustizia (cui si aggiunsero in un secondo momento quelle del boss Giovanni Brusca) vennero giudicate discordanti.

Ad Antonino Scopelliti è stata dedicata una strada nel suo paese natale, Campo Calabro, ed una nella contigua Villa San Giovanni.

Nel 2007, su iniziativa della figlia, Rosanna Scopelliti, è stata costituita una fondazione intitolata all'Alto magistrato.

domenica 2 agosto 2020

BOLOGNA 2 AGOSTO 1980 - LA STRAGE FASCISTA

2 AGOSTO 1980 - BOLOGNA - LA STRAGE FASCISTA
Ripetiamo quello che abbiamo già detto più volte: "Morti innocenti, delitti oscuri perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. E’ successo e forse potrebbe succedere ancora: delitti commessi pensando che, in Italia, potesse servire “a qualcosa e a qualcuno” spargere sangue innocente, seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee, valori". 
Anche per i morti, i feriti, gli offesi della strage di Bologna ancora si deve chiedere Giustizia e Verità
Nell'anniversario di sei anni fa Emiliano Liuzzi , il giornalista del Fatto Quotidiano scomparso nell' aprile 2016, aveva scritto parole dure (leggi qui), gettando una luce su coloro che, anch'esse vittime della Strage, sono stati dimenticati: I feriti, i feriti a morte: "(...) che sono rimasti nell’illusione che il sacrificio sotto a quelle macerie servisse come sacrificio, appunto. Come vergogna".
Purtroppo, e con miserabile evidenza, non c'è il sentimento della vergogna in quei "pezzi" dello Stato Italiano che, a distanza di quarantanni, consente che anche la strage di Bologna rimanga ancora senza i colpevoli maggiori, i mandanti. 
Anche la strage di Bologna è strage che colpisce l'intera nazione: le vittime provenivano da cinquanta città diverse, trentatré vittime avevano tra i 18 e i 30 anni, sette vittime avevano un'età compresa tra i 3 e i 14 anni: La vittima più giovane è Angela Fresu, tre anni.: la mamma, Maria Fresu si trovava nella sala della bomba con la figlioletti in braccio. Stavano partendo con due amiche per una breve vacanza sul lago di Garda. Il corpicino della piccola, la più giovane delle vittime, venne ritrovato subito. I resti del corpo della mamma non sono stati ancora riconosciuti.

Anche per la Strage di Bologna valgono le parole di Roberto Scarpinato: "(...) La storia insegna che quando un segreto dura nel tempo, sebbene condiviso da decine e decine di persone, è il segno che su quel segreto è imposto il sigillo del Potere”.




i familiari delle vittime nella celebrazione di questa mattina passano vicino all'autobus 37, 
simbolo della strage perché fu utilizzato per trasportare feriti in ospedale e poi i morti

fonte del testo
ASSOCIAZIONE TRA I FAMIGLIARI DELLE VITTIME DELLA STRAGE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA 2 AGOSTO 1980

Il 2 agosto 1980, alle ore 10,25una bomba esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. 
Lo scoppio fu violentissimo, provocò il crollo delle strutture sovrastanti le sale d'aspetto di prima e seconda classe dove si trovavano gli uffici dell'azienda di ristorazione Cigar e di circa 30 metri di pensilina. L'esplosione investì anche il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario.
Il soffio arroventato prodotto da una miscela di tritolo e T4 tranciò i destini di persone provenienti da 50 città diverse italiane e straniere.
Il bilancio finale fu di 85 morti e 200 feriti.(testimonianze di Biacchesi e da "Il giorno")
La violenza colpì alla cieca cancellando a casaccio vite, sogni, speranze.
Marina Trolese, 16 anni, venne ricoverata all'ospedale Maggiore, il corpo devastato dalle ustioni. Con la sorella Chiara, 15 anni, era in partenza per l'Inghilterra. Le avevano accompagnate il fratello Andrea e la madre Anna Maria Salvagnini. Il corpo di quest'ultima venne ritrovato dopo ore di scavo tra le macerie. Andrea e Chiara portano ancora sul corpo e nell'anima i segni dello scoppio. Marina morì dieci giorni dopo l'esplosione tra atroci sofferenze.
Angela Fresu, la vittima
più giovane  della strage
Maria Fresu si trovava nella sala della bomba con la figlia Angela di tre anni. Stavano partendo con due amiche per una breve vacanza sul lago di Garda. Il corpicino della piccola, la più giovane delle vittime, venne ritrovato subito. I resti del corpo della mamma non sono stati ancora riconosciuti.

Torquato Secci, impiegato alla Snia di Terni, venne allertato dalla telefonata di un amico del figlio Sergio, Ferruccio, che si trovava a Verona. Sergio lo aveva informato che a causa del ritardo del treno sul quale viaggiava, proveniente dalla Toscana, aveva perso una coincidenza a Bologna e aveva dovuto aspettare il treno successivo.
Poi non ne aveva più saputo nulla.
Solo il giorno successivo, telefonando all'Ufficio assistenza del Comune di Bologna, Secci scoprì che suo figlio era ricoverato al reparto Rianimazione dell'ospedale Maggiore.
"Mi venne incontro un giovane medico, che con molta calma cercò di prepararmi alla visione che da lì a poco mi avrebbe fatto inorridire", ha scritto Secci, "la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. Solo dopo un po' mi ripresi e riuscii a dire solo poche e incoraggianti parole accolte da Sergio con l'evidente, espressa consapevolezza di chi, purtroppo teme di non poter subire le conseguenze di tutte le menomazioni e lacerazioni che tanto erano evidenti sul suo corpo".
Nel 1981 Torquato Secci diventò presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage.
La città si trasformò in una gigantesca macchina di soccorso e assistenza per le vittime, i sopravvissuti e i loro parenti.
I vigili del fuoco dirottarono sulla stazione un autobus, il numero 37, che si trasformò in un carro funebre.
E' lì che vennero deposti e coperti da lenzuola bianche i primi corpi estratti dalle macerie.
Alle 17,30, il presidente della Repubblica Sandro Pertini arrivò in elicottero all'aeroporto di Borgo Panigale e si precipitò all'ospedale Maggiore dove era stata allestita una delle tre camere mortuarie.
Per poche ore era circolata l'ipotesi che la strage fosse stata provocata dall'esplosione di una caldaia ma, quando il presidente arrivò a Bologna, era già stato trovato il cratere provocato da una bomba.
Incontrando i giornalisti Pertini non nascose lo sgomento: "Signori, non ho parole", siamo di fronte all'impresa più criminale che sia avvenuta in Italia".
Ancora prima dei funerali, fissati per il 6 agosto, si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città.
Il giorno fissato per la cerimonia funebre nella basilica di San Petronio, si mescolano in piazza rabbia e dolore.
Solo 7 vittime ebbero il funerale di stato.
Il 17 agosto "l'Espresso" uscì con un numero speciale sulla strage. In copertina un quadro a cui Renato Guttuso diede lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: "Il sonno della ragione genera mostri". Guttuso ha solo aggiunto una data: 2 agosto 1980.
Cominciò una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana.