Roma, 18 lug. – I concorrenti esterni a Cosa nostra, la vicenda dell’agenda rossa sottratta dalla borsa di Paolo Borsellino, e l’agguato al poliziotto Calogero Germanà. Sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio di 28 anni fa, con l’uccisione del giudice e degli agenti della sua scorta “esistono ancora clamorosi punti oscuri, troppe lacune, tanti tasselli che le procure competenti non vogliono evidentemente ricostruire pur avendo gli elementi a disposizione. Si aspetta che qualcuno parli ma le voci di chi sa sono ancora mute”. È lo sfogo dell’avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino (fratello minore del magistrato) che parla senza mezzi termini di un attentato “con il marchio del Viminale e della Polizia di Stato” dell’epoca. “La riapertura dell’indagine a Palermo per l’omicidio del poliziotto Antonino Agostino, delitto di ben 31 anni fa, – spiega all’AGI – è la dimostrazione che se si ha la volontà di andare a fondo nell’accertamento della verità i misteri si chiariscono, anche se è trascorso tanto tempo”.

“Il pilastro della sentenza di via D’Amelio – spiega nel dettaglio Repici – è quella del processo quater della corte d’assise di Caltanissetta chiusa il 20 aprile del 2017. Dalla motivazione sono tre gli elementi portanti: a favorire le calunnie di Vincenzo Scarantino sono stati quei soggetti che lo avevano in mano e lo controllavano, e mi riferisco ai poliziotti del gruppo Falcone-Borsellino comandato da Arnaldo La Barbera; il depistaggio ha avuto il fine di sottrarre all’accertamento della verità i concorrenti esterni a Cosa Nostra; i giudici hanno affermato che quello fu un depistaggio di Stato, perché vi hanno preso parte soggetti delle istituzioni. La Barbera non ha agito certamente da solo, ha risposto agli ordini dei suoi superiori gerarchici dell’epoca”.

L’avvocato di parte civile della famiglia Borsellino, impegnato, tra l’altro, nel processo per depistaggio ai tre poliziotti (il 22 luglio riprende il dibattimento, ndr), non ha dubbi: “L’attentato di via D’Amelio ha il marchio del Viminale e della Polizia di Stato” dell’epoca. “Borsellino prima di morire aveva richiesto la collaborazione di un funzionario di Polizia, Calogero Germanà, che da funzionario della Criminalpol stava investigando su una vicenda che il giudice aveva molto a cuore e che probabilmente ci consente di individuare anche l’amico che l’aveva tradito, secondo le parole dei suoi colleghi Camassa e Russo. Si tratta del tentativo di aggiustamento del processo per l’omicidio del capitano Basile. Germanà indaga, deposita una informativa alla Procura di Marsala e viene chiamato due ore dopo dal vicecapo della Polizia e convocato subito al Viminale. Dopo alcuni giorni – afferma ancora Repici – gli arriva la comunicazione del suo trasferimento al commissariato di Mazara del Vallo. Due mesi dopo, succede una cosa che nella storia della mafia non si è mai vista: tre capi del calibro di Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro agiscono da killer e sparano. Uccidere Germanà, evidentemente, avrebbe consentito loro di prendere un titolo di merito da spendere poi in altri tavoli”.

Altro capitolo irrisolto, secondo Repici, è quello della nota agenda rossa: “Un video girato in via D’Amelio riprese l’allora capitano Arcangioli con in mano la borsa di Borsellino poco dopo l’attentato, borsa poi rimessa nell’auto esplosa ma senza il suo contenuto. Il giudice non si separava mai da quella agenda. A distanza di tre anni dalla sentenza della Corte d’assise, attendiamo ancora di conoscere le mosse della procura di Caltanissetta perché riveda l’assoluzione di Arcangioli dall’accusa di furto”.

Altra lacuna è quella sui concorrenti esterni a Cosa Nostra appartenenti alle istituzioni: “La procura di Firenze – ricorda il penalista – ha aperto un procedimento penale sulla scorta delle dichiarazioni di Giuseppe Graviano, secondo cui si spinse sull’acceleratore per la strage di via D’Amelio. Graviano ha fatto i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Anche qui, non abbiamo notizie di iniziative giudiziarie adottate dai pm di Caltanissetta”. E ancora, l’estromissione del pm Nino Di Matteo dal ‘pool’ di magistrati che indagavano sulle stragi del ’92: “Lo abbiamo saputo di recente dal procuratore nazionale De Raho che ha parlato in commissione antimafia dell’estromissione di Di Matteo, uomo evidentemente sganciato dai giochi delle correnti in magistratura. Un’operazione che, guarda caso, coincideva con gli sforzi fatti dal pm Luca Palamara e un altro collega”.

La morte di Borsellino – è il ricordo di Recipi – ha rappresentato per i ragazzi della mia generazione una cesura. C’è un prima e un dopo. Borsellino era un uomo fedele alle istituzioni che consapevolmente dopo la strage di Capaci andò incontro alla morte nell’interesse dell’intera nazione. Se l’attentato che segnò la morte di Giovanni Falcone fu uno choc inedito per tutti noi, soprattutto per le modalità della strage, quasi di una scenografia superiore all’immaginario collettivo, quella di via D’Amelio, avvenuta 57 giorni dopo, ci fece precipitare in uno stato di angoscia disumana. Anche dopo le parole di Caponnetto (“è tutto finito”), noi ragazzi pensammo che la violenza mafiosa realizzata con via D’Amelio non fosse più un qualcosa di arginabile. Borsellino sapeva di essere sulla via del pericolo e le istituzioni non furono in grado di metterlo in salvo. Quella strage fu una sconfitta per il Paese e per i giovani universitari come me, iscritti a giurisprudenza, segnò per sempre la nostra vita”.