venerdì 21 giugno 2013

Il procuratore Caccia ucciso dalla mafia infiltrata nei poteri forti?

E' questa la tesi di un libro sul delitto del magistrato torinese, ucciso a Torino nel 1983

Il procuratore Bruno Caccia

Fonte : LA STAMPA

ALBERTO GAINO
«La ’ndrangheta era infiltrata nei poteri forti della politica e dell’economia già trent’anni fa».  
Paola Bellone, coautrice con Sergio Leszczynski di «Il caso Bruno Caccia. La verità rivelata» si è occupata di studiare gli atti «dei processi paralleli» a quello del procuratore capo di Torino ucciso il 26 giugno 1983, i cui figli hanno chiesto la revisione del processo. «Ho letto gli atti dello scandalo dei petroli e del primo processo torinese sulle tangenti a tanti politici di primo piano. - spiega - Erano stati aperti su sollecitazione di Caccia. Dalla lettura di quegli atti emerge che la ’ndrangheta era infiltrata nei poteri forti"

Cinque sentenze  
Le cinque sentenze sul caso Caccia, compresa quella della Cassazione che annullò la precedente per difetto di motivazione sul movente del delitto, hanno rivelato tutto ciò che era dimostrabile in quel periodo. Tuttavia, a distanza di tanto tempo la nostra ricostruzione porta a dire che Domenico Belfiore (condannato all’ergastolo per l’omicidio Caccia) non è che l’ultimo mandante del delitto. Belfiore aveva tent’anni a quel tempo, e la ’ndrangheta era già gerarchizzata al suo interno. Pensare che avesse deciso di far uccidere di testa sua il procuratore capo di Torino non regge. Ricostruendo il contesto di infiltrazioni, Sergio Leszczynski e io abbiamo trovato riscontri e testimonianze significative alla nostra ipotesi». 

I magistrati  
Continua Bellone: «Comunque siano finiti i processi a carico dei magistrati (tutti prosciolti), resta il fatto che semmai per un equivoco, a purtroppo è difficile sperarlo, i calabresi credevano di avere accesso ad alcuni di loro. Quanto basta per fissare un punto importante. Indicando nel rigore di Caccia un movente per l’omicidio si fa riferimento alla sua intransigenza contrapposta alla benevola disposizione che i calabresi - a torto o a ragione - riconoscevano in altri magistrati». 

Il contesto  
Le frequentazioni di Belfiore, di altri componenti della sua famiglia mafiosa, in particolare del tesoriere Franco Gonella con magistrati torinesi fanno parte del contesto che ricorda molto ambienti siciliani: ambiguità e rapporti trasversali, silenzi e omertà. Caccia era un procuratore capo esposto come lo furono dirigenti di uffici giudiziari siciliani in quegli stessi anni. La famiglia Belfiore ha pagato a caro prezzo per il delitto Caccia in termini di perdita di potere economico: in quel periodo controllava attività fiorenti, in particolare il Banco dei pegni di piazza Carignano e la gioielleria Corsi di via Roma. Per dirla con le parole di un magistrato, non stava alla finestra. 

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