Sono accadute "storie ", fatti, che sono diventate Storia. A distanza di ventuno anni da quel terribile 1992, ancora oggi si cerca di fare piena luce su "fatti" che hanno determinato poi, per vie ancora oscure, la Storia di un intero paese
Fonte : La Repubblica
L'ultimo pentito di mafia,
Gaspare Spatuzza, rivela i nomi degli esecutori che erano sfuggiti a tutte le
inchieste. Il tritolo utilizzato per l'eccidio di Capaci fu recuperato da
alcuni residuati bellici trovati in mare. Il verbale: "L'esplosivo era
solido, dopo averlo macinato lo setacciavamo con lo scolapasta". Il
procuratore Lari: "Nell'esecuzione della strage non sono emersi soggetti
esterni a Cosa nostra"
CALTANISSETTA - Vent'anni dopo,
emerge un altro pezzo di verità dai misteri del 1992: la Procura diretta da
Sergio Lari e la Dia hanno dato un nome ai componenti del commando mafioso che
procurò e preparò l'esplosivo che uccise il giudice Giovanni Falcone, la moglie
e i tre poliziotti della scorta.
E' stato l'ultimo pentito di Cosa nostra,
Gaspare Spatuzza, a offrire gli spunti giusti, chiamando in causa alcuni
fedelissimi di Giuseppe Graviano, il capomafia del quartiere palermitano di
Brancaccio che sta dietro tutte le stragi del '92 e del '93. Si tratta di
Giuseppe Barranca, Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo,
Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello. Sono tutti in carcere già da tempo, con
condanne pesanti per reati di mafia ed omicidio. Nei loro confronti è scattata
una nuova ordinanza di custodia cautelare, firmata dal gip di Caltanissetta
Francesco Lauricella, su richiesta del procuratore aggiunto Domenico Gozzo e
dei sostituti Onelio Dodero e Stefano Luciani. Il provvedimento riguarda anche
Cosimo D'Amato, il pescatore che consegnò al gruppo di sicari l'esplosivo
prelevato da alcuni vecchi ordigni trovati in mare, e Salvo Madonia, uno dei
reggenti della potente famiglia palermitana di Resuttana, ritenuto uno dei
mandanti della strage Falcone, assieme a tutta la Cupola mafiosa. Anche D'Amato
e Madonia sono già in carcere. L'ultimo ad essere arrestato è stato il
pescatore di Santa Flavia, nel novembre dell'anno scorso: la Procura di
Firenze, che indaga sulle stragi mafiose del 1993, ritiene che D'Amato avrebbe
fornito l'esplosivo anche per gli eccidi di Roma, Milano e Firenze.
L'ultima indagine
Di quel commando di Brancaccio
mai nessun pentito aveva parlato nel corso dei processi celebrati per la strage
di Capaci, conclusi con una quarantina di condanne, fra mandanti ed esecutori.
Giuseppe Graviano aveva ordinato massima risarvatezza per le operazioni di
confezionamento dell'eplosivo, e così avvenne: 200 chili di tritolo, prelevato
dal mare, furono poi consegnati a Giovanni Brusca, che intanto aveva procurato
altri 200 chili di esplosivo utilizzato nelle cave, "l'Euranfo 70".
Per la sistemazione della carica finale, Brusca si avvalse di due consulenti:
il cugino, che lavorava con gli esplosivi nelle cave, e Pietro Rampulla, un estremista
di destra che aveva anche lui molta dimestichezza con gli esplosivi.
"Con quest'ultima
indagine - dice il procuratore Sergio Lari - riteniamo
di aver fatto una ricostruzione completa della fase organizzativa della strage
del 23 maggio 1992. E non sono emerse responsabilità di soggetti esterni a Cosa
nostra". Per la Procura di Caltanissetta non ci sono dunque zone d'ombra
nella fase esecutiva dell'eccidio di Capaci. L'unica mano sarebbe stata quella
dei sicari di mafia, che agirono su un preciso mandato di Totò Riina.
Il racconto di Spatuzza
Il racconto di Spatuzza
"Ricordo che un mese e mezzo
prima della strage di Capaci, Fifetto Cannella mi chiese di procurargli una
macchina voluminosa, per recuperare delle cose. Ci recammo pertanto con
l'autovettura di mio fratello nella piazza Sant'Erasmo di Palermo, dove
incontrammo Peppe Barranca e Cosimo Lo Nigro, e dove avremmo dovuto incontrare
Renzino Tinnirello, il quale però tardò ad arrivare. Ci recammo quindi a
Porticello, ove trovammo un certo Cosimo, ed assieme a lui ci recammo su un
peschereccio attraccato al molo, da dove recuperammo dei cilindri delle
dimensioni di 50
centimetri per un metro legati con delle funi sulle
paratie della barca. Al loro interno vi erano delle bombe". Durante il
tragitto verso Palermo, i mafiosi trovarono un posto di blocco dei carabinieri,
ma non furono fermati. Così ricorda ancora Spatuzza: "Una volta arrivati a
casa di mia madre, in cortile Castellaccio, scaricammo i bidoni all'interno di
una casa diroccata di mia zia, che si trova a fianco". Il giorno dopo, i
"cilindri" furono spostati in un magazzino di Brancaccio: "Lì
cominciammo la procedura - spiega il pentito -
tagliando la lamiera dei cilindri con scalpello e martello ed estraendo il
contenuto". Ma quell'operazione era troppo rumorosa: "Mi resi conto
che eravamo all'interno di un condominio, quel posto non era adatto al
lavoro", ricorda Spatuzza davanti ai magistrati di Caltanissetta. Così,
l'esplosivo fu trasferito ancora: in un magazzino della zona industriale di
Brancaccio dove aveva sede la ditta di trasporti "Val. Trans.", lì
Spatuzza lavorava come autista.
"L'esplosivo che macinavamo
era solido, di colore tra giallo chiaro e panna. Lo macinavamo schiacciandolo
con un mazzuolo, lo setacciavamo con lo scolapasta sino a portarlo allo stato
di sabbia". Quell'esplosivo prelevato a Porticello non bastò: "Ci
recammo a prelevare altri due bidoni alla Cala, sempre legati a un
peschereccio", prosegue Spatuzza. Una parte di quella micidiale carica fu
consegnata poi a Giuseppe Graviano per la strage di Capaci, una parte servì per
la strage Borsellino.
SALVO PALAZZOLO
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