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mercoledì 31 marzo 2021

"SALVAI & GABUSI CONTRO GLI SPOSTAMENTI DEI CITTADINI"


Giacché “Non siamo marionette”, torniamo ad occuparci del tratto ferroviario Pinerolo-Torre Pellice poiché il tema del "trasporto pubblico" si inserisce a pieno titolo nel quadro più vasto e complessivo della "gestione del Territorio". A parere dell'Associazione "Rita Atria"  Pinerolo proprio la gestione del Territorio può rappresentare un indicatore utile ad individuare gli scopi, gli indirizzi, il “progetto generale” che guida e determina non solo il carattere di una amministrazione locale ma anche della sua comunità. 

Ribadiamo pertanto che ci preoccupa quel che sta avvenendo a riguardo del tratto ferroviario Pinerolo-Torre Pellice. E lascia ancora una volta basiti l'ultimo intervento del sindaco di Pinerolo, Luca Salvai, quando sembra appoggiare l'azione dell'assessore regionale ai Trasporti Marco Gabusi che, di fatto, "(...) ha impedito a Trenitalia di rispettare il nuovo contratto regionale che prevedeva la ri-apertura della linea ferroviaria tra Pinerolo e Torre Pellice(...)". Sembra questa l'ennesima "capriola" del sindaco Salvai poiché nel programma elettorale del 2015 invece così si esprimeva:"(...) Il pinerolese nell'ultimo decennio è stato un territorio abbandonato a se stesso. (...)Ad una situazione di crescente disoccupazione, si è associata la perdita del Tribunale, il progressivo depotenziamento dell'Ospedale E. Agnelli", la perdita della Camera di Commercio, la perdita del Nizza Cavalleria, la soppressione della linea ferroviaria Pinerolo-Torre Pellice(...). Qui un altro articolo sul tema!

Viviamo, drammaticamente per molti, il tempo in cui la pandemia in atto sta mostrando e dimostrando gli errori di un "sistema" (ambientale, sociale, economico) che pare giunto ad un punto assai critico.  "Niente dovrà essere come prima!" sentiamo proclamare.  Eppure le politiche che vengono perseguite, pure a livello  locale, mostrano spesso evidenti contraddizioni ed il limite culturale di una classe dirigente che pare incapace di elaborare e fare riferimento ad un "quadro complessivo", virtuoso, solidale e sostenibile, a vantaggio invece di disegni e interessi "parziali e particolari". 

Ancora una volta le Associazioni firmatarie,  con la lettera aperta pubblicata in data odierna dall'Eco del Chisone, invitano gli amministratori (locali e regionali) a perseguire politiche concretamente rivolte alla tutela del "bene comune" e del "bene lungimirante delle comunità". 

SALVAI & GABUSI CONTRO GLI SPOSTAMENTI DEI CITTADINI

Serve un piano di efficientamento di tutto ciò che produce emissioni nocive”: queste le parole del sindaco di Pinerolo a chiosa dell'articolo della scorsa settimana sull’Eco del Chisone, a proposito del caos causato dalla sua ordinanza sulla limitazione del traffico imposta dalla giunta regionaleIn questa giunta troviamo anche l’assessore Gabusi, colui che, in barba a tali efficentamenti, ha impedito a Trenitalia di rispettare il nuovo contratto regionale che prevedeva la ri-apertura della linea ferroviaria tra Pinerolo e Torre Pellice che, con una gestione efficiente e l'integrazione sincronizzata di bus verso zone non servite dal treno come il bargese e l’alta Val Pellice, avrebbe già tolto migliaia di auto dalla strada ed un centinaio di autobus dal centro di Pinerolo. 

Da un sindaco 5S ("cinque stelle"), movimento che nel programma elettorale del 2016 chiedeva “una riduzione dei mezzi inquinanti che transitano o raggiungono il centro città” puntando al rilancio del trasporto su ferrovia con la riapertura della Pinerolo - Torre Pellice, ci si aspetterebbe una precisa presa di posizione per far emergere il comportamento contraddittorio dell’assessore Gabusi che blocca il mezzo di Trasporto Pubblico Locale a minor impatto ambientale in assoluto, il treno, (oltre che più comodo, veloce, sicuro, in linea col processo di decarbonizzazione dei trasporti) anziché incentivarlo. Invece quello stesso sindaco sulla sua pagina Facebook si allinea a Gabusi, scrivendo di disinteresse da parte dei pendolari verso il treno (ovvio, se la linea è mal gestita ad arte per disincentivarne l’uso) e di problemi legati ai passaggi a livello (falsi, in quanto il passaggio di un treno ogni mezz'ora equivale ad una chiusura per meno del 4 % del tempo, a fronte di semafori che chiudono per oltre il 50 % del tempo). 

Sindaco che due settimane prima, in occasione della presentazione del manifesto “Ripartiamo insieme” lanciato dal CPE affermava che “funzionerà se il documento verrà tradotto in linee più precise su temi fondamentali come la ferrovia da Pinerolo a Torre Pellice”.

Riteniamo quindi necessario che il sindaco di Pinerolo inizi a prendere in seria considerazione i benefici che la riattivazione della ferrovia Pinerolo-Torre Pellice può portare anche alla città di Pinerolo, perché non si tratta di una questione che riguarda solo la Val Pellice.

LEGAMBIENTE Circolo Val Pellice, Circolo Pinerolo, Circolo Barge, Circolo GreenTo, LEGAMBIENTE Piemonte-VdA
COMITATO TRENOVIVO
ASSOCIAZIONE FERROVIE PIEMONTESI
PROGETTO TRATTOXTRATTO
SALVAICICLISTI PINEROLO
ASSOCIAZIONE RITA ATRIA PINEROLO
OSSERVATORIO 0121-SALVIAMO IL PAESAGGIO
ASSOCIAZIONE INVALPELLICE

FRIDAYS FOR FUTURE Val Pellice-Pinerolo

 CoMIS Piemonte (Coordinamento Mobilità Integrata e Sostenibile)




domenica 9 agosto 2020

ANTONINO SCOPELLITI: giudice e anche lui uomo "solo"

 ANTONINO SCOPELLITI: « Il giudice è quindi solo, solo con le menzogne cui ha creduto, le verità che gli sono sfuggite, solo con la fede cui si è spesso aggrappato come naufrago, solo con il pianto di un innocente e con la perfidia e la protervia dei malvagi. Ma il buon giudice, nella sua solitudine, deve essere libero, onesto e coraggioso. » Chissà se anche per queste parole il giudice Antonio Scopelliti a volte viene ricordato come "il giudice solo". Ma altre volte si parla di Antonio Scopelliti  anche come "il giudice dimenticato". 


Antonio Scopelliti, giudice impegnato nei più importanti processi degli anni '80 (  nel primo Processo Moro, il sequestro della Achille Lauro, la Strage di Piazza Fontana e la Strage del Rapido 904), fu tra i primi a denunciare anche la situazione di "assenza di Giustizia" come causa prima del sentimento di distacco fra "paese reale e paese legale" e della  sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni: "Il cittadino perde ogni giorno fiducia nella giustizia, e se è vero che rendere giustizia è il momento etico dello Stato, perde nello stesso momento fiducia nella eticità dello Stato e il distacco tra paese reale e paese legale, tra coscienza popolare e potere, si fa sempre più pauroso. Crisi della Giustizia, però, che è solo una componente della più generale crisi della legalità cioè a dire dell’ordine civile e del diritto. Quindi, crisi dello Stato."


Antonio Scopelliti viene ucciso da un commandos mafioso a Campo Calabro il 9 agosto 1991.   L'uccisione del giudice Scopelliti, sarebbe stata decisa  da un’alleanza fra mafia e `ndrangheta. È questa l’ipotesi d’indagine portata avanti dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria grazie alle rivelazioni del pentito catanese Maurizio Avola. Anche un altro collaboratore, Francesco Onorato, nel processo «`ndrangheta stragista» ha sostenuto che Scopelliti fu ucciso dalle `ndrine per fare un favore a Toto´ Riina che temeva l’esito del giudizio della Cassazione sul "Maxi-processo" a "cosa nostra"

La riflessione di Rosanna Scopelliti, figlia del giudice: "È una giornata strana oggi. C’è silenzio. Piove. Per la prima volta dopo tanti anni mi sveglio con calma. L’emergenza Covid ci ha imposto di evitare le consuete iniziative legate all’anniversario della morte di papà. Mi sono mancati i ragazzi del campus che la Fondazione organizza di solito in questo periodo. Quest’anno ci sarà la messa alle 18 e un momento di raccoglimento in sua memoria vicino l’Ulivo che ho piantato per lui. Ho più tempo per me. Ne approfitto. Guardo la mia piccolina che dorme e immagino di vederla crescere. Come sarà il suo sorriso, quali saranno i suoi sogni a 15 anni, le ambizioni a 20, chissà se indosserà qualche vestito dei miei… Penso a papà, chissà quante volte mi ha guardata mentre dormivo e si è chiesto se mi avrebbe vista crescere. Chissà se in quegli ultimi giorni, mentre scorreva le carte del “maxi processo” pensava alla promessa di accompagnarmi a scuola, al mare, a prendere un gelato. Chissà se vedendomi crescere, in quei pochi anni vissuti insieme, pensava alla normalità, alla “normalità canonica” che non abbiamo mai vissuto. E che chi lo ha ucciso mi ha rubato per sempre.

Immagino i suoi ultimi attimi e spero con tutto il cuore che non abbia avuto il tempo di accorgersi di nulla. Che il panorama dello Stretto alla sua destra abbia distolto il suo sguardo e che lo stupore della bellezza sia arrivato prima di quello della morte. Si, mi piace immaginare così quel momento. La forza della bellezza che vince sul male. La rassegnazione sconfitta dal pensiero che si è seminato bene e che un domani il bene germoglierà sul sangue versato. Sono trascorsi 29 anni. Anni difficili, anni di solitudine, di amarezze, di articoli ignobili. Anni in cui Antonino Scopelliti è stato un’immagine sbiadita nella Storia del nostro Paese. Uno di quei servitori dello Stato il cui ricordo vive nei 40 minuti di annuale commemorazione e poi basta: “arrivederci al prossimo anno”. Sono stati anni in cui l’impegno e la necessità di fare memoria, per noi che siamo vivi, “sopravvissuti” mi verrebbe da dire, sono diventati ragione di vita. In cui l’incessante richiesta di verità e giustizia si fonde con il desiderio di riscatto di un intero popolo che soffre la distanza dalle Istituzioni e il dubbio, per dirla con Corrado Alvaro che “vivere onestamente sia inutile”. Avere una verità giudiziaria, non è solo dare pace a chi Antonino Scopelliti lo ha vissuto ed amato, ma è dare giustizia a tutte quelle persone che credono che vivere onestamente sia non solo utile, ma necessario. Ai giovani, a chi lascia il proprio cuore in questa terra e parte col desiderio di tornare”.

“Per questo – aggiunge- dopo tutti questi anni l’appello che faccio ai magistrati che stanno lavorando per scrivere la verità e la parola fine sul caso Scopelliti, è di fare presto. Il tempo sta scadendo, purtroppo. Siamo stanchi. “Il cittadino perde ogni giorno fiducia nella giustizia e se è vero che rendere giustizia e il momento etico dello Stato, perde nello stesso momento fiducia nella eticità dello Stato e il distacco tra paese reale e paese legale, tra coscienza popolare e potere, si fa sempre più pauroso. Crisi della Giustizia, però, che è solo una componente della più generale crisi della legalità cioè a dire dell’ordine civile e del diritto. Quindi, crisi dello Stato” La crisi che ha investito la magistratura facendo emergere tutte quelle contraddizioni che papà già denunciava quarant’anni fa con queste parole rischia di svilire il grande lavoro svolto con passione e umanità da quei magistrati dediti allo studio del diritto e all’amore per il tricolore e la toga. Non possiamo permettercelo. E non sembri retorico affermare che lo dobbiamo a tutti quei servitori dello Stato, che prima e dopo papà hanno contribuito con il loro sacrificio ed il loro esempio a rendere le Istituzioni credibili e questo Paese un luogo in cui valga la pena vivere. Non è retorica: è orizzonte di senso”.


La carriera di Antonio Scopelliti
Entrato in magistratura a soli 24 anni, ha svolto la carriera di magistrato requirente, iniziando come Pubblico Ministero presso la Procura della Repubblica di Roma, poi presso la Procura della Repubblica di Milano. Procuratore generale presso la Corte d'appello quindi, Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione. Seguì una eccezionale carriera, che lo portò ad essere il numero uno dei sostituti procuratori generali italiani presso la Corte di Cassazione. Si è occupato di vari maxi processi, di mafia e di terrorismo. Ha rappresentato, infatti, la pubblica accusa nel primo Processo Moro, al sequestro della Achille Lauro, alla Strage di Piazza Fontana ed alla Strage del Rapido 904. Per quest'ultimo processo, che si concluse in Cassazione nel marzo del '91, il procuratore Scopelliti aveva chiesto la conferma degli ergastoli inferti al boss della mafia Pippo Calò ed a Guido Cercola, nonché l'annullamento delle assoluzioni di secondo grado per altri mafiosi. Il collegio giudicante della Prima sezione penale della Cassazione, presieduto da Corrado Carnevale rigettò la richiesta della pubblica accusa, assolvendo Calò e rinviando tutto a nuovo giudizio.

L'assassinio del giudice Scopelliti
Il magistrato fu ucciso il 9 agosto 1991, mentre era in vacanza in Calabria, sua terra d'origine, in località Piale (frazione di Villa San Giovanni, sulla strada provinciale tra Villa San Giovanni e Campo Calabro.
Senza scorta, metodico nei suoi movimenti, Scopelliti venne intercettato dai suoi assassini mentre, a bordo della sua automobile, rientrava in paese dopo avere trascorso la giornata al mare. L'agguato avvenne all'altezza di una curva, poco prima del rettilineo che immette nell'abitato di Campo Calabro. Gli assassini, almeno due persone a bordo di una moto, appostati lungo la strada, spararono con fucili calibro 12 caricati a pallettoni. La morte del magistrato, colpito con due colpi alla testa esplosi in rapida successione, fu istantanea. L'automobile, priva di controllo, finì in un terrapieno. In un primo tempo si pensò che Scopelliti fosse rimasto coinvolto in un incidente stradale. L'esame esterno del cadavere e la scoperta delle ferite da arma da fuoco fecero emergere la verità sulla morte del magistrato.

Il Maxiprocesso
Quando fu ucciso stava preparando, in sede di legittimità, il rigetto dei ricorsi per Cassazione avanzati dalle difese dei più pericolosi esponenti mafiosi condannati nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Si ritiene che per la sua esecuzione si siano mosse insieme la 'ndrangheta e Cosa Nostra, dopo che il magistrato rifiutò diversi tentativi di corruzione (il pentito Marino Pulito rivelò che al giudice Scopelliti furono offerti 5 miliardi di lire italiane per "raddrizzare" la requisitoria contro i boss della Cupola siciliana).
Anche secondo i pentiti della 'ndrangheta Giacomo Lauro e Filippo Barreca, sarebbe stata la Cupola di Cosa Nostra siciliana a chiedere alla 'ndrangheta di uccidere Scopelliti, che avrebbe rappresentato la pubblica accusa in Cassazione nel maxi processo a Cosa nostra. Cosa nostra, in cambio del favore ricevuto, sarebbe intervenuta per fare cessare la seconda guerra di mafia che si protraeva a Reggio Calabria dall'ottobre 1985, quando fu assassinato il boss Paolo De Stefano. Nell'abitazione paterna di Scopelliti, dove il magistrato soggiornava durante le vacanze, furono trovati gli incartamenti processuali del maxiprocesso.

Un assassinio ancora senza colpevoli
Per l'uccisione di Antonio Scopelliti furono istruiti e celebrati presso il Tribunale di Reggio Calabria ben due processi, uno contro Salvatore Riina e tredici boss della Cupola, ed un secondo procedimento contro Bernardo Provenzano ed altri nove boss della cosiddetta Commissione regionale di Cosa Nostra, tra i quali Filippo Graviano e Nitto Santapaola. Furono tutti condannati in primo grado nel 1996 e nel 1998 e successivamente assolti in Corte d'Appello nel 1998 e nel 2000 perché le accuse dei diciassette collaboratori di giustizia (cui si aggiunsero in un secondo momento quelle del boss Giovanni Brusca) vennero giudicate discordanti.

Ad Antonino Scopelliti è stata dedicata una strada nel suo paese natale, Campo Calabro, ed una nella contigua Villa San Giovanni.

Nel 2007, su iniziativa della figlia, Rosanna Scopelliti, è stata costituita una fondazione intitolata all'Alto magistrato.

domenica 2 agosto 2020

BOLOGNA 2 AGOSTO 1980 - LA STRAGE FASCISTA

2 AGOSTO 1980 - BOLOGNA - LA STRAGE FASCISTA
Ripetiamo quello che abbiamo già detto più volte: "Morti innocenti, delitti oscuri perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. E’ successo e forse potrebbe succedere ancora: delitti commessi pensando che, in Italia, potesse servire “a qualcosa e a qualcuno” spargere sangue innocente, seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee, valori". 
Anche per i morti, i feriti, gli offesi della strage di Bologna ancora si deve chiedere Giustizia e Verità
Nell'anniversario di sei anni fa Emiliano Liuzzi , il giornalista del Fatto Quotidiano scomparso nell' aprile 2016, aveva scritto parole dure (leggi qui), gettando una luce su coloro che, anch'esse vittime della Strage, sono stati dimenticati: I feriti, i feriti a morte: "(...) che sono rimasti nell’illusione che il sacrificio sotto a quelle macerie servisse come sacrificio, appunto. Come vergogna".
Purtroppo, e con miserabile evidenza, non c'è il sentimento della vergogna in quei "pezzi" dello Stato Italiano che, a distanza di quarantanni, consente che anche la strage di Bologna rimanga ancora senza i colpevoli maggiori, i mandanti. 
Anche la strage di Bologna è strage che colpisce l'intera nazione: le vittime provenivano da cinquanta città diverse, trentatré vittime avevano tra i 18 e i 30 anni, sette vittime avevano un'età compresa tra i 3 e i 14 anni: La vittima più giovane è Angela Fresu, tre anni.: la mamma, Maria Fresu si trovava nella sala della bomba con la figlioletti in braccio. Stavano partendo con due amiche per una breve vacanza sul lago di Garda. Il corpicino della piccola, la più giovane delle vittime, venne ritrovato subito. I resti del corpo della mamma non sono stati ancora riconosciuti.

Anche per la Strage di Bologna valgono le parole di Roberto Scarpinato: "(...) La storia insegna che quando un segreto dura nel tempo, sebbene condiviso da decine e decine di persone, è il segno che su quel segreto è imposto il sigillo del Potere”.




i familiari delle vittime nella celebrazione di questa mattina passano vicino all'autobus 37, 
simbolo della strage perché fu utilizzato per trasportare feriti in ospedale e poi i morti

fonte del testo
ASSOCIAZIONE TRA I FAMIGLIARI DELLE VITTIME DELLA STRAGE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA 2 AGOSTO 1980

Il 2 agosto 1980, alle ore 10,25una bomba esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. 
Lo scoppio fu violentissimo, provocò il crollo delle strutture sovrastanti le sale d'aspetto di prima e seconda classe dove si trovavano gli uffici dell'azienda di ristorazione Cigar e di circa 30 metri di pensilina. L'esplosione investì anche il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario.
Il soffio arroventato prodotto da una miscela di tritolo e T4 tranciò i destini di persone provenienti da 50 città diverse italiane e straniere.
Il bilancio finale fu di 85 morti e 200 feriti.(testimonianze di Biacchesi e da "Il giorno")
La violenza colpì alla cieca cancellando a casaccio vite, sogni, speranze.
Marina Trolese, 16 anni, venne ricoverata all'ospedale Maggiore, il corpo devastato dalle ustioni. Con la sorella Chiara, 15 anni, era in partenza per l'Inghilterra. Le avevano accompagnate il fratello Andrea e la madre Anna Maria Salvagnini. Il corpo di quest'ultima venne ritrovato dopo ore di scavo tra le macerie. Andrea e Chiara portano ancora sul corpo e nell'anima i segni dello scoppio. Marina morì dieci giorni dopo l'esplosione tra atroci sofferenze.
Angela Fresu, la vittima
più giovane  della strage
Maria Fresu si trovava nella sala della bomba con la figlia Angela di tre anni. Stavano partendo con due amiche per una breve vacanza sul lago di Garda. Il corpicino della piccola, la più giovane delle vittime, venne ritrovato subito. I resti del corpo della mamma non sono stati ancora riconosciuti.

Torquato Secci, impiegato alla Snia di Terni, venne allertato dalla telefonata di un amico del figlio Sergio, Ferruccio, che si trovava a Verona. Sergio lo aveva informato che a causa del ritardo del treno sul quale viaggiava, proveniente dalla Toscana, aveva perso una coincidenza a Bologna e aveva dovuto aspettare il treno successivo.
Poi non ne aveva più saputo nulla.
Solo il giorno successivo, telefonando all'Ufficio assistenza del Comune di Bologna, Secci scoprì che suo figlio era ricoverato al reparto Rianimazione dell'ospedale Maggiore.
"Mi venne incontro un giovane medico, che con molta calma cercò di prepararmi alla visione che da lì a poco mi avrebbe fatto inorridire", ha scritto Secci, "la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. Solo dopo un po' mi ripresi e riuscii a dire solo poche e incoraggianti parole accolte da Sergio con l'evidente, espressa consapevolezza di chi, purtroppo teme di non poter subire le conseguenze di tutte le menomazioni e lacerazioni che tanto erano evidenti sul suo corpo".
Nel 1981 Torquato Secci diventò presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage.
La città si trasformò in una gigantesca macchina di soccorso e assistenza per le vittime, i sopravvissuti e i loro parenti.
I vigili del fuoco dirottarono sulla stazione un autobus, il numero 37, che si trasformò in un carro funebre.
E' lì che vennero deposti e coperti da lenzuola bianche i primi corpi estratti dalle macerie.
Alle 17,30, il presidente della Repubblica Sandro Pertini arrivò in elicottero all'aeroporto di Borgo Panigale e si precipitò all'ospedale Maggiore dove era stata allestita una delle tre camere mortuarie.
Per poche ore era circolata l'ipotesi che la strage fosse stata provocata dall'esplosione di una caldaia ma, quando il presidente arrivò a Bologna, era già stato trovato il cratere provocato da una bomba.
Incontrando i giornalisti Pertini non nascose lo sgomento: "Signori, non ho parole", siamo di fronte all'impresa più criminale che sia avvenuta in Italia".
Ancora prima dei funerali, fissati per il 6 agosto, si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città.
Il giorno fissato per la cerimonia funebre nella basilica di San Petronio, si mescolano in piazza rabbia e dolore.
Solo 7 vittime ebbero il funerale di stato.
Il 17 agosto "l'Espresso" uscì con un numero speciale sulla strage. In copertina un quadro a cui Renato Guttuso diede lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: "Il sonno della ragione genera mostri". Guttuso ha solo aggiunto una data: 2 agosto 1980.
Cominciò una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana.


venerdì 26 giugno 2020

Anche per Bruno Caccia si deve chiedere Verità e Giustizia.

“Vogliamo conoscere la verità”. 

Era quanto chiedevano i figli di Bruno Caccia nel trentennale dell'uccisione del procuratore capo di Torino. Anche per Bruno Caccia, ucciso il 26 giugno 1983 a  Torino, si deve ancora chiedere Verità e Giustizia

Bruno Caccia è l'unico magistrato ucciso dalle mafie al di fuori delle regioni meridionali.  Nella sentenza di condanna di Domenico Belfiore, referente di primo piano per le ‘ndrine calabresi in Piemonte, di Bruno Caccia  i magistrati scriveranno: «Egli [Bruno Caccia, nda], poté apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici. Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati».

Nei mesi scorsi le parole pronunciate nel corso dell'audizione nella Commissione Legalità del Comune di Torino dall'avvocato Fabio Repici, legale della famiglia del procuratore capo Bruno Caccia ucciso il 26 giugno 1983, suonavano come un atto d'accusa nei confronti di una regione, il Piemonte, che mostra di aver smarrita, dimenticata, persino oltraggiata, l'eredità e la memoria di Bruno Caccia. Così si è espresso Fabio Repici: "Credo che il delitto Caccia vada riqualificato col termine di cospirazione, che qualifica i delitti che vedono contributi plurimi mirati allo stesso fine. Il caso classico è l'omicidio Kennedy e l'omicidio Caccia fu una cospirazione più o meno con analoghe caratteristiche". Il legale è tornato a parlare di "lacune" dell'attività di indagine e giudiziaria che fanno sì che "dopo 37 anni non conosciamo i nomi dei due killer e non conosciamo esattamente le ragioni né l'identità di tutti i mandanti". Repici ha aggiunto che "quello di Caccia è l'omicidio più importante e delicato nella storia torinese, l'unico procuratore distrettuale ucciso fuori dalla Sicilia, e un delitto così delicato avrebbe dovuto implicare l'impegno massimo di tutte le istituzioni che avessero un ruolo per far qualcosa di utile per accertamento della verità. La verità in archivio non può andare", ha concluso Repici definendo "uno sfregio alla memoria di Caccia che queste lacune vengano tuttora mantenute".

Parole che ribadivano quanto già dichiarato in passato dallo stesso Francesco Saluzzo, procuratore generale del Piemonte e considerato “l'allievo” di Caccia: secondo Francesco Saluzzo l'omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia fu la controffensiva scatenata da un sistema di poteri composto da intoccabili, 'ndranghetisti, criminali e figure ambigue che beneficiavano della complicità o della non opposizione di magistrati opachi per non dire di peggio". 


«I cittadini hanno diritto di conoscere la verità su ciò che è successo». Questo l’appello di Guido, Paola e Cristina Caccia, figli di Bruno Caccia, ucciso il 26 giugno 1983 dalla `ndrangheta, contenuto nella lettera aperta che avevano indirizzata alla Città di Torino nel trentennale della morte del giudice.  La commemorazione dello scorso anno iniziativa, dicevano i figli di Bruno Caccia, «onora la memoria di nostro padre e ci fa profondamente piacere», ma che non può ridursi soltanto a retorica: serve, sostengono, una «analisi storica». 
«Ciò che durante questi trent’anni sta diventando sempre più chiaro, è che l’assassinio di Bruno Caccia non è stato solo un gesto isolato, progettato in autonomia da un boss locale, l’unico condannato, e compiuto dalla mano di due sicari ancora oggi sconosciuti, ma è stato qualcosa di più complesso, un delitto commesso non tanto e non solo perché Bruno Caccia era un magistrato integerrimo, quanto per tutelare concretamente gli enormi interessi che dal suo operato potevano essere messi a rischio. (...) Torino è città-laboratorio, sarebbe bello che, ricordando il sacrificio di nostro padre, diventasse da quest’anno anche un laboratorio di verità».  

Bruno Caccia
Bruno Caccia aveva iniziato la sua carriera in magistratura nel 1941 nel Palazzo di giustizia torinese. Nel capoluogo piemontese rimase sino al 1964 ricoprendo la carica di Sostituto Procuratore, per poi passare ad Aosta come Procuratore della Repubblica. Nel 1967 Caccia ritornò nelle aule torinesi con l’incarico di sostituto Procuratore della Repubblica. Nominato nel 1980 Procuratore della Repubblica di Torino, si occupò di indagare sulle violenze ed i pestaggi che all'epoca puntualmente si verificavano in occasione di ogni sciopero. Come ricorda l'allora suo collega Marcello Maddalena: "Fu, nel settore, il primo segno di presenza dello Stato dopo anni di non indolore assenza". Le indagini di Bruno Caccia si indirizzarono quindi sui terroristi delle Brigate Rosse e Prima Linea e fu lui a condurre le indagini sui primi grandi scandali italiani che coinvolgevano"(...) i grandi petrolieri e i generali delle Fiamme Gialle corrotti, i politici torinesi della prima tangentopoli di Adriano Zampini, gli uomini della Fiat e le mafie trapiantate al Nord". Così Nicola Gratteri ricorda la figura di Bruno Caccia nel libro "Fratelli di sangue". 
Indagini che, come accerterà la storia processuale, dovettero rivelarsi così incisive da decretare la condanna a morte di Bruno Caccia. Ad oggi, Bruno caccia rimane l'unico giudice ucciso per mano delle mafie fuori dalle terre di Sicilia e Calabria. 
E' solo mafia? 
"Vogliamo conoscere la verità", proclamavano i figli del giudice assassinato


l'assassinio di Bruno Caccia
Il 26 giugno 1983, Bruno Caccia si era recato con la famiglia fuori città rientrando a Torino soltanto nella serata. Essendo una domenica, aveva deciso di lasciare a riposo la propria scorta. La decisione facilitò il compito ai sicari della 'ndrangheta. Verso le 23,15 mentre Bruno Caccia portava da solo a passeggio il proprio cane, in via Sommacampagna  venne affiancato da una macchina con due uomini a bordo. Questi, senza scendere dall'auto, spararono 14 colpi e, per essere certi della morte del magistrato, lo finirono con 3 colpi di grazia.

Le indagini
Dapprima le indagini presero la via delle Brigate Rosse: erano quelli gli "anni di piombo" e diverse indagini di Bruno Caccia avevano riguardato proprio brigatisti. Il giorno seguente, le Brigate Rosse rivendicarono l'omicidio, ma presto si scoprì che la rivendicazione risultava essere falsa. Inoltre nessuno dei brigatisti in carcere rivelò che fosse mai stato pianificato l'omicidio del magistrato cuneese. Le indagini puntarono allora l'attenzione sui neofascisti del NAR, ma anche questa pista si rivelò ben presto infondata. L'imbeccata giusta arrivò da un mafioso in galera, Francesco Miano, boss della cosca catanese che si era insediata a Torino. Grazie all'intermediazione dei servizi segreti, Miano decise di collaborare per risolvere il caso e raccolse le confidenze del 'ndranghetista Domenico Belfiore, uno dei capi della 'ndrangheta a Torino, anch'egli in galera. Belfiore ammise che era stata la 'ndrangheta ad uccidere Bruno Caccia e il motivo principale fu che "con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare", come disse lo stesso Belfiore. Una frase inquietante al punto che i magistrati nella sentenza di condanna di colui che era diventato un referente di primo piano per le ‘ndrine calabresi in Piemonte, scriveranno «Egli [Bruno Caccia, nda], poté apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici. Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati».

Palazzo di Giustizia "Bruno caccia" - Torino
A Bruno Caccia sono stati intitolati il Palazzo di Giustizia di Torino, il 26 giugno 2001, e il cascinale "Cascina Bruno e Carla Caccia",  a San Sebastiano da Po, sulle colline torinesi, gestito dall'associazione Libera,. Il cascinale fu sequestrato proprio alla famiglia Belfiore, più precisamente a Salvatore Belfiore, fratello di Domenico, grazie alla legge 109/96.

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lunedì 15 giugno 2020

comunicato stampa inerente il confronto del 10 giugno fra Associazioni e Amministratori locali sul futuro della ferrovia Pinerolo-Torre Pellice


L'incipit è sempre lo stesso: "Continuiamo ad occuparci di gestione del territorio poiché, a nostro parere, questo può rappresentare un indicatore utile ad individuare gli scopi, gli indirizzi,  il “progetto generale” che guida e determina non solo il carattere di una amministrazione locale ma anche della sua comunità. Non solo: avere cura e amore per i territori è un primo ma fondamentale strumento per opporsi a "mafie e pensiero mafioso".

Torniamo ad occuparci della difesa della linea ferroviaria Pinerolo-Torre Pellice perché, dopo quasi un mese e mezzo di attesa, il 10 giugno scorso si è potuto svolgere l'incontro fra le associazioni che si battono per la riattivazione della linea ferroviaria e gli Amministratori locali. Di seguito il comunicato delle associazioni: 



Il confronto, svoltosi nella sala polivalente “Giorgio Odetto” di Rorà, è stato costruttivo e sono state rese note dai presenti le posizioni e le conoscenze sull’argomento. 
Gli Amministratori locali hanno detto di avere ancora interesse per il treno e hanno tenuto a sottolineare il fatto che sino ad ora tutte le loro prese di posizione ufficiali sono andate in tale direzione. Ma dopo alcune riunioni in cui il neo Assessore regionale ai trasporti ha comunicato loro l’intenzione di non voler riattivare la linea, hanno preferito fare un passo indietro, nella speranza di ottenere almeno una soluzione di ripiego alternativa all’abbandono, senza però avere alcuna certezza sulla proposta da presentare e sul suo esito. In quel momento erano però all’oscuro di quanto previsto dagli atti della gara d’appalto vinta da Trenitalia che prevedono la riattivazione della tratta ferroviaria, e del fatto che la Regione ha già impegnato le somme necessarie a tale scopo. A seguito del confronto di Rorà, sembra che gli Amministratori locali vogliano comunque procedere con lo studio di fattibilità, ancora ad uno stadio molto embrionale, su una proposta di mobilità alternativa, per onorare l’impegno preso con l’Assessore Gabusi, ma hanno anche intenzione di ritrovarsi nuovamente per discutere sulle proposte portate avanti dalle associazioni.

Le associazioni hanno spiegato come e perché Trenitalia abbia ritenuto economicamente sostenibile il ripristino del servizio ferroviario sulla Pinerolo-Torre Pellice (e per questo motivo l’ha proposto nella sua offerta alla Regione Piemonte) e l’inesistenza di motivazioni valide che permettano all’Assessore regionale di dirottare le risorse destinate alla mobilità del nostro territorio ad un’altra area del Piemonte, oltre tutto in contrasto con gli atti della gara d’appalto. Inoltre Le associazioni sottolineano che in un’epoca in cui è sempre più chiara l’importanza della lotta al cambiamento climatico, del perseguimento della transizione energetica e della riduzione dell’inquinamento atmosferico, non è più pensabile continuare a basare la mobilità della Valle su autobus inefficienti che congestionano il traffico (110 corse al giorno sulla direttrice per Pinerolo) o sull’uso del mezzo privato (16.000 auto al giorno in transito alla rotatoria di Luserna). Un trasporto pubblico locale inefficiente ha ripercussioni importanti dal punto di vista ambientale, sociale ed economico:

  • ad oggi, non esistono mezzi di trasporto che siano una valida alternativa al treno dal punto di vista della sostenibilità ambientale e dell’efficienza energetica.

  • si ritiene che proporre ipotesi di mobilità alternativa in questo momento, in cui si è ad un passo dalla riattivazione della linea, sia altamente controproducente, non essendoci tra l’altro alcuna garanzia di ottenere in tempi brevi alcunché di sostitutivo.

  • Il servizio su rotaia sicuramente può e deve essere migliorato per rispondere alle vere esigenze di spostamento verso Pinerolo e Torino, ma solo con il treno si avrà la garanzia di un futuro della mobilità di Valle rispettosa dell’ambiente.

Le associazioni hanno quindi invitato le Amministrazioni locali a perseguire insieme i seguenti due obiettivi:

1) Richiedere tempestivamente, con forza e in modo compatto, senza dare adito ad ipotesi di frammentazione del territorio, l’immediato ripristino del servizio ferroviario sulla linea  Pinerolo-Torre Pellice, come previsto dalla gara d’appalto aggiudicata a Trenitalia, perché economicamente sostenibile e già finanziato dalla Regione.

2) Istituire gruppi di lavoro, a cui le associazioni proponenti sono disponibili a partecipare sin da subito, che prevedano studi e azioni volte a rendere afferente al treno di Valle la mobilità attualmente sconnessa o parallela.

Le associazioni non escludono a priori l’eventuale redazione di uno studio di fattibilità su un mezzo alternativo al treno, ma sono consce che anche in caso di individuazione di una nuova soluzione per la mobilità della Valle una sua eventuale realizzazione richiederebbe tempi molto lunghi, superiori alla durata dell’attuale contratto con Trenitalia, quindicennale, e investimenti elevati.


i circoli di LEGAMBIENTE:

-circolo Val Pellice

-circolo Pinerolo

-circolo Barge

-circolo greenTO

-Legambiente Piemonte-VdA

COMITATO TRENOVIVO

ASSOCIAZIONE FERROVIE PIEMONTESI

PROGETTO TRATTOXTRATTO

SALVAICICLISTI PINEROLO

ASSOCIAZIONE “RITA ATRIA” PINEROLO

OSSERVATORIO 0121-SALVIAMO IL PAESAGGIO

ASS. INVALPELLICE

FRIDAYS FOR FUTURE Val Pellice Pinerolo