lunedì 6 maggio 2013

Giulio Andreotti è morto. Giancarlo Caselli spiega la sentenza del processo di Palermo che portò il senatore davanti ai giudici,


Giulio Andreotti è morto. Giancarlo Caselli spiega la sentenza del processo di Palermo  che portò il senatore  davanti ai giudici, accusato di "concorso esterno in associazione mafiosa".  Si terranno funerali di Stato?

Fonte : La Repubblica

Giulio Andreotti tra processi e misteri:
da Pecorelli a Sindona, a Cosa Nostra

La lunghissima carriera del leader Dc è stata costellata di tempeste giudiziarie. Le affrontò sempre con compostezza e rispetto per i giudici. Storica la sentenza della Cassazione sui rapporti con la mafia


Quella corazza impenetrabile che è sembrata da sempre invincibile di uomo politico, pronto a tutte le traversìe del destino in quasi un secolo di vita, Giulio Andreotti ha imparato ad indossarla fin dagli esordi del suo infinito viaggio nelle istituzioni dello Stato. E' diventato adulto con quell'"indumento" addosso e l'ha ispessito strada facendo in tutti i luoghi della politica italiana, rinforzandolo con la sua ironia sofisticata e il suo micidiale sarcasmo. 

Il "graffio" sulla "corazza". Nessun altro prima di lui ha dovuto e saputo affrontare tante tempeste giudiziarie, una più devastante dell'altra, tra condanne, assoluzioni e prescrizioni, tutto con la stessa impettita fermezza e una compostezza rigorosamente rispettosa verso i giudici. Tuttavia, alla fine, su quella corazza, un "graffio" incancellabile è rimasto, provocato da una sentenza storica della Cassazione, quella del 2 maggio 2003: "La partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione" con la mafia. Almeno fino al 1980. 

Le collusioni. Più in dettaglio, la Corte d'Appello scrisse che "con la sua condotta (...) (non meramente fittizia) ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando 
la sua disponibilità a favorire i mafiosi". 
Su di lui, insomma, di accuse se ne sono abbattute tante, alcune delle quali di gravità estrema: da mandante di omicidi, a mestatore di trame oscure, da colluso con strategie golpiste, a frequentatore di personaggi improponibili - come emerso, appunto, durante il processo di Palermo - per un uomo di Stato, quale lui è sicuramente stato per lunghissimi anni. 

Una maschera imperturbabile. Ma sarà probabilmente la sua maschera misteriosa e imperturbabile che resterà per sempre nella memoria di tutti, il suo severo contegno sacerdotale mantenuto anche sotto il diluvio di voci, insinuazioni e sospetti, così come le battute taglienti e gli aforismi illuminanti. La sua immagine rimarrà dunque scolpita nel ricordo dei suoi contemporanei come l'autentico emblema della cosiddetta Prima Repubblica, associato a un'idea della politica che ha permeato e condizionato il nostro Paese per oltre sessant'anni. 

Le tappe. Ecco le principali - non in ordine cronologico - del percorso giudiziario di Giulio Andreotti.

Il processo di Palermo. L'accusa che lo portò davanti ai giudici parlava di "concorso esterno in associazione mafiosa". Un reato ancora al centro di lunghi dibattiti fra giuristi, perché - al contrario del reato di associazione a delinquere - si configura come una sorta di "concorso nel concorso necessario". In altre parole, configura il comportamento di chi, pur non avendo alcun vincolo associativo, di fatto fornisce un contributo concreto al perseguimento degli obiettivi criminosi dell'associazione. 

Un marchio indelebile. Le parole pesanti scritte sulla sentenza, disegnano un profilo drammatico dell'immagine pubblica di Giulio Andreotti. La Corte infatti elenca i punti salienti di una condotta compromessa con un mondo contiguo, se non addirittura immerso, in Cosa Nostra. I giudici parlano infatti di "interventi para-legali, ancorché per finalità non riprovevoli", parlano di "incontri ripetutamente esponenti di vertice della stessa associazione" con i quali intrattiene "relazioni amichevoli, rafforzandone la influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti". E ancora fanno riferimento a un "autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso e indichi ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discuta con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati". E infine parlano di omissioni nel denunciare "elementi utili a far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi", dando ad essi "segni autentici... di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale". 

Piersanti Mattarella. I "fatti di particolarissima gravità" cui allude la sentenza riguardano Piersanti Mattarella, il presidente democristiano della Regione Sicilia, che aveva avviato un processo di pulizia morale nel partito e nell'amministrazione regionale. Casa, questa, che aveva creato non pochi attriti con la mafia. Fu così che la mattina del giorno dell'Epifania del 1980, mentre con la famiglia si recava a messa, Piersanti Mattarella fu ucciso a fucilate. I giudici della Corte d'Appello hanno scritto che Andreotti "era certamente e nettamente contrario" al delitto, ma che però per evitarlo andò in Sicilia per incontrare l'allora capo di Cosa Nostra, Stefano Bontate, per trovare una soluzione, discutendo con il boss mafioso i "problemi" sollevati da Mattarella. 

Logiche non istituzionali. Secondo i magistrati, Andreotti così facendo non si mosse "secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità del presidente della Regione, facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità ed i loro disegni". Al contrario: "ha agito per assumere il controllo della situazione critica e preservare la incolumità dell'onorevole Mattarella, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro che, in quel contesto, non possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali". 

L'omicidio Pecorelli. E' la sera del 20 marzo 1979. Nel quartiere Prati, a Roma, a poca distanza dalla redazione dell'agenzia giornalistica Op, viene ucciso con tre colpi di pistola al volto e uno alla schiena Mino Pecorelli, direttore della stessa agenzia, vicinissima ad alcuni ambienti dei servizi segreti e specializzata in scoop scandalistici, con una spiccata propensione alle insinuazioni pesanti e alle rivelazioni clamorose sul conto del mondo politico.
Dicembre 1993: la Procura di Roma, dopo l'autorizzazione a procedere del Senato contro Andreotti, trasmette gli atti della nuova inchiesta sull'uccisione di Pecorelli alla Procura di Perugia, dopo che uno degli amici più intimi di Andreotti, Claudio Vitalone (all'epoca sostituto procuratore generale a Roma) era finito nell'inchiesta, a seguito delle dichiarazioni di alcuni pentiti della Banda della Magliana. Giulio Andreotti attraversa così una delle fasi più drammatiche della sua vita, perché contemporaneamente è anche chiamato in causa dalla Procura di Palermo, che crede alle affermazioni di Tommaso Buscetta, il quale sostiene che le uccisioni del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e quella di Pecorelli hanno molti punti in comune. Buscetta afferma inoltre che tutti e due i delitti hanno a che fare con il "caso Moro". 
24 settembre 1999. La corte d'Assise di Perugia, quattro anni dopo il rinvio a giudizio, emette la sentenza di assoluzione per i mafiosi Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò e Michelangelo La Barbera, oltre che per l'armiere dei Nar, Massimo Carminati, il magistrato Vitalone e lo stesso Giulio Andreotti dall'accusa di essere (secondo i casi) mandanti, organizzatori o esecutori dell'omicidio di Pecorelli.
17 novembre 2002. La Corte d'Assise d'Appello di Parugia condanna a 24 anni di reclusione Giulio Andreotti e Gaetano Badalamenti, considerati i principali registi del delitto Pecorelli. Vengono invece confermate le assoluzioni per tutti gli altri.
30 ottobre 2003. La Corte di Cassazione - a sezioni riunite - annulla senza rinvio la sentenza d'appello e assolve tutti per non aver commesso il fatto. 

I rapporti con Dalla Chiesa. E' il 1982 e Giulio Andreotti non ha incarichi di governo. Però si prodiga affinché il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa accetti l'incarico di Prefetto di Palermo. L'alto ufficiale dei carabinieri nelle pagine di un diario scrive tra l'altro che la corrente Dc che fa capo ad Andreotti in Sicilia sarebbe, di fatto, la frangia politica più inquinata da presenze mafiose. Dalla Chiesa scriverà poi sul suo quaderno, a proposito di Andreotti: "... sono stato molto chiaro con lui e gli ho dato la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori... Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno... lo ha condotto e lo conduce ad errori di valutazione...".

E quelli con Sindona. Stando agli atti scritti dai giudici di Perugia e di Palermo, Andreotti aveva vecchie relazioni con Michele Sindona, oltre che con diverse persone in qualche misura coinvolte nelle vicende del banchiere fondatore della Banca Privata Italiana, esponente delle loggia massonica P2. Relazioni che si infittirono nel 1976 quando ci fu il fallimento del finanziere e che coincisero con l'intervento di Licio Gelli presso lo stesso Andreotti (allora ministro della Difesa), il quale si prodigò, ma senza esito, affinché l'allora ministro del Tesoro, Ugo La Malfa, intervenisse per salvare le banche di Sindona. Andreotti, tuttavia, negò sempre l'interessamento che fu - disse - solo istituzionale.

La morte del banchiere. Un caffè al cianuro stroncò la vita di Sindona il 22 marzo del 1986, mentre era in carcere, all'indomani di una condanna all'ergastolo per l'omicidio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso a Milano l'11 luglio del 1979, mentre svolgeva il suo incarico di liquidatore. Anche in questa vicenda spuntò fuori il nome di Andreotti, sul conto del quale si era avanzata un'ipotesi secondo la quale a far avere la bustina di zucchero avvelenata in carcere sarebbe stato proprio lui, nel timore - si insinuò - che Sindona durante il processo d'appello rivelasse segreti riguardanti i rapporti di politici italiani con Cosa Nostra e la P2. Ipotesi, questa, mai sorretta da alcuna prova concreta capace di coinvolgere Giulio Andreotti.

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