lunedì 26 luglio 2021

RITA ATRIA ,TESTIMONE DI GIUSTIZIA: "La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci"

   RITA  ATRIA  testimone di giustizia

 "(...) Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; 
la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. (...)".
"(...) Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare?
Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse, ce la faremo".

Il contributo di Rita Atria alla lotta culturale contro le mafie
Il contributo di Rita Atria alla lotta culturale contro le mafie è essenziale perché Rita Atria aiuta a comprende "la verità" su uno dei drammi che segnano ancora oggi la storia del nostro paese. Quando ci chiediamo cosa sono le mafie la risposta più semplice, essenziale, la troviamo “facendo memoria” delle parole scritte da Paolo Borsellino la mattina del 19 luglio 1992, rispondendo alla lettera che gli era giunta da parte di una preside, poche ore prima di essere ucciso insieme agli agenti della sua scorta: “(…) La mafia è essenzialmente ingiustizia.(...)”
Ma provando a rispondere a quella domanda (cos'è la mafia?) dobbiamo “fare memoria” di un altro “pezzo di verità” che emerge proprio dalla storia di questa ragazzina siciliana, divenuta testimone di giustizia grazie all'esempio della cognata Piera Aiello e dal loro incontro col giudice Paolo Borsellino. Nelle ore che seguirono la strage di Via D'Amelio, la morte dello “zio Paolo”, Rita Atria scrive nel suo diario il “pezzo di verità” dinanzi alla quale tutti siamo chiamati a confrontarci: “(...) Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, perché la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi.
Ma l'insegnamento di Rita Atria è strettamente legato alla “presa di coscienza” e alla volontà di cambiamento che la sua stessa vita esprimono. Lo avevamo scritto all'inizio della nostra esperienza, quando avevamo scelto di dedicare il nostro impegno alla sua figura: pur essendo nata in una famiglia mafiosa,  Rita Atria scelse di denunciare per tentare di “cambiare” il mondo nel quale era nata e che la soffocava (….) Il valore del messaggio contenuto nelle parole di Rita Atria, la sua figura di “giovane donna”, ci paiono anche rispecchiare la speranza di cambiamento che leghiamo all'immagine della componente femminile della nostra società, della donna.
Volendo sostenere la prova di maturità nel luglio del 1992, poche settimane dopo la strage di Capaci, Rita dimostra di essere una ragazza-donna forte, presente e partecipe del momento storico che vive,nonostante i drammi della sua vita personale. Le sue riflessioni sulle conseguenze immediate che l'uccisione di Giovanni Falcone potrà produrre nella lotta alle mafie sono analisi lucide e profonde: le ritrattazioni, le misure necessarie per sostenere coloro che vorrebbero denunciare i mafiosi; la debolezza organizzativa e di mezzi che palesa lo stato italiano nella lotta alle mafie. E poi, sempre nel suo tema di maturità, l'appello, le parole rivolte ai ragazzi e alle ragazze che, come lei, vivevano in “famiglie mafiose”(...) L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.
Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo".
Piera Aiello
Rita vive la sua vita con coraggio e forza, rivolgendo sempre lo sguardo fuori da sé; vive sino all'ultima speranza, la speranza riposta nella vita stessa dell'uomo in cui Lei stessa e l'Italia onesta si riconoscevano: Paolo Borsellino. Ma Rita Atria continua a vivere accanto alle tante vite di tanti, primi fra tutto lo “zio Paolo”, Paolo Borsellino, e Giovani Falcone.
Piera Aiello è stata eletta deputata nelle ultime elezioni politiche e siede ora nel Parlamento Italiano: dopo lunghi anni di anonimato, vissuti sotto protezione in una località segreta, sotto,  ha potuto riavere il suo vero nome, mostrare il suo volto.




(...) la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi":
il pericolo di essere, o diventare, la  "docile antimafia"
Il nostro modo sbagliato di comportarci, l'ottenere quello che non ci meritiamo, costituisce quello che noi dell'Associazione“Rita Atria” Pinerolo abbiamo definito come “pensiero mafioso”: l'ingiustizia piccola o grande commessa ai danni di qualcun altro per per trarne qualche beneficio immeritato. Si tratta di un meccanismo semplice, primitivo ma efficacissimo in un “sistema malato” quale quello italiano, soggiogato da mafie e corruzione. Talmente efficace, quel “pensiero”, che da tempo viene utilizzato anche da coloro che “mafiosi” in senso stretto non sono e non possono essere definiti.
Fare memoria di Rita Atria per noi non significa quindi commemorare la morte della ragazzina siciliana quanto provare a rendere concreto l'insegnamento della sua vita, agendo per liberarci, noi per primi, dal "pensiero mafioso", cercando poi di riconoscerlo e contrastarlo negli atti della vita quotidiana. Perche, come diciamo spesso, se è vero che pochi di noi avranno la ventura di trovarsi dinanzi ad un mafioso propriamente detto, tutti noi -quotidianamente- ci scontriamo col “pensiero mafioso”.

La domanda essenziale, la traccia che lega i momenti e gli atti del nostro impegno diviene pertanto la seguente: "Come provare ad essere “sentinelle”, contro mafie e pensiero mafioso, nella nostra comunità? Cosa cambia per una comunità se ad usare il “pensiero mafioso” è un mafioso propriamente detto oppure uno (o un gruppo!) che persegue gli stessi obiettivi per ottenere ciò che non si merita?
Questo, a nostro parere, il significato della vita di Rita Atria, questo l'impegno dell'Associazione "Rita Atria" Pinerolo, essere "sentinelle del territorio", volendo tenersi ben distinta dalla "docile antimafia", legata  all'accaparramento di fondi,  carriere, accreditamenti e silenzi"; una "docile antimafia così ben descritta nel libro di Attilio Bolzoni "Il padrino dell'antimafia" (p. 189 e seg.): (...) Da quando esiste l'antimafia moderna -una trentina d'anni ufficialmente, dai giorni dell'omicidio del generale dalla Chiesa- non è mai stata così ubbidiente, cerimoniosa, attratta dal potereSopravvive fra liturgie, litanie e un fiume di denaro. Tutto ciò che conquista lo status di antimafia certificata» si trasforma in milioni o in decine di milioni di euro, in finanziamenti considerevoli a federazioni antiracket, in contribu ti per «vivere la neve (naturalmente con legalità), in uno spargimento di risorse economiche senza precedenti e nel più assoluto arbitrio. 
È un'Antimafia sottomessa alla concessione dei Pon (Programma operativo nazionale Sicurezza per lo Sviluppo, ministero dell'Interno). Questi Pon secondo me necessitano di una verifica, di un monitoraggio, sui soldi che vengono spesi e quelli che non vengono spesi e tornano in Europa. Si tratta di cifre considerevoli che non sempre prendono strade virtuose. 
(...)Cosi l'Antimafia è diventata docile, addomesticata. Il patto non scritto e non disturbare mai il potente del momento. È una Antimafia ferma, in posa perenne, conformista, sempre pronta con la retorica a ricordare i suoi «eroi, ma soprattutto a non restare con le tasche vuote. È un' Antimafia che è diventata consociativa. Non ci sono più zone franche nell'Antimafia. Anche nelle associazioni più grandi e più rispettabili negli ultimi anni c'è stata una mutazione del dna. Alla denuncia si è preferito l'assalto agli incarichi, alle consulenze, l'associazione antimafia a volte è diventata il trampolino di lancio per carriere politiche. Anche qui bisogna procedere passo dopo passo senza generalizzare. Ma credo che sia evidente che l'antimafia ha perduto il suo spirito originario. Molte associazioni non rappresentano più «un'altra voce. Proprio in questo momento che, qui in Italia, si sente il bisogno di un'altra voce più che mai.(...)".

Aveva ragione Rita Atria: (...) la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi":

Rita Atria
Il giorno dopo la strage di via D'Amelio, Rita scrive nel suo diario nel diario le parole che costituiscono il suo testamento spirituale, parole che da allora -come abbiamo spesso detto- si impongono alla riflessione di ognuno: "(…)Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita …Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta. " 
Nonostante l'affetto e la vicinanza di Piera Aiello, con Paolo Borsellino muore anche “la speranza" del cambiamento possibile che Rita Atria aveva riposto nel giudice. "Un'altra delle mie stelle è volata via., me l'hanno strappata dal cuore". Queste sono le parole che Rita confiderà singhiozzando a Piera, dopo aver appreso della morte del giudice e degli agenti della sua scorta, le parole riportate dal Piera Aiello nel suo libro "Maledetta mafia"
Sabato 25 luglio 1992. Rita aveva deciso di restare a Roma e non seguire Piera Aiello che ha bisogno di andare in Sicilia: tornare per rivedere la madre e cercare di attenuare in qualche modo l'angoscia della morte dello "zio paolo". All'aeroporto, improvvisamente, Rita dice a Piera:  "Io non parto".  E ritorna nella casa di Via Amelia, nel quartiere Tuscolano.
Domenica 26 luglio 1992, la domenica successiva alla strage di via D'AmelioIn quel pomeriggio Rita si lascia cadere, lascia cadere l'ultima speranza, dal balcone dell'appartamento di Via Amelia regalando per sempre la sua vita a noi.


Tema di maturità di Rita Atria
Titolo
"La morte del giudice Falcone ripropone in termini drammatici il problema della mafia. Il candidato esprima le sue idee sul fenomeno e sui possibili rimedi per eliminare tale piaga".
Svolgimento
"La morte di una qualsiasi altra persona sarebbe apparsa scontata davanti ai nostri occhi, saremmo rimasti quasi impassibili davanti a quel fenomeno naturale che è la morte del giudice Falcone, per chi aveva riposto in lui fiducia, speranza, la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto, era un esempio di grandissimo coraggio, un esempio da seguire. Con lui è morta l'immagine dell'uomo che combatteva con armi lecite contro chi ti colpisce alle spalle, ti pugnala e ne è fiero. 
Mi chiedo per quanto tempo ancora si parlerà della sua morte, forse un mese, un anno, ma in tutto questo tempo solo pochi avranno la forza di continuare a lottare. Giudici, magistrati, collaboratori della giustizia, pentiti di mafia, oggi più che mai hanno paura, perché sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno se parlano troppo potrà salvarli da qualcosa che chiamano mafia.
 Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un'immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare. Ascoltiamo, vediamo, facciamo ciò che ci comandano, alcuni per soldi, altri per paura, magari perché tuo padre volgarmente parlando è un boss e tu come lui sarai il capo di una grande organizzazione, il capo di uomini che basterà che tu schiocchi un dito e faranno ciò che vorrai.
Ti serviranno, ti aiuteranno a fare soldi senza tener conto di nulla e di niente, non esiste in loro cuore, e tanto meno anima. La loro vera madre è la mafia, un modo di essere comprensibile a pochi. Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. 
I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c'e chi ha paura come Contorno, che accusa la giustizia di dargli poca protezione. Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per rassicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un'altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.
L'unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.
Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.
Rita Atria
Erice 5 giugno 1992

lunedì 19 luglio 2021

19 luglio 1992 - ore 16.58 - Strage di Via D'Amelio: Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli

19 luglio 1992 - ore 16.58 - Strage di Via D'Amelio:  il dovere di fare memoria sullo scandalo di una strage di Stato, sull'infamia di "pezzi" di Stato collusi con mafie e "zona grigia". Anche la Strage di Via D'amelio, come le altre che hanno insanguinato la storia del nostro Paese, attende piena Verità e piena Giustizia. Questo il debito che abbiamo nei confronti di coloro che persero la vita per essere, sino in fondo, fedeli servitori dello Stato e della comunità. 

Lo scorso anno le parole dell'avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino (fratello minore del magistrato)non lasciavo spazio a coperture di alcun genere: "(...) un attentato “con il marchio del Viminale e della Polizia di Stato” dell’epoca. (...) esistono ancora clamorosi punti oscuri, troppe lacune, tanti tasselli che le procure competenti non vogliono evidentemente ricostruire pur avendo gli elementi a disposizione. Si aspetta che qualcuno parli ma le voci di chi sa sono ancora mute (...)”. 


“È uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Così I giudici della corte d’assise di Caltanissetta si erano espressi nelle motivazioni della sentenza del processo "Borsellino quaterdepositate dopo la sentenza emessa nell'aprile 2017. In quelle motivazioni si evidenziava l'esistenza di misteri e depistaggi condotti da personalità appartenenti allo Stato. I giudici imputano il depistaggio agli investigatori dell’epoca e parlano espressamente di “disegno criminoso”, dove il movente sarebbe proprio da cercare nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato: "un proposito criminoso degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri". L'ex questore La Barbera, deceduto nel dicembre 2002, è stato accusato anche della sparizione del diario di Borsellino e la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per tre poliziotti. (leggi qui)
Le parole di Agnese Piraino Leto, moglie di Paolo Borsellino: «Paolo mi disse: “Mi ucciderà la mafia ma solo quando altri glielo consentiranno”»
Le dichiarazioni più volte rilasciate da Fiammetta Borsellino, una delle figlie del giudice Paolo: "Ci sono tante persone che devono dare spiegazioni e nessuna delle persone interessate ce ne ha date. Il depistaggio iniziò subito, dalle indagini affidate a un appartenente al Sisde a una procura impreparata". 
Salvatore Borsellino, il fratello del giudice:Potrò seppellire Paolo solo quando potrò mettergli fra le mani quell’Agenda rossa. Solo allora potremo chiudere quella bara”.


PER AMORE

Paolo Borsellino (52 anni) giudice 
 Agostino Catalano (43 anni) assistente-capo Polizia di Stato 
Emanuela Loi ( 24 anni) agente della Polizia di Stato 
Walter Eddie Cosina (31 anni) agente scelto Polizia di Stato 
Claudio Traina (27 anni) agente scelto  Polizia di Stato  
Vincenzo Li Muli   (22 anni) agente  Polizia di Stato

Resta ferito l‟ultimo agente della scorta, Antonio Vullo, che si salva poiché era rimasto all'interno di una delle auto blindate, cercando di parcheggiare la vettura.


La strage di via D'Amelio.

Paolo Borsellino: "Per battere la mafia lo Stato meriti fiducia. (...) Bisogna prendere atto che il sottosviluppo economico non è da solo responsabile della tracotanza mafiosa, che ha radici ben più complesse". Qui l'articolo integrale su AGI

Fonte AGI:  Un audio inedito del giudice Paolo Borsellino è stato ritrovato negli archivi dell'Istituto siciliano di studi politici ed Economici (Isspe). Si tratta di un'audio-registrazione di 26 minuti il cui contenuto è stato trascritto a macchina con le correzioni a mano fatte dallo stesso magistrato. L'AGI ne pubblica in esclusiva un estratto insieme al testo scritto. In questo, Paolo Borsellino affronta il tema della lotta alla mafia, senza sconti per la politica e la borghesia. 

Fabrizio Fonte, presidente del Centro studi Dino Grammatico e vice presidente di Isspe: "La registrazione, per la sorprendente attualità delle riflessioni espresse dall'indimenticabile magistrato palermitano su Cosa nostra, meritava di essere resa pubblica. Questo ritrovamento ha un valore storico e culturale perchè ci consente di poter ascoltare dalla viva voce del giudice Paolo Borsellino un'analisi di ciò che era la Sicilia in quegli anni, senza alcuna mediazione o alterazione,  basta pensare che, nel corso di questi trent'anni, caratterizzati anche da tristi e preoccupanti depistaggi, le uniche certezze sono state radicate a interviste e interventi dell'epoca, sia Borsellino sia dal magistrato Giovanni Falcone, comprendendo ogni volta qualcosina in più". 

Riportiamo alcuni stralci della riflessione di Paolo Borsellino:

    Paolo Borsellino: "Per battere la mafia lo Stato meriti fiducia" 

"Bisogna prendere atto che il sottosviluppo economico non è, o non è da solo, responsabile della tracotanza mafiosa, che ha radici ben più complesse, tanto da farla definire in recenti studi non il prezzo della miseria, ma il costo della sfiducia.(...)

La risposta statuale intesa in termini meramente quantitativi di impiego di risorse umane e finanziarie non risolve il problema e altri spesso lo aggrava. Tutti abbiamo recentemente appreso delle polemiche scatenatisi in ordine alla grande profusione di risorse finanziarie nei territori campani terremotati che hanno finito per scatenare gli appetiti della camorra, trasformando quelle terre per il loro accaparramento in un tragico teatro di sangue ed è noto quale timore si nutrono a Palermo per l'attenzione immancabile di Cosa nostra al fiume di finanziamenti che, si spera, dovrebbero apprestarsi a riversarsi sulla nostra città. (...)

La via obbligata per la rimozione delle cause che costituiscono la forza di Cosa nostra passa attraverso la restituzione della fiducia nella pubblica amministrazione. Nessun impiego anche massiccio di risorse finanziarie produrrà benefici effetti se lo Stato e le pubbliche istituzioni in genere, non saranno posti in grado e non agiranno in modo da apparire imparziali detentori e distributori della fiducia necessaria al libero e ordinato svolgimento della vita civile. Continuerà altrimenti il ricorso, e non si spegnerà il consenso, espresso o latente, attorno a organizzazioni alternative in grado di assicurare egoistici vantaggi, togliendoli, evidentemente ad altri. (...).

La fiducia che distribuisce la mafia è a somma algebrica zero. Fiducia nello Stato significa anche fiducia in un'efficiente amministrazione della giustizia sia penale, sia soprattutto civile. Si tratta di impedire che, specie in Sicilia si perpetui e consolidi il ricorso a un sistema alternativo criminale di risoluzione delle controversie. E fiducia nelle istituzioni significa soprattutto affidabilità delle amministrazioni locali, quelle cioé con le quali il contatto con i cittadini è immediato e diretto. Si tratta di gestire la cosa pubblica senza aggrovigliarsi negli interessi particolaristici e nelle lotte di fazioni partitiche. Il rischio, altrimenti, per le istituzioni che sono incapaci di riformarsi e di guardare la bene comune, è quello di diventare veicoli principali delle pressioni mafiose e delle lobby affaristiche loro contigue. (...)    

Una sfida che lo Stato deve vincere in tempi rapidi perché è in grado di farlo, se non entro il 1992, come ottimisticamente recita il titolo di questo convegno (organizzato nel gennaio 1989, ndr) almeno in tempi che ci consentano di affrontare la maggiore integrazione europea forti di una sana e ordinata vita civile. Questo aspettano le nuove generazioni che tutte ormai si dimostrano, anche clamorosamente, desiderose di vivere in modo diverso e migliore del nostro. Esse ci richiedono questi impegni e questi sacrifici"


giovedì 8 luglio 2021

SINDACI CONTRO LA MAFIA...e contro il "pensiero mafioso"

L'Associazione "Rita Atria" Pinerolo è onorata di partecipare ed invitare all'incontro che si terrà a Cumiana il prossimo sabato 10 luglio "SINDACI CONTRO LAMAFIA". Nell'incontro conosceremo più da vicino due storie emblematiche, due storie che dimostrano come il coraggio di essere amministratori che difendono la bellezza del proprio territorio sia premessa fondamentale per contrastare mafie, "pensiero mafioso" e "opportunisti" (vedi qui la definizione che ne diede Gian Carlo Caselli!). L'incontro vedrà come ospiti Dario Vassallo, fratello del “sindaco pescatore” Angelo Vassallo, ucciso a Pollica (SA) il 5 settembre 2010, e Matilde Casa, sindaco di Lauriano “Ambientalista dell’anno 2016”.

Sin dall'inizio della nostra esperienza associativa abbiamo scritto e ripetuto più volte come, a nostro parere, "(...) la "gestione del territorio" può rappresentare un indicatore utile ad individuare gli scopi, gli indirizzi,  il “progetto generale” che guida e determina non solo il carattere di una amministrazione locale ma anche della sua comunità . Non solo: avere cura e amore per i territori è un primo ma fondamentale strumento per opporsi a mafie e "pensiero mafioso". 

Fonte: VITA Diocesana:

"Sabato 10 luglio alle ore 20:45 il parco pubblico comunale di Villa Venchi a Cumiana ospiterà “Sindaci contro la mafia”. Alla serata sarà presente Dario Vassallo, fratello del “sindaco pescatore” Angelo Vassallo, ucciso a Pollica (SA) il 5 settembre 2010 in un agguato di matrice camorristica, probabilmente per il suo impegno ambientale a difesa del territorio e del consumo del suolo. Ancora oggi non sono stati individuati mandanti ed esecutori dell’omicidio. Dario Vassallo presenterà il suo ultimo libro, “La verità negata”, offrendo un’occasione per riflettere sui temi della difesa del territorio, politiche ambientali, ruolo dei sindaci. 

Altro ospite dell’evento sarà il sindaco di LaurianoMatilde Casa, a cui Legambiente ha assegnato il premio “Ambientalista dell’anno 2016” per il suo impegno contro il consumo del suolo. Un operato, il suo, che l’ha condotta persino a finire sotto processo, per poi uscirne completamente assolta.(...)"





venerdì 25 giugno 2021

Paolo Borsellino, Palermo, 25 giugno 1992: "I giorni di Giuda"

Il 25 giugno 1992 Paolo Borsellino interviene ad un dibattito organizzato dalla rivista MicroMega presso l'atrio della Biblioteca Comunale di Palermo; sarà il suo ultimo intervento pubblico.

La giornata di giovedì 25 giugno 1992 era stata l'ennesima stazione del "calvario" patito da Paolo Borsellino: fu gli ufficiali Sinico e Baudo dei carabinieri di Palermo si recano con il collega maresciallo Lombardo al carcere di Fossombrone per interrogare Girolamo D‟Adda sulle circostanze inerenti la strage di Capaci ed i possibili sviluppi futuri. Sinico e Baudo non partecipano al colloquio, ma apprendono dal maresciallo Lombardo che “negli ambienti carcerari si dà il Dott. Borsellino per morto”. Non appena rientrato a Palermo il Cap. Sinico riferisce la notizia a Borsellino il quale afferma di essere a conoscenza del progetto di attentato ai suoi danni, ma fa capire che preferisce accentrare su di sé i pericoli per risparmiarli alla propria famiglia.*
Alla biblioteca comunale di Palermo si svolge nella serata di quel giorno serata un pubblico dibattito organizzato dalla rivista MicroMega a cui partecipa anche Borsellino. Quella sera, nell‟atrio della biblioteca comunale, il Procuratore aggiunto di Palermo si definisce apertamente un testimone, e rivela di essere a conoscenza di “alcune cose” che riferirà direttamente “a chi di competenza”, all‟autorità giudiziaria. Sono elementi utili a chiarire l‟intreccio criminale che in quei giorni minaccia la tenuta delle Istituzioni democratiche in Italia? Non lo sapremo mai perchè Paolo Borsellino non sarà mai interrogato.
Rita Borsellino sottolinea come mai, nella sua lunga carriera di magistrato, il fratello Paolo avesse lanciato “un avvertimento così esplicito”. A chi? E perché?
La moglie Agnese, che da casa segue l‟intervento della biblioteca comunale su un‟emittente locale, impallidisce e salta sulla sedia: “Ma che dice Paolo?” mormora con un filo di voce: “Se fa così, lo ammazzano...”*
Mentre Borsellino parla, il silenzio del pubblico è assoluto. Ma quando il magistrato ricostruisce la vicenda della mancata nomina da parte del CSM a Consigliere Istruttore di Palermo nel 1988 e parla apertamente di un qualche Giuda che si impegnò subito a prendere in giro Falcone un lungo applauso lo interrompe. Il cronista del Corriere della Sera scrive il giorno successivo: “Chi è Giuda? La gente, in piedi ad applaudire, lo identifica subito in Vincenzo Geraci, allora componente del Csm”.
Tornato a casa si ritrovò Paolo Borsellino si ritorvò le tasche della giacca piene di bigliettini che gli avevano infilato alcuni cittadini commossi.

Il video è frutto del lavoro del giornalista Pippo Ardini, scomparso l'8 dicembre 2009.



Paolo Borsellino: "Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.
Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.
Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il primo gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica.
Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua candidatura a succedere ad Antonino caponetto il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.
Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse.
Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro "La mafia d’Agrigento", denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio.
Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.
Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, à un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento, sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato, servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva.
Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato.
Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura".
Paolo Borsellino
Palermo, 25 giugno 1992

mercoledì 16 giugno 2021

La "maturità" in alcuni giovani di questo Paese, in quest'anno con tanti "senza", ancor col bisogno di fare "cento passi".

Siamo giunti alla seconda "notte prima degli esami" nel tempo della pandemia. Che sia l'ultima! Per coloro che sono giunti alla soglia delle sessanta primavere, vi sono prossimi o l'hanno da poco superata, queste notti continuano ad avere il sapore lontano de "la notte prima degli esame" descritta nella celebre canzone di Antonello Venditti. Inutilmente, anche "sessantenni", proviamo ad immaginare le notti delle giovani e dei giovani d'oggi,  forse trincerandoci dietro la comoda scusa che tanto "sono così diversi da noi".  Che la pandemia non sia servita a migliorare le comunità, quanto piuttosto a fortificare egoismi ed aumentare diseguaglianze, è un dato di fatto su cui la Storia forse interrogherà le classi dirigenti dei nostri giorni. Dal mondo della Scuola, uno dei gangli essenziali di una comunità, dai giovani protagonisti di quel mondo, giungono due notizie che a nostro parere dovrebbero far riflettere su cosa significhi veramente Scuola: su cosa deve essere "scuola", su cosa deve insegnare, sui valori che la Scuola deve esprimere e trasmettere, del bisogno ancora impellente -anche in alcuni giovani- di dover fare memoria di quei "cento passi" che un giovane siciliano, Peppino Impastato, giovane per sempre,  ha provato a fare per costruire una vita diversa, migliore, per se stesso e per la comunità.

La prima notizia: Giorgia Lo Schiavo, diciottenne studentessa di Bari, di cui L'ESPRESSO n.  pubblica una sua riflessione sulla maturità. E in quella riflessione come non cogliere il nesso con la "maturità" a cui tutti saremmo chiamati ad affrontare, come cittadine e cittadine, come parti di una comunità: "(...) siamo Scuola quando e dove siamo insieme e insieme costruiamo, ragioniamo, pensiamo il futuro, accudendo i nostri sogni e coltiviamo i nostri sogni e coltivando la speranza; siamo Scuola quando capiamo che responsabilità è prendersi cura gli uni degli altri, e lottare, tenaci, per cambiare il presente (aveva ragione la mia professoressa che, mentre spiegava gli anni '70, ha detto: la storia di uno Stato è la storia dei cittadini e l'unico modo per cambiarla è il loro impegno).

La seconda notizia: i "centopassi del Maurolico". Il coro del liceo classico di Messina offre un segno tangibile di memoria viva, interpretando in maniera originale ed emozionante la canzone composta dai Modena City Ramblers per il film che ebbe il grande merito di far scoprire la figura di peppino Impastato. "L'emozione più grande è stato il messaggio della nipote di Peppino Impastato. Ci ha chiesto di poter condividere il video e di andare a ripetere la canzone nella casa di Cinisi dedicata alla memoria di Impastato. Un ringraziamento ai ragazzi del Maurolico è giunto anche da parte di Claudio Fava (figlio di Beppe Fava) fra gli sceneggiatori del film ed ora è presidente della Commissione antimafia della regione Sicilia: "(...) un grazie a tutti coloro che si impegnano lontani dalla solita retorica dell'antimafia a mantenere vivo il ricordo di chi la mafia l'ha combattuta sul serio. (...) Troppe volte, infatti, nel ricordo delle tante- troppe- vittime della mafia tendiamo a focalizzarci sull’atto finale. Sulle efferate dinamiche degli omicidi e degli attentati. Io credo, invece, che occorra sempre di più ricordarne la vita. Ricordare l’impegno e le azioni. Perchè queste sono il lascito più importante che abbiamo.  Il vostro lavoro, la gioia nel realizzarlo che traspare, è qualcosa di più di un semplice tributo.(....)".



Giorgia Lo Schiavo, 18 anni, studentessa del liceo Gaetano Salvemini di Bari. Fonte: Blog ilgranteatrodelmondo2.weebly.com ORIPRODUZIONE, articolo pubblicato su L'ESPRESSO 

La nostra maturità in questo anno senza"


"Non voglio sapere che giorno è: il tempo corre e io non so fermarlo. Manca poco alla maturità, di questo sono certa: lo dicono i libri aperti davanti ai miei occhi, spalmati sulla scrivania fra le bozze dell'elaborato che ho preparato per la prova orale. Il ruolo della scienza nella costruzione della pace, con uno sguardo al Cern di Ginevra. E Daniele Del Giudice, autore di un romanzo straordinario ambientato proprio nei laboratori scientifici di Ginevra, l'atlante che Italo Calvino avrebbe sicuramente amato, un romanzo portatore di una nuova poetica dello sguardo (c'est le regard qui fait le monde) e del rispetto per le cose. Un testo che racconta una sfida meravigliosa: sforzarsi di vedere in un tempo in cui le cose stanno scomparendo, non troppo diverso da questo nostro presente (passato, speriamo) impazzito fatto di non luoghi virtuali. È un esperimento che forse un po' assomiglia al modo in cui abbiamo fatto scuola in questo nostro ultimo anno, impegnandoci ad esserci in assenza di corpi, banchi, sedie, baci, corridoi, gite, abbracci, panini mangiati di nascosto mentre la prof disperata spiega Seneca.
Di quest'anno difficile costruito con molti “senza” non voglio dimenticare nulla, perché tutto è stato prezioso, persino il buio (è dal buio che dobbiamo ripartire per ricostruire cosa si è spezzato, cosa non ha funzionato). Mentre la politica metteva la scuola (e l'università) all'ultimo posto del la lista delle priorità, noi abbiamo continuato a camminare: si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà, ha scritto Aldo Moro.
Porto via con me una lezione importante, forse la più preziosa di tutte: siamo Scuola quando e dove siamo insieme e insieme costruiamo, ragioniamo, pensiamo il futuro, accudendo i nostri sogni e coltivando nostri sogni e coltivando la speranza; siamo Scuola quando capiamo che responsabilità è prendersi cura gli uni degli altri, e lottare, tenaci, per cambiare il presente (aveva ragione la mia professoressa che, mentre spiegava gli anni '70, ha detto: la storia di uno Stato è la storia dei cittadini e l'unico modo per cambiarla è il loro impegno).
E poi porto via anche con me il senso di smarrimento, la paura, la rabbia e la tristezza. La difficoltà di provare a progettare il domani quando pensi che ti sia stato tolto tutto e non esiste un colpevole, l'affetto inestimabile nascosto nei «Ti capisco», «Mi sento proprio così», il tentativo di esercita re la prossimità nella lontananza. I quattro ultimi-primi giorni di scuola che ci sono stati concessi, tutti i momenti nostri in cui ci siamo riconosciuti dietro le mascherine, col nostro bagaglio di speranze e timori.
Ma finirà, e noi andremo. Guarderemo questo groviglio di emozioni con un po' di tenerezza e lo metteremo in tasca. Piange remo un po', perché salutare i ricordi fa questo effetto. E poi lì, sulla soglia, ci guarderemo negli occhi, compagni per l'ultima volta e per sempre, col mondo fra le dita. C'è una poesia di Apollinaire che parla della paura di volare, del momento prima della partenza in cui il nodo in gola appesantisce il corpo. È l'attimo prima di crescere, credo: "Avvicinatevi all'orlo", disse. / "Non possiamo, abbiamo paura." / "Avvicinatevi all'orlo." / "Non possiamo, cadremo giù." / "Avvicinatevi all'orlo." / Si avvicinarono... lui li spinse. E volarono». 
Non voglio dimenticare nemmeno questa paura qui, il momento in cui siamo diventati grandi per davvero. Colleghi, amici, compagni, insegnanti (persino e soprattutto): adesso tocca a noi.


I "centopassi"del Maurolico, il linguaggio della musica per educare alla legalità: “L'emozione più grande è stato il messaggio della nipote di Peppino Impastato. Ci ha chiesto di poter condividere il video e di andare a ripetere la canzone nella casa di Cinisi dedicata alla memoria di Impastato”. 


I "centopassi"del Maurolico

Fonte: MESSINA TODAY: 
L'emozione più grande è stato il messaggio della nipote di Peppino Impastato. Ci ha chiesto di poter condividere il video e di andare a ripetere la canzone nella casa di Cinisi dedicata alla memoria di Impastato”. 
Il video è quello degli studenti del liceo classico Maurolico. Si intitola "I cento passi" ed è tratto dal brano dei Modena City Ramblers. A parlare invece è l'anima di questo coro, Agnese Carrubba, musicista e maestra da quattro anni dell'ormai celebre coro del liceo classico messinese che quest'anno ha voluto porre l'accento sul valore della legalità, la stessa che si coltiva a scuola, obiettivo primario per la formazione dei giovani. A due giorni dalla pubblicazione, ha già ottenuto oltre ventimila visualizzazioni. Emoziona e racconta la storia di Peppino Impastato, vittima di mafia.
E' stata davvero una delle esperienze più belle da quando lavoro con i ragazzi del Maurolico - spiega Agnese Carrubba a MessinaToday - e certo non possiamo dire che anche prima non ci siamo presi le nostre soddisfazioni. I ragazzi non studiano musica al liceo ma il coro è una istituzione da vent'anni. Lo scorso anno abbiamo festeggiato infatti il ventennale con i tre direttori che si sono susseguiti da quando è nato. E' stato un grande concerto con oltre cento coristi che hanno rappresentato la storia del Maurolico. Io sono l'ultima arrivata ma abbiamo già fatto tante grandi cose insieme. Due anni fa abbiamo vinto il primo premio Gef a Sanremo e da lì abbiamo continuato il nostro percorso. Purtroppo il Covid ci ha fermati nelle lezioni in presenza ma questo video è la prova che l'arte trova altre strade per farsi largo anche davanti a mille difficoltà. Da casa abbiamo sempre continuato a lavorare. Io creo l'arrangiamento, le voci guida, e loro mi mandano le registrazioni fatte con il telefonino. Poi la straordinaria Deborah Bernava, che ha curato anche la regia, riesce a montare il tutto con grande maestria”.
Ma come nasce l'idea dei Centopassi?Nasce su input della dirigente Giovanna De Francesco che da tempo, con la 'storica' coordinatrice del progetto Silvana Salandra, mi sollecitava a lavorare sul tema della legalità. Ci ho pensato e ripensato ma niente come questo ragazzo che ha sacrificato la sua vita all’impegno sociale e civile mi è sembrato più vicino a nostri giovani. Ho visto il film e ho scritto quasi di getto 56 pagine di arrangiamento corale e percussioni legati a suoni della scuola. La parte ritmica che sentite nel video è fatta tutta di suoni legati proprio al mondo della scuola. Matite, gessetti alla lavagna, pugni battuti sui banchi. E le voci. Quelle in coro che mi danno sempre più soddisfazioni. Ho chiesto l'autorizzazione alla dirigente a fare le riprese tra i banchi di scuola e, a piccoli gruppi, mantenendo tutte le misure di precauzione legati al Covid, abbiamo fatto le riprese”. 
Ma l'emozione più grande è stata proprio quella di sentirli cantare. Sì, cantare con tale sincerità è la cosa che mi emoziona di più - continua Carrubba -  Si sono sentiti subito dentro il tema. Vestiti anni Settanta, cercando negli armadi dei genitori per ricostruire quel periodo anche scenicamente. E l'emozione è contagiosa. Il video è stato condiviso dagli stessi Modena City Ramblers nelle loro pagine. La nipote di Peppino Impastato mi ha contattata chiedendo di poter pubblicare il video e invitandoci a cantare nella loro casa della memoria. Ma ci ha scritto anche la sottosegretaria del ministero dell'Istruzione Barbara Floridia e Claudio Fava, il presidente della commissione parlamentare antimafia”.
Le parole di Claudio Fava resteranno nel cuore anche di tutti i ragazzi che hanno partecipato al progetto ed è un messaggio che vale la pena riportare perché è un grazie a tutti coloro che si impegnano lontani dalla solita retorica dell'antimafia a mantenere vivo il ricordo di chi la mafia l'ha combattuta sul serio. “Ho avuto modo di ascoltare e vedere il lavoro realizzato dalle alunne e dagli alunni del vostro istituto - scrive il deputato - Dico subito che sono stato colpito, piacevolmente, dall’ottimo livello di quanto da voi realizzato. Un lavoro non scontato e non banale che evidenzia una competenza artistica notevole. Nella sceneggiatura de “i cento passi” c’era la volontà di far emergere la vita di Peppino Impastato, non la storia della sua morte ma la storia della sua vita. Delle profonde ragioni politiche, etiche, civili che hanno caratterizzato il suo impegno e che sono il motivo per cui la mafia ha deciso il suo omicidio.  Troppe volte, infatti, nel ricordo delle tante- troppe- vittime della mafia tendiamo a focalizzarci sull’atto finale. Sulle efferate dinamiche degli omicidi e degli attentati. Io credo, invece, che occorra sempre di più ricordarne la vita. Ricordare l’impegno e le azioni. Perchè queste sono il lascito più importante che abbiamo.  Il vostro lavoro, la gioia nel realizzarlo che traspare, è qualcosa di più di un semplice tributo. Rappresenta una generazione nuova che ha colto l’insegnamento, anche gioioso, di Peppino. Per questo è un lavoro prezioso, che celebra la vita di Impastato e rappresenta la speranza di questa terra di Sicilia”.




mercoledì 2 giugno 2021

2 GIUGNO - FESTA DELLA REPUBBLICA ITALIANA nata dalla RESISTENZA ANTIFASCISTA



ll ricordo di quella giornata storica nei racconti di chi c’era e un appello da parte di Maria Lisa (Marisa) Cinciari Rodano: " Ho un appello da fare per questo 2 giugno, ed è proprio a loro, le più giovani: impegnatevi in politica, scendete in campo, non solo per il vostro interesse personale (oggi vedo troppo individualismo in politica), ma per quello di tutti, per lo sviluppo democratico del nostro Paese e dell’Europa"


Maria Lisa (Marisa) Cinciari Rodano:
un secolo di vita antifascista, vissuta in difesa dei diritti delle donne: partigiana, deputata e senatrice comunista, tra le fondatrici dell'Udi, l'Unione donne italiane. “Gli episodi di odio e razzismo mi hanno riportato ai giorni più bui della nostra storia. Ma chi li ha vissuti non dimentica

LA PRIMA VOLTA AL VOTO DELLE DONNE
È il 2 giugno del 1946. Lunghissime file di donne attendono di fronte ai seggi elettorali.
È una giornata storica per loro e per l’intero Paese, e non c’è nord o sud che faccia differenza.
Difatti, proprio in quella giornata, le donne vengono chiamate, per la prima volta, alle urne, per esprimere il loro voto su Monarchia o Repubblica e per eleggere i membri dell’Assemblea costituente.
Una data importante, che segna un punto di svolta: sino a quel momento alle donne è sempre stato proibito qualsiasi “avvicinamento” al mondo politico.
Nel corso degli anni precedenti al 1946, erano state numerose le lotte animate dallo spirito di emancipazione femminile. Nella loro ribellione a questo “sistema”, le donne avevano sempre chiesto il diritto di accesso all’istruzione e quindi alle università, cercando di ottenere la tanto agognata parità dei diritti.
Prima dell’Unità d’Italia, infatti, i vari Stati italiani avevano legislazioni molto diverse e contrastanti in materia: alcuni concedevano pochi diritti alle donne, mentre altri glieli negavano totalmente. Successivamente, con la nascita del Regno d’Italia e l’adozione del Codice Albertino, risalente al re Carlo Alberto, si decise di limitare quasi totalmente tutti i diritti delle donne.
Ho un appello da fare per questo 2 giugno, ed è proprio a loro, le più giovani: impegnatevi in politica, scendete in campo, non solo per il vostro interesse personale (oggi vedo troppo individualismo in politica), ma per quello di tutti, per lo sviluppo democratico del nostro Paese e dell’Europa».


  • Adele Bei
  • Bianca Bianchi
  • Laura Bianchini
  • Elisabetta Conci
  • Maria De Unterrichter Jervolino
  • Filomena Delli Castelli
  • Maria Federici
  • Nadia Gallico Spano
  • Angela Gotelli
  • Angela M. Guidi Cingolani
  • Leonilde Iotti
  • Teresa Mattei
  • Angelina Livia Merlin
  • Angiola Minella
  • Rita Montagnana Togliatti
  • Maria Nicotra Fiorini
  • Teresa Noce Longo
  • Ottavia Penna Buscemi
  • Elettra Pollastrini
  • Maddalena Rossi
  • Vittoria Titomanlio

VIVA L'ITALIA CHE NON HA PAURA