IL 27 GENNAIO 1945 UN REPARTO DELL'ESERCITO RUSSO VARCA L'INGRESSO DEL CAMPO DI STERMINIO DI AUSCHWITZ
il cancello di Aushwitz con la scritta "Arbeit macht frei": "Il lavoro rende liberi"
Ma fare Memoria significa conoscenza e coerenza. Pertanto invitiamo a togliere le maschere "pittate a lutto" che nascondono il volto di tanti ipocriti dei giorni nostri: alla luce di quanto accade anche ai nostri giorni, la Storia ci chiederà da che parte eravamo mentre tutto quello che sapevamo si ripeteva sotto i nostri occhi, mentre altri lager, persecuzioni, violenze, venivano costruiti e compiute ai danni di nuovi "diversi".
Liliana Segre percorre i corridoi del Memoriale della Shoah di Milano. E’ ambientato qui, nel luogo simbolo della deportazione degli ebrei verso i campi di concentramento e di sterminio, il piccolo cortometraggio che Repubblica mostra in anteprima, nel quale la senatrice a vita racconta la parola “indifferenza” scritta per il vocabolario Zingarelli 2020. Una produzione originale co-prodotta da Sky Arte e Zanichelli che andrà in onda oggi 27 gennaio su Sky Arte, all’interno della programmazione dedicata al Giorno della Memoria. Liliana Segre spiega la sua definizione di “indifferenza” mentre scorrono le immagini del famigerato “Binario 21” da cui partivano i treni piombati verso i lager. “Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò disprezzo, temo e odio gli indifferenti. Le parole di un grande intellettuale e uomo politico, Antonio Gramsci, rendono bene il senso di una malattia morale che può essere anche una malattia mortale. L’indifferenza racchiude la chiave per comprendere la ragione del male, perché quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore. L’indifferente è complice. Complice dei misfatti peggiori. L’alternativa, diceva Don Milani, è “I care”, me ne importa, mi sta a cuore”. Poi Liliana Segre si ferma davanti alla lapide che ricorda i nomi dei deportati. “La visita a questo luogo storico e le lettura dei nomi di queste persone uccise per la colpa d’esser nate – dice Segre - sono proprio il contrario, invece, del motto fascista, “Me ne frego”. Di Maria Novella De Luca
"(…)Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c'è. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga."
brano tratto da “Se questo è un uomo” di Primo LevI
''La Giornata della Memoria non deve essere un'occasione per manifestare la falsa coscienza e non può essere usata in modo strumentale. Ci deve ricordare la tragedia universale della violenza contro l'uomo e non solo contro gli ebrei.
Io sono ebreo e ho il dovere di ricordare ciò che ha subito la mia gente. Ma proprio perchè questo è stato un massacro di esseri umani, tra cui ebrei, rom, gay e antifascisti, si devono ricordare tutti, soprattutto quelli piu' scomodi.
Dobbiamo ricordare, tutti i popoli che hanno subito violenza. In questo senso, il destino degli ebrei vale per quello di tutte le minoranze. Primo Levi non ha scritto 'Se questo è un ebreo', ma 'Se questo è un uomo'." Moni Ovadia
Elie Wiesel, sopravvissuto dei campi di concentramento di Auschwitz, Buna e Buchenwald:"Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha trasformato la mia vita in una lunga notte, sette volte maledetta e sette volte sigillata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini, i cui corpi vidi trasformarsi in ghirlande di fumo sotto un muto cielo blu. Mai dimenticherò quelle fiamme che consumavano la mia fede per sempre. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi privò, per tutta l'eternità, del desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima e trasformarono i miei sogni in polvere. Non dimenticherò mai queste cose, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai".
Eva Picková, morta ad Auschwitz il 18 dicembre 1943 all’età di 12 anni":
"...mio Dio, noi vogliamo vivere! Non vogliamo vuoti nelle nostre file. Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore. Vogliamo fare qualcosa. E’ vietato morire!”.
bambini del Lager mostrano il braccio tatutato
migranti cacciati dal centro di accoglienza
Fare Memoria significa conoscere quanto è accaduto; fare Memoria significa capire i meccanismi" che si celano dietro ai fatti; fare Memoria significa impegnarsi affinché quanto è accaduto non abbia più “il tempo” e “il modo” di ripetersi. Fare Memoria significa conoscere per diventare ed essere cittadini responsabili.
Come è stato possibile l'orrore dei Lager?
Come è stato possibile concepire lo sterminio di popoli?
La cosiddetta "banalità del male", il pericolo che il male possa ripresentarsi, è un pericolo sempre presente Dopo quelli nazisti, l'Umanità ha sofferto per altri Lager, altri stermini, altre violenze terribili inflitte da uomini ad altri uomini.
Perchè? Come è possibile che ciò accada dopo quello che è già accaduto?
Primo Levisi interroga su come sia stato possibile il dramma dello sterminio nel libro “I sommersi e i Salvati”. Luogo di quella ricerca èl'animo umano di ogni tempo; le risposte sono celate nell'eterna -mediocre- lotta per il potere, con attori che si dividono le parti dei"padroni" e dei "servi" alla conquista di un "privilegio" possibile. “Il privilegio per definizione difende il privilegio. (…) L’ascesa dei privilegiati, non solo nel Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie. E’ compito dell’uomo giusto fare la guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine. Dove esiste un potere esercitato da pochi - o da uno solo- contro i molti, il privilegio nasce e prolifica, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri e lo incoraggi.(…) la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura ed insieme l’elemento più inquietante. E’ una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. (…)”.
Anche al presidio LIBERA "Rita Atria" è giunto l'invito a partecipare al presidio antifascista che si vorrebbe tenere il prossimo sabato 27 gennaio, in risposta di quanto accaduto la scorsa settimana quando, sotto i "portici nuovi" di Pinerolo, in Corso torino, c'è stato un banchetto di esponenti di Casa Pound.
Sabato 27 gennaio ricorre l'anniversario dell'ingresso delle truppe russe nel campo di sterminio di Auschwitz, data scelta universalmente per celebrare la GIORNATA DELLA MEMORIA in ricordo delle VITTIME DELLA SHOAH.
Questa è la proposta del presidio LIBERA “Rita Atria” Pinerolo:
Invitiamo
a ritrovarsi in un presidio antifascista facendo Memoria di quel che è
stato affinché non abbia più a ripetersi.
Portiamo con noi il testo di “Bella Ciao” e cantiamo con serenità
quella canzone che è simbolo stesso della Resistenza da cui nasce la Repubblica
Italiana.
Ritroviamoci portando con noi libri: quello
di Primo Levi “Se questo è un
uomo”, il “Diario" di Anna Frank, e leggiamone
brani significativi.
Ritroviamoci facendo Memoria del fatto
che la Resistenza e
la Bellezza di donne e uomini giusti hanno
contribuito a sconfiggere l’ideologia nazi-fascista.
Ritroviamoci
per non dimenticare l’ammonimento di Primo Levi: “Come
nascono i lager? Facendo finta di nulla”
Pier Paolo Pasolini: "Perché siamo tutti in pericolo"
Il dovere della Memoria impone la filessione su un uomo come Pier Paolo Pasolini, ucciso la notte del 2 novembre 1975 sulla spiaggia dell'Idroscalo di Ostia.
"L'intellettuale scomodo", dalle mille contradizioni, pure colui che in maniera "eretica" analizza e predice la condizione di degrado -civile e morale- a cui la società italiana si andava incamminando. Ancora oggi appaiono drammaticamente profetiche le sue analisi: sui falsi miti della modernità; sul nascente fenomeno del "consumismo"; sul decadimento dei valori e dei legami affettivi delle comunità; sulla trasformazione “antropologica” che gli italiani parevano subire, aderendo a modelli di cui oggi avvertiamo -con colpevole ritardo- la vacuità e la insostenibilità.
Riproponiamo il ricordo di Nanni Moretti e l'ultima intervista di Pier Paolo Pasolini rilasciata a Furio Colombo. Fra le tante cose su cui Pasolini rilfette in quella intervista ci colpisce una, che di certo non è la più importante: "(...)Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone.
Ancora una volta, per l'ultima volta, Pasolini appare "profetico" quando oggi vediamo coloro che hanno costruito carriere e privilegi personali ( o di casta) fingendosi difensori dei deboli, paladini di legalità o di buona politica. Ancora una volta, per l'ultima volta, Pasolini appare "profetico" anche con se stesso: "(...) Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo".
il ricordo di Nanni Moretti
Per lui, a noi, parlano ancora i suoi libri, i sui film, le sue parole.
Furio Colombo: "Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre (1975), fra le 4 e le 6 del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione che spesso, come in passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista. Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”».
"Perché siamo tutti in pericolo"
Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso io dirò «la situazione», e tu sai che intendo parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La «situazione» con tutti i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della «situazione». Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti. Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo…
Sì, ho capito.Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo» non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici, a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava, una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, «la situazione», e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo.
Ecco, descrivi allora la «situazione». Tu sai benissimo che i tuoi interventi e il tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella ma si può anche vedere (o capire) poco.
Grazie per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in televisione Parigi brucia tutti sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta, bella, pulita (un frutto del tempo è che «lava» le cose, come la facciata delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per «scegliere». Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre comincia).
Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e «collabora»(mettiamo alla televisione) sia per campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal «potere»?
Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?
Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri.Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.
Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.
Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo… È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.
E qual è la verità?
Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire «evidenza». Fammi rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è «stare con i deboli». Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere.L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.
Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti hai in genere molto successo popolare, cioè sei «consumato» avidamente dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che cosa ti resta?
A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma.
Come dire che hai nostalgia di quel mondo.
No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere «di che segno sei». Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse – se ha ancora un soffio di vita – in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi interessa ormai la catena causa effetto, prima loro, prima lui, o chi è il capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la «situazione». È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. l’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del «cantando sotto la pioggia». Ma sale e ti annega? Se siamo a questo punto io dico: non perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.
E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici.
Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato «la vita violenta».Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra, delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali.
Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma questa gente salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta) e se non vogliamo usare la repressione «più avanzata»…
Che mi fa rabbrividire.
Se non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo presepio?
Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non solo quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi. E gli esperti di tutti i generi.
Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?
Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo.
Pasolini, se tu vedi la vita così – non so se accetti questa domanda – come pensi di evitare il pericolo e il rischio?
È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande. «Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che aggiungo per domani mattina».
Il giorno dopo, domenica, il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini era all’obitorio della polizia.
12 dicembre 1969 alle ore 16:37, piazza Fontana a Milano. Una bomba scoppia nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura uccidendo diciassette persone (quattordici morirono sul colpo) e ferendone altre ottantotto.
La strage fascista di piazza Fontana viene diffusamente considerata come l'inizio della cosiddetta strategia della tensione. Tuttavia, quella strategia iniziò con la Strage diPortella delle Ginestre, avvenuta il 1 maggio del 1947 per mano dei banditi della banda Giuliano, mandanti la mafia, i latifondisti e quelli che ora chiamiamo "poteri forti". La verità è che ci sono stati in Italia, e certamente ci sono ancora, uomini che hanno pensato fosse conveniente, a qualcosa e a qualcuno, uccidere uomini e donne innocenti. Morti innocenti, delitti oscuri perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. E’successo e potrebbe succedere ancora: delitti commessi pensando che, in Italia, potesse servire spargere sangue innocente, per seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee e valori; per impedire o indirizzare cambiamenti.
Milano, 12 Dicembre 1969 ore 16,36
Tutti i processi lo hanno stabilito, senza il minimo dubbio: un gruppo di neofascisti ideò ed eseguì l'attentato. Ma nessuno è stato condannato. Vergogna!
Fonte: Repubblica
Piazza Fontana 12 dicembre '69: la madre di tutte le stragi
Tutti i processi lo hanno stabilito, senza il minimo dubbio: un gruppo di neofascisti ideò ed eseguì l'attentato. Ma nessuno è stato condannato.Nel 2009 Napolitano invitò al Quirinale le vedove Pinelli e Calabresi: ''Un passettino avanti verso la verità'', disse Licia Pinelli. Purtroppo non è ancora così. I cinegiornali Luce testimoniano tuttavia come la violenza stragista non passò tra la gente comune
di PIERO COLAPRICO
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Viene chiamata la "madre di tutte le stragi", ma è anche un abisso senza fondo, e rimasto senza giustizia. Sono passati 45 anni dal 12 dicembre 1969. La bomba esplose a Milano, nella banca dell'Agricoltura, di pomeriggio. "È scoppiata una caldaia", questo il primo allarme alla centrale radio della questura. Diciassette morti, una novantina i feriti. Invece era il plastico, chiuso in una valigetta. In 300mila andarono ai funerali, chiunque c'è stato ricorda il silenzio e il vento. Il golpe, che molti temevano, non ci fu. E basta riascoltare i cinegiornali Luce per rendersi conto come la violenza stragista ''non passò'' tra la gente comune.
I cinegiornali Luce:
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Tutti i processi hanno circoscritto, senza il minimo dubbio, un gruppo di neofascisti come ideatori ed esecutori della strage: ma nessuno di loro è stato condannato. Di certo, a rileggere le carte giudiziarie con il senno di poi, restano inspiegabili le accuse a Pietro Valpreda, anarchico, bollato come "il mostro" sin dalle prime fai delle indagini. E spaventosa è la morte di un altro anarchico, Giuseppe Pinelli, avvenuta in questura a Milano, durante un interrogatorio illegale: precipitò dalle finestre dell'ufficio politico diretto dal commissario Luigi Calabresi. E la gigantesca tragedia non finisce qui. Lo stesso Calabresi - occorre ricordare altre due essenziali date - venne ucciso sotto casa, sempre a Milano, in via Cherubini il 17 maggio del '72. E, un anno dopo, davanti alla questura in via Fatebenefratelli, mentre si teneva la celebrazione dell'omicidio, arrivò un soggetto che mai ha aperto seriamente bocca, Gianfranco Bertoli, il quale lanciò una bomba, che uccide quattro persone e ne ferisce 45.
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Nel 2009 il presidente Giorgio Napolitano invitò al Quirinale le vedove Pinelli e Calabresi: "Un passettino avanti verso la verità", disse Licia Pinelli. Purtroppo per lei, e per tutti noi, e per la storia, non ha ancora avuto ragione. Sono innegabili alcuni "depistaggi", eseguiti da uomini di Stato durante le varie indagini sulle stragi, e le responsabilità neo-fasciste, ma lo stesso Valpreda, rimasto in carcere innocente per più di tre anni, diceva: "Un tassista ha riconosciuto me, stanco e spettinato, tra alcuni agenti ben rasati e puliti, avvalorando le balle della polizia. Quasi subito è emersa la verità, e cioè che quella a Milano era una bomba dei gruppi fascisti d'accordo con i servizi segreti, nel quadro di un disegno europeo, ma bisognava trovare un colpevole di sinistra, e chi c'era di meglio di noi?".