Il dovere della Memoria. la sera del 25 giugno 1992
Paolo Borsellino interviene ad un dibattito organizzato dalla rivista
Micromega e che si tiene nell'atrio della Biblioteca Comunale di Palermo;sarà
il suo ultimo intervento pubblico.
Paolo Borsellino giunge nell'atrio della biblioteca quando il dibattito è gia iniziato: era i giorni del lavoro indefesso, incessante, condotto sentra tregua per cercare di scoprire la verità sulla strage di Capaci. Ad attendere Paolo Borsellino, la "piccola Palermo degli onesti" ( come l'aveva definita Giuseppe D'Avanzo nell'articolo "Vergogna, vergogna, assassini"), che lo attende ed accompagna il suo passaggio con un lunghissimo e fragoroso applauso che si contrappone al silenzio, quasi surreale, che cala nella sala quando Paolo Borsellino comincia a pronunciare il suo discorso. Sono parole colme di sdegno e di rabbia, parole scolpite nella pietra, nella coscienza di un "servitore dello Stato" che conosce bene il suo destino: è lui l'ultimo "ostacolo" da eliminare. Ma quella consapevolezza non lo fa fuggire: Paolo Borsellino non si sottare dall'essere, come Giovanni Falcone- la Speranza di quella piccola Italia "degli onesti", disgustata.
Paolo Borsellino giunge nell'atrio della biblioteca quando il dibattito è gia iniziato: era i giorni del lavoro indefesso, incessante, condotto sentra tregua per cercare di scoprire la verità sulla strage di Capaci. Ad attendere Paolo Borsellino, la "piccola Palermo degli onesti" ( come l'aveva definita Giuseppe D'Avanzo nell'articolo "Vergogna, vergogna, assassini"), che lo attende ed accompagna il suo passaggio con un lunghissimo e fragoroso applauso che si contrappone al silenzio, quasi surreale, che cala nella sala quando Paolo Borsellino comincia a pronunciare il suo discorso. Sono parole colme di sdegno e di rabbia, parole scolpite nella pietra, nella coscienza di un "servitore dello Stato" che conosce bene il suo destino: è lui l'ultimo "ostacolo" da eliminare. Ma quella consapevolezza non lo fa fuggire: Paolo Borsellino non si sottare dall'essere, come Giovanni Falcone- la Speranza di quella piccola Italia "degli onesti", disgustata.
Ma Paolo Borselino quella sera è Speranza e Testimone insieme: ancora una volta è la sentinella della Bibbia che vede e denuncia! Le sue parole sono chiare: Paolo Borsellino attende di riferire quello che sa alle autorità giudiziaria, "(...) l'unica in
grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili
alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di
Giovanni Falcone". Ma Paolo Borsellino non verrà mai ascoltato da quella autorità giudiziaria! Questo uno dei tanti scandali del calvario che Borsellino subì nei cinquantasette giorni che separano la sua morte da quella di Giovanni Falcone!
Il testo integrale del discorso di Paolo Borsellino
"Io sono
venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di
lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi
costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca.
Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in
questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a
voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere
anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare
le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e
dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze
nel mio lavoro.
In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io
sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia
esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non
voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in
questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire
chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque
più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue
confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche
delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze,
questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa
assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria, che è l'unica in
grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili
alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di
Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa
tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita
una parte della mia e della nostra vita.
Quindi
io questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se
deluderò qualcuno di voi - dal riferire circostanze che
probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a
cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali
e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima
cosa ne parlerò all'autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne
parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando
l'argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto
innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati
pubblicati dalla stampa, sul "Sole 24 Ore" dalla
giornalista - in questo momento non mi ricordo come si chiama... -
Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio
appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un
giorno potessero essere avanzati dei dubbi.Ho
letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i
miei ricordi non sono precisi - un'affermazione di Antonino
Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel
gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto.
Con questo non intendo dire che so il perché dell'evento criminoso
avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento
che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò
all'autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel
gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il
naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha
detto Antonino
Caponnetto
è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata
la statura di quest'uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita
professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la
magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio
a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in
quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè
quell'articolo di Leonardo
Sciascia
sul "Corriere della Sera" che bollava me come un
professionista dell'antimafia, l'amico Orlando come professionista
della politica, dell'antimafia nella politica.
Ma nel gennaio del
1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio
superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il
consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era
questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse
restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita
professionale a Palermo. Ma quest'uomo, Caponnetto, il quale
rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente
non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di
morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico
cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi,
Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si
correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso,
ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione
all'ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse,
qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del
mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece
questo regalo: preferì Antonino Meli.
Giovanni
Falcone, dimostrando l'altissimo senso delle istituzioni che egli
aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che
aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a
lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo
schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli
avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo
nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza
privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi
guardavo abbastanza dall'esterno questa situazione, mi fossi reso
conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe
stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che
Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio
e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui
io, nel corso della presentazione del libro La mafia d'Agrigento,
denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che
venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo
che quella sera l'aria ci stava pesando addosso per quello che era
stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo:
per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze
professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio
superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo:
proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva
essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io
lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero
eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato,
l'opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool
antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L'opinione
pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate
dell'agosto 1988, l'opinione pubblica si mobilitò e costrinse il
Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua
precedente decisione dei primi di agosto, tant'è che il 15
settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi.
La protervia del consigliere istruttore, l'intervento nefasto della
Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché,
nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione
continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste)
continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo
che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un
profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò
incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di
Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a
quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo
momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un
certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio.
Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e
questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non
perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non
perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era
innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua
vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a
svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo,
con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver
appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci
vedevamo un po' più raramente perché io ero molto impegnato
professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta
Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di
Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l'ordinamento interno del
ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non
so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin
dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva
fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità
mafiosa.
Certo
anch'io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la
vita, o alcune manifestazioni della vita e dell'attività di un
magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica
diversa da quelle che sono le strutture, anch'esse gerarchiche ma in
altro senso, previste dall'ordinamento giudiziario. Si trattava di un
lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma
Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a
Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che
riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei
conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al
ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato,
anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la
creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che
potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla
criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò
di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle
esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza
che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di
maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma
comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla
quale anch'io ho espresso nell'immediatezza delle perplessità,
firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura
predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante
ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone
aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a
ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a
fare il magistrato, come egli voleva.
Il suo intento era questo e
l'organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il
fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si
è trattato comunque - e l'organizzazione mafiosa, quando ha
preparato ed attuato l'attentato del 23 maggio, l'ha preparato ed
attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano
concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone,
nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio
superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le
notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva
e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al
di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il
direttore nazionale antimafia.
Ecco
perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto
dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione
anche con riferimento all'esito di questa lotta che egli fece
soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere
avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate
riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire
che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in
pericolo l'indipendenza della magistratura, si può anche dire che
per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere
politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni
Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale
lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il
magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo
che faceva paura.
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