domenica 16 dicembre 2012

Il processo che ha cambiato l’antimafia


"Per combattere e distruggere il regno della Mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il Re della Mafia!"

Queste parole non sono la riflessione conclusiva di giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ma sono contenute nelle ultime righe del libretto di Napoleone Colajanni " Nel regno della mafia", pubblicato nel 1900. 
Parole che sembrano scritte oggi, ieri o venticinque anni fa, quando cominciava il Maxi-processo di Palermo: era il 16 dicembre 1992. Quello doveva essere il primo tassello del progetto di scardinamento del sistema mafioso; progetto per il cui compimento Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano consci e pronti a dover sacrificare addirittura le loro stesse vite. 
La mafia era presente nella cattedrale di Palermo, dinanzi alle bare di giudici e uomini delle forze dell'ordine; la mafia continua a sedere nel Parlamento italiano; la mafia continua a imporre il suo dominio con la complicità e l'acquiescenza di pezzi importanti del sistema italiano. Ma ha ragione Francesco Licata nell'articolo che riportiamo: "(...) Il 16 dicembre del 1987 si delineò uno spartiacque netto tra il «prima di Falcone» e il «dopo».  
Dopo di quella data  non è accettabile fingere di non sapere, di non capire, che "pezzi" del sistema italiano continuano ad essere "Re della mafia"



Il processo che ha cambiato l’antimafia

Fonte : LA Stampa

FRANCESCO LA LICATA
Il maxiprocesso contro la mafia, di cui celebriamo oggi il venticinquesimo anniversario, ha rappresentato forse l’unico vero avvenimento rivoluzionario della nostra storia politico-giudiziaria. Il 16 dicembre del 1987 si delineò uno spartiacque netto tra il «prima di Falcone» e il «dopo».  
l'aula del Maxi-processo di Palermo

Da allora è cambiata la lotta alla mafia, anzi si può tranquillamente affermare che allora ebbe inizio l’antimafia nelle aule di giustizia.  
Già, perché prima Cosa nostra semplicemente non esisteva come organizzazione criminale unica, coesa e con un’unica direzione strategica. Si erano celebrati processi che puntualmente erano andati a naufragare fra le correnti dei singoli avvenimenti, analizzati caso per caso e perciò indecifrabili o sbrigativamente liquidati con la formula salvifica dell’insufficienza di prove.  

Il maxiprocesso, invece, finì per rappresentare il racconto completo di un pezzo di storia d’Italia, a partire dal dopoguerra.  Ma un racconto sarebbe rimasto limitato ed esposto alle interpretazioni letterarie se non fosse stato saldamente inserito nei confini rigorosi di una sentenza giudiziaria. Per questo l’istruttoria che preludeva al «maxi» era stata osteggiata con ogni mezzo, lecito o azzardato. Lo sbarramento politico, in chiave utilitaristicamente garantista, aveva aperto le ostilità con le aggressioni a Giovanni Falcone, a Paolo Borsellino e al resto dei componenti del pool dell’Ufficio istruzione di Palermo. La battaglia sul campo sarebbe stata affidata agli avvocati che, sul terreno di combattimento dell’aula bunker, avrebbero messo in atto ogni mezzo (ostruzionismo e ricerca dilatoria, soprattutto) per affossare il dibattimento. Un impegno che a qualcuno dei legali, in seguito, avrebbe procurato un riconoscimento politico tale da spalancare le porte del Parlamento, anche dopo la vittoria di Falcone: la cupola (19 boss) all’ergastolo, i picciotti condannati duramente (2665 anni di carcere) e l’«anticipo» di ciò che sarebbe avvenuto in politica col coinvolgimento giudiziario dei cugini Nino e Ignazio Salvo e di Vito Ciancimino.  

Ma proprio questa efferatezza dello scontro, che riguardava Cosa nostra ma non risparmiava i partiti «cresciuti» e «ingrassati» sotto l’ala mafiosa, risulterà essere il timer della bomba che esploderà negli Anni Novanta con l’aggressione stragista allo Stato e il conseguente, scellerato cedimento alla tentazione trattativista. La mafia presentava il conto accumulato durante gli anni delle «indecenti frequentazioni» della politica, e chiedeva di essere salvata dal maxiprocesso che, proprio nel 1992, trionfava in Cassazione (malgrado l’assassinio preventivo del giudice Scopelliti, designato come pm) e relegava la direzione strategica corleonese al carcere a vita. Una condizione che, di fatto, svuotava di potere l’intera organizzazione criminale. Muore l’ex sindaco di Palermo, Salvo Lima, giustiziato pubblicamente come «primo messaggio» di Cosa nostra. Il resto è storia conosciuta: Capaci, via D’Amelio, le stragi di Roma, Firenze e Milano, la mancata strage del 1994, allo stadio Olimpico. A distanza di tanti anni risulta più comprensibile l’affermazione di quanti dichiararono amaramente che «Falcone cominciò a morire il giorno in cui la Cassazione consacrava il successo del maxiprocesso». Morirà anche Paolo Borsellino e morirà la seconda volta quando verrà fuori l’intreccio della trattativa fra Stato e mafia, con le prove del depistaggio e dell’infedeltà istituzionale. Ma oggi, dopo 25 anni, il coltello è ancora affondato nella carne di Cosa nostra: le hanno tentate tutte, ma gli ergastoli stanno ancora sulle loro teste.  

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