La speranza che la battaglia culturale contro le mafie abbia il sopravvento
dipende dall’atteggiamento dei giovani e dalle donne.
Dipende dai giovani, perchè così parlò Paolo Borsellino in un discorso che è parte stessa del suo testamento
spirituale, “(…) le giovani generazioni le
più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa
rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità
e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve
periodo di entusiasmo egli mi disse "La gente fa il tifo per noi"; e
con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l'appoggio morale
della popolazione dà al lavoro del giudice, significava qualcosa di più,
significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze
(…)”
Dipende dalle donne perché le
donne, generando la vita, sono esse stesse generatrici del cambiamento possibile .
La storia che vogliamo presentare è quella di Giovanna Galatolo, una donna, la figlia di un boss mafioso.
Fonte: Corriere della Sera
Giovanna “disonorata “ per strappare alla mafia la figlia minorenne
Forse non lo sa, ma nelle parole
di Giovanna Galatolo, la figlia del boss dell’Acquasanta, del sanguinario “don
Vincenzo”, il “padrone” del quartiere addossato al Cantiere navale di Palermo,
sembrano echeggiare le denunce di Peppino
Impastato o la ribellione di Rita
Atria. Perché è dirompente lo schiaffo dato alla regola
dell’omertà da questa donna di cinquant’anni che, da novembre sotto
protezione in località segreta, ha mollato la sua famiglia mafiosa rinnegando
il padre all’ergastolo per l’omicidio del generale
Carlo Alberto dalla Chiesa, coinvolto nell’inchiesta sul fallito attentato
dell’Addaura a Giovanni Falcone.
Come l’eroe-simbolo di Cinisi che
si schierò contro il boss Gaetano Badalamenti e come la ragazza di Marsala che
si suicidò disperata dopo la strage di Paolo Borsellino al quale aveva
denunciato gli affari della sua famiglia, anche Giovanna Galatolo è capace del grande passo motivato da una
speranza: «Strappare da questo mondo mia figlia, ancora minorenne».
Testimonianza forte, legami di
sangue tranciati di netto pur di garantire un futuro migliore alla figlia, il
dito puntato contro fratelli, zii, cugini, verbali sottoscritti con piena
consapevolezza e adesso entrati di forza con tutto il dramma interiore della
scelta nel processo in corso a Palermo contro Angelo Galatolo e Franco Mineo,
l’ex deputato regionale di un partitino autonomista, “Grande Sud”, un passato
di sindacalista, accusato di intestazione fittizia di beni aggravata, di
peculato, malversazione e usura.
Solita storiaccia di cointeressenze e di prestanome. Con Mineo che,
in cambio di voti, avrebbe versato il canone d’affitto riscosso in magazzini e
negozi ai Galatolo, i veri proprietari. Ipotesi d’accusa confermata proprio da
Giovanna “la pentita” o “la sbirra”, come tanti la chiamano nel quartiere. Ma
questi ed altri insulti non la fecero tacere in autunno: «Mi ricordo di un
certo Mineo, un sindacalista, amico di Angelo Galatolo, il figlio di Gaetano…
Mi è stato chiesto pure di votare per Mineo, prima da Giovanni Galatolo,
fratello di Angelo, poi anche Stefano Galatolo che lo chiese a mio marito…». E
ieri ha confermato rispondendo alle domande del pubblico ministero Piero Padova
parlando del bar più frequentato nella zona, il “Nuova Esedra”, di una
merceria, del negozio di abbigliamento Vegard, formalmente gestiti dal
prestanome, nei fatti proprietà di “famiglia”.
Fa riflettere questo passo con qualche precedente, non molti, opposti ai tanti “non so”
di generazioni allevate a pane e mafia che si muovono silenti sulla scia di
genitori con le mani sporche di sangue. A cominciare dai figli di Rina e
Provenzano, rimasti freddi e distaccati davanti all’orrore compiuto sotto i
loro occhi mentre crescevano costretti alla latitanza con i genitori.
Giovanna Galatolo rompe gli schemi, sconvolge la finta e tragica
quiete di un intero quartiere e padre, madre, zii, sono tutti pronti a farla
passare per pazza, puttana o “disonorata”. Ma hanno davanti un osso duro e
lei ha la forza di replicare, tosta: «Non
voglio più stare nella mafia, perché ci dovrei stare? Solo perché mio padre è
mafioso? No, non ci sto. Non voglio rimanere nell’ambito criminale. Né voglio
trattare con persone indegne. Adesso che collaboro mi vogliono fare passare per
prostituta. Io voglio dedicarmi solo a mia figlia».
Infine, lapidaria, la conferma
dell’inferno in cui ha vissuto con un profilo di “don Vincenzo” che
continuerebbe a comandare dal carcere: «Dalla
sua cella impartisce direttive. So per averlo appreso da mia figlia che mio
fratello Vito ha avuto un colloquio con lui…». Testimonianza verbalizzata
con molti omissis perché su questo si indaga. E ancora: «Mio padre comandava
dal carcere. Attraverso segni convenzionali ci diceva cosa dovevamo fare…
Impartiva ordini durante i colloqui, faceva pure telefonate dal carcere per
parlare con i suoi familiari. Vivevamo tutti nello stesso palazzo, quindi
bastava parlasse con uno che parlava con tutti…».
È un colpo secco alla tracotante certezza di una mafia che si
sentiva inattaccabile al suo interno, in questo caso messa a nudo come
chiedeva nel 1992 Rosaria Schifani, la giovane vedova di uno degli agenti
uccisi con Falcone, invocando i figli dei mafiosi a far pentire i padri o a
rinnegarli.
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