fonte: corleonedialogos.it, di Rino Giacalone - Istituto Mattei di Fiorenzuola,
provincia di Piacenza. Aula magna gremita. Occasione un incontro,
promosso da Libera Piacenza, con testimoni importanti della lotta
alla mafia, il poliziotto e la familiare di alcune delle tante
vittime. Anche il poliziotto doveva essere una vittima di Cosa nostra
in quel terribile 1992. Anche per lui quest’anno ricorre un
ventennale, i 20 anni trascorsi da quando il 14 settembre del 1992
Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella
tentarono in tutti i modi di ucciderlo. Si tratta dell’oggi
questore di Forlì, Rino Germanà. All’epoca dirigeva il
commissariato di Polizia di Mazara del Vallo.
C’era tornato da pochissimo tempo, quasi che una mano ignota aveva voluto fargli fare un passo indietro nella sua carriera. Era stato infatti già commissario a Mazara, poi aveva fatto il salto diventando dirigente della Squadra Mobile, da lì ulteriore passo in avanti, la Criminalpol, poi d’improvviso il ritorno da commissario a Mazara. Non doveva andare a Mazara Rino Germanà. Il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, lo voleva con lui a Palermo, riprendendo quel lavoro a due mani che loro si può dire da sempre sapevano svolgere. Borsellino lo aveva detto che Germanà doveva seguirlo a Palermo, forse pensava già a chiedere al Viminale per Germanà il posto di dirigente della Squadra Mobile del capoluogo dell’isola. Il 4 luglio quando Paolo Borsellino andò a Marsala a fare quel saluto che da Procuratore (uscente) non aveva potuto fare perché travolto dalla strage di maggio, quella del 23 maggio, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, non fece mistero che rivoleva Germanà con lui. Non ebbe il tempo, 15 giorni dopo arrivò per lui l’autobomba di via d’Amelio. Ucciso Borsellino, Rino Germanà si ritrovò catapultato nel passato, al processo per il suo tentato omicidio il pm Andrea Tarondo, che chiese e ottenne le condanne per mandanti ed esecutori di quell’agguato, non fece mistero di una sua convinzione e che cioè una “manina” aveva scritto quel trasferimento di Germanà a Mazara, quasi a portarlo a pochi metri dagli assassini più spietati di Cosa nostra. In quel 1992 Rino Germanà era finito nell’elenco delle persone che perché avevano dato fastidio alla mafia o potevano darne ancora, andavano eliminate, questo era l’ordine di Totò Riina. Oggi quello scenario si è fatto poco poco più chiaro: all’epoca di quell’agguato, Rino Germanà si stava occupando di indagini sul rapporto mafia e politica, andava fiutando ciò che succedeva attorno ad un potente politico, il ministro Calogero Mannino, sentito dai pm di Palermo, Germanà ha detto che si sentì chiedere dal vice capo della Polizia, prefetto Luigi Rossi, del perchè di quelle indagini, poi si sentì chiamare addirittura dal ministro Mannino, incontro rifiutato. Passò poco tempo e trovò il trasferimento a Mazara ad attenderlo, e quindi niente più indagini su Mannino. Sul tavolo di Rino Germanà però c’era un altro faldone, quello delle indagini sul rapporto tra mafia e banche, Cosa nostra da una parte, la importante Banca Sicula dall’altra parte, la banca dei banchieri per eccellenza di Trapani, i D’Alì. Anche quella non era una inchiesta di poco conto. La cronaca di quell’agguato sul lungomare Tonnarella di Mazara è da film, ma non fu un film. Germanà era in auto e si accorse di essere seguito, dietro un’auto che gli chiedeva spazio per il sorpasso, con la coda dell’occhio vede la canna di un fucile puntare contro di lui, la frenata, i colpi che cominciano a sentirsi, lui che scende dall’auto e fugge tra i bagnanti, si getta in auto, mentre dall’auto che lo seguiva si continua a sparare, l’auto percorre per un paio di volte la strada costiera, poi il commando capisce che non ha più nulla da fare e scappa via. Pochissime ore dopo Rino Germanà e la sua famiglia non si troveranno più a Mazara, portati lontani dalla Sicilia, dove non tornerà più per moltissimi anni. Nel frattempo non troverà importanti scrivanie ad attenderlo, addirittura per un periodo sarà il dirigente del commissariato di Polizia presso l’aeroporto di Bologna. Lo Stato sa piangere i suoi morti, i funzionari e gli investigatori fedeli, bravi e sopravvissuti spesso finiscono con l’essere dimenticati ancora prima dei morti. Ci vorranno anni perché Germanà torni in carriera, prima questore a Forlì, oggi a Piacenza.
C’era tornato da pochissimo tempo, quasi che una mano ignota aveva voluto fargli fare un passo indietro nella sua carriera. Era stato infatti già commissario a Mazara, poi aveva fatto il salto diventando dirigente della Squadra Mobile, da lì ulteriore passo in avanti, la Criminalpol, poi d’improvviso il ritorno da commissario a Mazara. Non doveva andare a Mazara Rino Germanà. Il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, lo voleva con lui a Palermo, riprendendo quel lavoro a due mani che loro si può dire da sempre sapevano svolgere. Borsellino lo aveva detto che Germanà doveva seguirlo a Palermo, forse pensava già a chiedere al Viminale per Germanà il posto di dirigente della Squadra Mobile del capoluogo dell’isola. Il 4 luglio quando Paolo Borsellino andò a Marsala a fare quel saluto che da Procuratore (uscente) non aveva potuto fare perché travolto dalla strage di maggio, quella del 23 maggio, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, non fece mistero che rivoleva Germanà con lui. Non ebbe il tempo, 15 giorni dopo arrivò per lui l’autobomba di via d’Amelio. Ucciso Borsellino, Rino Germanà si ritrovò catapultato nel passato, al processo per il suo tentato omicidio il pm Andrea Tarondo, che chiese e ottenne le condanne per mandanti ed esecutori di quell’agguato, non fece mistero di una sua convinzione e che cioè una “manina” aveva scritto quel trasferimento di Germanà a Mazara, quasi a portarlo a pochi metri dagli assassini più spietati di Cosa nostra. In quel 1992 Rino Germanà era finito nell’elenco delle persone che perché avevano dato fastidio alla mafia o potevano darne ancora, andavano eliminate, questo era l’ordine di Totò Riina. Oggi quello scenario si è fatto poco poco più chiaro: all’epoca di quell’agguato, Rino Germanà si stava occupando di indagini sul rapporto mafia e politica, andava fiutando ciò che succedeva attorno ad un potente politico, il ministro Calogero Mannino, sentito dai pm di Palermo, Germanà ha detto che si sentì chiedere dal vice capo della Polizia, prefetto Luigi Rossi, del perchè di quelle indagini, poi si sentì chiamare addirittura dal ministro Mannino, incontro rifiutato. Passò poco tempo e trovò il trasferimento a Mazara ad attenderlo, e quindi niente più indagini su Mannino. Sul tavolo di Rino Germanà però c’era un altro faldone, quello delle indagini sul rapporto tra mafia e banche, Cosa nostra da una parte, la importante Banca Sicula dall’altra parte, la banca dei banchieri per eccellenza di Trapani, i D’Alì. Anche quella non era una inchiesta di poco conto. La cronaca di quell’agguato sul lungomare Tonnarella di Mazara è da film, ma non fu un film. Germanà era in auto e si accorse di essere seguito, dietro un’auto che gli chiedeva spazio per il sorpasso, con la coda dell’occhio vede la canna di un fucile puntare contro di lui, la frenata, i colpi che cominciano a sentirsi, lui che scende dall’auto e fugge tra i bagnanti, si getta in auto, mentre dall’auto che lo seguiva si continua a sparare, l’auto percorre per un paio di volte la strada costiera, poi il commando capisce che non ha più nulla da fare e scappa via. Pochissime ore dopo Rino Germanà e la sua famiglia non si troveranno più a Mazara, portati lontani dalla Sicilia, dove non tornerà più per moltissimi anni. Nel frattempo non troverà importanti scrivanie ad attenderlo, addirittura per un periodo sarà il dirigente del commissariato di Polizia presso l’aeroporto di Bologna. Lo Stato sa piangere i suoi morti, i funzionari e gli investigatori fedeli, bravi e sopravvissuti spesso finiscono con l’essere dimenticati ancora prima dei morti. Ci vorranno anni perché Germanà torni in carriera, prima questore a Forlì, oggi a Piacenza.
Davanti agli studenti del Mattei di
Fiorenzuola esordisce dicendo che non ha di che raccontare a
proposito della sua storia. Nessuno mugugna, era quello che gli
studenti volevano sentirsi dire.
E con il solito, simpatico, dialetto
siciliano, inizia a fare la “sua” lezione. “Sapete – domanda
ai ragazzi – cosa ci differenzia dai mafiosi? E sapete cosa unisce
me, poliziotto, e voi studenti, contro la mafia?”. Non si sente
parlare nessuno, non è imbarazzo, c’è semmai la voglia di sapere
quale sono le risposte. E Germanà la fornisce subito la risposta,
perché alle due domande è la stessa: "E’ il sorriso!”. Una
consapevole risata rompe il ghiaccio. E il questore di Piacenza
spiega: “Noi sorridiamo, i mafiosi no, noi siamo uniti dal sapere
sorridere”. E continua: “E sapete cosa testimonia un sorriso?”.
“Il sorriso è la prova che noi abbiamo dei sentimenti, i mafiosi
non hanno il sorriso e non hanno i sentimenti”. Ma è solo il
sorriso che ci differenzia dai mafiosi, continua a chiedere Germanà:
“Noi abbiamo il desiderio di vivere, la mafia no, la mafia parla
solo di morte, noi abbiamo il desiderio della conoscenza, la mafia è
contro la conoscenza dei fatti, e la conoscenza è importante, perché
se conosciamo siamo liberi, la conoscenza libera e ci…libera”.
La lezione di Rino Germanà va avanti
in questa maniera, c’è il richiamo allo Stato che non è fatto di
poltrone e potere ma “è fatto dai cittadini”, c’è il richiamo
a quel dato che distingue i cittadini onesti dalla mafia, “la mafia
pensa solo a provocare sofferenze, i cittadini che conoscono bene i
diritti e i doveri sanno che è contro la sofferenza che bisogna
impegnarsi”.
Con Rino Germanà c’è anche
Margherita Asta, figlia e sorella delle vittime della strage di
Pizzolungo del 2 aprile 1985: “C’è la mafia e ci sono i
cittadini onesti – dice – non possono esistere tre fasce sociali,
i mafiosi, gli antimafiosi e i cittadini che non si schierano né per
una parte né per l’altra, l’antimafia non può essere una parte,
è l’altra parte che si contrappone ai mafiosi insieme ai cittadini
che vogliono essere liberi, non può esserci qualcuno che può dire
di non essere né mafioso né antimafioso, chi dice una cosa di
questo genere rende un favore alle mafie. Per essere contro la mafia
basta solo una cosa, non bisogna essere – prosegue Margherita –
per forza eroi o donne e uomini coraggiosi, basta sapere dire anche
no”. Il pericolo di questi giorni Margherita Asta lo individua con
precisione: “Sono la mafia e la corruzione, la politica oggi ha il
dovere di portare in Parlamento proposte di legge utili a contrastare
questo sistema criminale, Libera ha raccolto 1 milione di firme per
avere più norme severe contro la corruzione e per vedere confiscati
i beni a chi è corrotto”.
Applaudono alla fine gli studenti del
Mattei. Un paio di ore di una lezione importante. Qui tra loro c’è
chi racconta che le mafie non ci sono, non esistono, la stessa cosa
accadeva a Trapani in quel 1985 mentre la mafia ammazzava.
Qui, in
Emilia Romagna la mafia non uccide, ci prova però a farlo, qui le
mafie ci sono da tempo e le si trovano dentro le imprese, l’economia,
ma c’è chi nega l’evidenza. C’è anche chi come Giovanni
Tizian, giornalista di frontiera, ha raccontato di mafie e ndragheta,
e si è trovato presto presto nel mirino dei sicari, gli stessi che
tempo addietro gli hanno ucciso il padre in Calabria. Tizian oggi
giovanissimo vive sotto scorta, e, al solito, quando scoppiano storie
come la sua, tutti si ricordano, per dimenticarsene molto presto dei
cronisti di periferia, quelli che più di altri giornalisti sono a
pochi passi dai boss e ne raccontano le gesta di morte. Come accade
in Sicilia, in ognuna delle nove province siciliane ci sono storie di
cronisti da raccontarsi come quella di Tizian, e storie di studenti,
come quelli di Fiorenzuola, ai quali c’è sempre pronto qualcuno
che racconta loro che le mafie non ci sono. E invece non è così. A
Trapani comanda quel gran pezzo di assassino che si chiama Matteo
Messina Denaro uno che il cuore non l’ha nemmeno ammorbidito in
nome della figlia che oggi frequenta un liceo di Castelvetrano e che
non ha mai conosciuto il padre e che soprattutto non deve conoscere
delle gesta criminali del genitore che quel giorno di 20 anni
addietro a Mazara voleva uccidere un poliziotto che aveva fatto solo
il suo dovere e che l’anno appresso si mosse in giro per l’Italia
a piazzare bombe, a Roma, Milano e Firenze, per costringere lo Stato
alla trattativa. Matteo Messina Denaro è questo e ancora peggio di
tutto questo.
Rino Germanà e Margherita Asta restano invece
testimoni di storie amare, ma rappresentano loro, assieme ad altri,
la storia bella di questa nostra Sicilia e di questa nostra Italia.
Vent’anni dopo dalle stragi dovremmo ricominciare proprio da loro
due, con loro due e con tutti quelli che sono come Rino e Margherita.
Nessun commento:
Posta un commento
Abbiamo deciso di non moderare i commenti ai post del blog. Vi preghiamo di firmare i commenti.