sabato 5 maggio 2012

Mafia: la lezione del questore di Piacenza Rino Germanà, il poliziotto che doveva morire


fonte: corleonedialogos.it, di Rino Giacalone - Istituto Mattei di Fiorenzuola, provincia di Piacenza. Aula magna gremita. Occasione un incontro, promosso da Libera Piacenza, con testimoni importanti della lotta alla mafia, il poliziotto e la familiare di alcune delle tante vittime. Anche il poliziotto doveva essere una vittima di Cosa nostra in quel terribile 1992. Anche per lui quest’anno ricorre un ventennale, i 20 anni trascorsi da quando il 14 settembre del 1992 Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella tentarono in tutti i modi di ucciderlo. Si tratta dell’oggi questore di Forlì, Rino Germanà. All’epoca dirigeva il commissariato di Polizia di Mazara del Vallo.
C’era tornato da pochissimo tempo, quasi che una mano ignota aveva voluto fargli fare un passo indietro nella sua carriera. Era stato infatti già commissario a Mazara, poi aveva fatto il salto diventando dirigente della Squadra Mobile, da lì ulteriore passo in avanti, la Criminalpol, poi d’improvviso il ritorno da commissario a Mazara. Non doveva andare a Mazara Rino Germanà. Il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino, lo voleva con lui a Palermo, riprendendo quel lavoro a due mani che loro si può dire da sempre sapevano svolgere. Borsellino lo aveva detto che Germanà doveva seguirlo a Palermo, forse pensava già a chiedere al Viminale per Germanà il posto di dirigente della Squadra Mobile del capoluogo dell’isola. Il 4 luglio quando Paolo Borsellino andò a Marsala a fare quel saluto che da Procuratore (uscente) non aveva potuto fare perché travolto dalla strage di maggio, quella del 23 maggio, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, non fece mistero che rivoleva Germanà con lui. Non ebbe il tempo, 15 giorni dopo arrivò per lui l’autobomba di via d’Amelio. Ucciso Borsellino, Rino Germanà si ritrovò catapultato nel passato, al processo per il suo tentato omicidio il pm Andrea Tarondo, che chiese e ottenne le condanne per mandanti ed esecutori di quell’agguato, non fece mistero di una sua convinzione e che cioè una “manina” aveva scritto quel trasferimento di Germanà a Mazara, quasi a portarlo a pochi metri dagli assassini più spietati di Cosa nostra. In quel 1992 Rino Germanà era finito nell’elenco delle persone che perché avevano dato fastidio alla mafia o potevano darne ancora, andavano eliminate, questo era l’ordine di Totò Riina. Oggi quello scenario si è fatto poco poco più chiaro: all’epoca di quell’agguato, Rino Germanà si stava occupando di indagini sul rapporto mafia e politica, andava fiutando ciò che succedeva attorno ad un potente politico, il ministro Calogero Mannino, sentito dai pm di Palermo, Germanà ha detto che si sentì chiedere dal vice capo della Polizia, prefetto Luigi Rossi, del perchè di quelle indagini, poi si sentì chiamare addirittura dal ministro Mannino, incontro rifiutato. Passò poco tempo e trovò il trasferimento a Mazara ad attenderlo, e quindi niente più indagini su Mannino. Sul tavolo di Rino Germanà però c’era un altro faldone, quello delle indagini sul rapporto tra mafia e banche, Cosa nostra da una parte, la importante Banca Sicula dall’altra parte, la banca dei banchieri per eccellenza di Trapani, i D’Alì. Anche quella non era una inchiesta di poco conto. La cronaca di quell’agguato sul lungomare Tonnarella di Mazara è da film, ma non fu un film. Germanà era in auto e si accorse di essere seguito, dietro un’auto che gli chiedeva spazio per il sorpasso, con la coda dell’occhio vede la canna di un fucile puntare contro di lui, la frenata, i colpi che cominciano a sentirsi, lui che scende dall’auto e fugge tra i bagnanti, si getta in auto, mentre dall’auto che lo seguiva si continua a sparare, l’auto percorre per un paio di volte la strada costiera, poi il commando capisce che non ha più nulla da fare e scappa via. Pochissime ore dopo Rino Germanà e la sua famiglia non si troveranno più a Mazara, portati lontani dalla Sicilia, dove non tornerà più per moltissimi anni. Nel frattempo non troverà importanti scrivanie ad attenderlo, addirittura per un periodo sarà il dirigente del commissariato di Polizia presso l’aeroporto di Bologna. Lo Stato sa piangere i suoi morti, i funzionari e gli investigatori fedeli, bravi e sopravvissuti spesso finiscono con l’essere dimenticati ancora prima dei morti. Ci vorranno anni perché Germanà torni in carriera, prima questore a Forlì, oggi a Piacenza.
Davanti agli studenti del Mattei di Fiorenzuola esordisce dicendo che non ha di che raccontare a proposito della sua storia. Nessuno mugugna, era quello che gli studenti volevano sentirsi dire.
E con il solito, simpatico, dialetto siciliano, inizia a fare la “sua” lezione. “Sapete – domanda ai ragazzi – cosa ci differenzia dai mafiosi? E sapete cosa unisce me, poliziotto, e voi studenti, contro la mafia?”. Non si sente parlare nessuno, non è imbarazzo, c’è semmai la voglia di sapere quale sono le risposte. E Germanà la fornisce subito la risposta, perché alle due domande è la stessa: "E’ il sorriso!”. Una consapevole risata rompe il ghiaccio. E il questore di Piacenza spiega: “Noi sorridiamo, i mafiosi no, noi siamo uniti dal sapere sorridere”. E continua: “E sapete cosa testimonia un sorriso?”. “Il sorriso è la prova che noi abbiamo dei sentimenti, i mafiosi non hanno il sorriso e non hanno i sentimenti”. Ma è solo il sorriso che ci differenzia dai mafiosi, continua a chiedere Germanà: “Noi abbiamo il desiderio di vivere, la mafia no, la mafia parla solo di morte, noi abbiamo il desiderio della conoscenza, la mafia è contro la conoscenza dei fatti, e la conoscenza è importante, perché se conosciamo siamo liberi, la conoscenza libera e ci…libera”.
La lezione di Rino Germanà va avanti in questa maniera, c’è il richiamo allo Stato che non è fatto di poltrone e potere ma “è fatto dai cittadini”, c’è il richiamo a quel dato che distingue i cittadini onesti dalla mafia, “la mafia pensa solo a provocare sofferenze, i cittadini che conoscono bene i diritti e i doveri sanno che è contro la sofferenza che bisogna impegnarsi”.
Con Rino Germanà c’è anche Margherita Asta, figlia e sorella delle vittime della strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985: “C’è la mafia e ci sono i cittadini onesti – dice – non possono esistere tre fasce sociali, i mafiosi, gli antimafiosi e i cittadini che non si schierano né per una parte né per l’altra, l’antimafia non può essere una parte, è l’altra parte che si contrappone ai mafiosi insieme ai cittadini che vogliono essere liberi, non può esserci qualcuno che può dire di non essere né mafioso né antimafioso, chi dice una cosa di questo genere rende un favore alle mafie. Per essere contro la mafia basta solo una cosa, non bisogna essere – prosegue Margherita – per forza eroi o donne e uomini coraggiosi, basta sapere dire anche no”. Il pericolo di questi giorni Margherita Asta lo individua con precisione: “Sono la mafia e la corruzione, la politica oggi ha il dovere di portare in Parlamento proposte di legge utili a contrastare questo sistema criminale, Libera ha raccolto 1 milione di firme per avere più norme severe contro la corruzione e per vedere confiscati i beni a chi è corrotto”.
Applaudono alla fine gli studenti del Mattei. Un paio di ore di una lezione importante. Qui tra loro c’è chi racconta che le mafie non ci sono, non esistono, la stessa cosa accadeva a Trapani in quel 1985 mentre la mafia ammazzava. 
Qui, in Emilia Romagna la mafia non uccide, ci prova però a farlo, qui le mafie ci sono da tempo e le si trovano dentro le imprese, l’economia, ma c’è chi nega l’evidenza. C’è anche chi come Giovanni Tizian, giornalista di frontiera, ha raccontato di mafie e ndragheta, e si è trovato presto presto nel mirino dei sicari, gli stessi che tempo addietro gli hanno ucciso il padre in Calabria. Tizian oggi giovanissimo vive sotto scorta, e, al solito, quando scoppiano storie come la sua, tutti si ricordano, per dimenticarsene molto presto dei cronisti di periferia, quelli che più di altri giornalisti sono a pochi passi dai boss e ne raccontano le gesta di morte. Come accade in Sicilia, in ognuna delle nove province siciliane ci sono storie di cronisti da raccontarsi come quella di Tizian, e storie di studenti, come quelli di Fiorenzuola, ai quali c’è sempre pronto qualcuno che racconta loro che le mafie non ci sono. E invece non è così. A Trapani comanda quel gran pezzo di assassino che si chiama Matteo Messina Denaro uno che il cuore non l’ha nemmeno ammorbidito in nome della figlia che oggi frequenta un liceo di Castelvetrano e che non ha mai conosciuto il padre e che soprattutto non deve conoscere delle gesta criminali del genitore che quel giorno di 20 anni addietro a Mazara voleva uccidere un poliziotto che aveva fatto solo il suo dovere e che l’anno appresso si mosse in giro per l’Italia a piazzare bombe, a Roma, Milano e Firenze, per costringere lo Stato alla trattativa. Matteo Messina Denaro è questo e ancora peggio di tutto questo. 
Rino Germanà e Margherita Asta restano invece testimoni di storie amare, ma rappresentano loro, assieme ad altri, la storia bella di questa nostra Sicilia e di questa nostra Italia. Vent’anni dopo dalle stragi dovremmo ricominciare proprio da loro due, con loro due e con tutti quelli che sono come Rino e Margherita.      

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