mercoledì 23 maggio 2018

23 maggio 1992. Per loro ancora chiediamo verità e giustizia!

Giovanni Falcone:"Gli uomini passano , le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini."
Oggi più che allora questa Italia ha bisogno di persone oneste che agognino quanto ha detto Paolo Borsellino: "(...) il fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità". 
La memoria e l'insegnamento di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, dei tanti che hanno sacrificato la loro vita perchè questo Paese diventasse un luogo ove Giustizia e Libertà diventassero principi di verità indicano la strada da seguire. 
Invece, conosciamo e riconosciamo coloro che oggi indosseranno le "maschere pittate a lutto"; li vedremo nei telegiornali, nelle prime file di tante cerimonie di commemorazione. Li conosciamo e li riconosciamo!
Oggi più che mai, anche in memoria di Giovanni Falcone occorre essere "partigiani": per Giustizia e Libertà!
Invitiamo a riflettere su quell'avvenimento che, insieme alla Strage di Via D'amelio,  segnò il culmine di una stagione di sangue nella quale, per mezzo dei mafiosi, si compie un drammatico disegno di "conservazione" nel nostro Paese. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono stati uccisi "solo" dai mafiosi; Falcone e Borsellino sono uccisi da "menti raffinatissime" alle quali ancora oggi non è stato dato volto. Uccisi perchè l'Italia continuasse ad essere un Paese "mediovale": un Paese in cui mafie, cricche, caste e cosche continuano a dominare. 

Per Loro chiediamo Verità e Giustizia
Nella fotografia, la Croma bianca su cui viaggiavano Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Giuseppe Costanza, l'agente che avrebbe dovuto guidare l'auto di Falcone e che sopravvisse alla strage. A pochi metri la croma azzurra sulla quale viaggaivano gli altri tre agenti di scorta che rimarranno solo feriti dall'esplosione: Angelo Corbo, Gaspare Cervello, Paolo Capuzza.
In questa immagine i resti della Croma marrone su cui morirono, dilaniati dall'esplosione che li investì in pieno, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. 
Il nome in codice della scorta era "Quarto Savona Quindici"

 Per AMORE
GIOVANNI FALCONE, FRANCESCA MORVILLO, ANTONIO MONTINARO, ROCCO DICILLO, VITO SCHIFANI, vivono nelle parole pronunciate da Paolo Borsellino la sera del 23 giugno 1992 , ad un mese dalla strage di Capaci:
Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. 
Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? 
Per amore! 
La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato, che tanto non gli piaceva. 


Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene.(...)"

giovedì 17 maggio 2018

Perchè non riusciamo a creare (anche) argini morali contro mafie e "pensiero mafioso"?


Ci immaginiamo tutti a sventolare idealmente Peppino Impastato ed i suoi "cento passi" ma nel contempo occorrerebbe anche fare memoria e riflettere sull'ammonimento di Leonardo Sciascia ai “professionisti dell'antimafia” , alla luce di quanto accadde, alle “maschere” dell’antimafia smascherate, sul nostro stesso agire: "I cortei, le tavole rotonde, i dibattiti sulla mafia, in un paese in cui retorica e falsificazione stanno dietro ogni angolo, servono a dare l’illusione e l’acquietamento di far qualcosa; e specialmente quando nulla di concreto si fa.(...)".
Se è vero che la riflessione che segue scaturisce da fatti e persone a noi vicine, fatti accaduti e personaggi attivi nella nostra regione, a nostro parere, questa riflessione è da intendersi  in senso generale tanto sono ricorrenti le situazioni ed i princìpi a quelli collegati.

Due fatti
Lo scorso 24 aprile 2018, nell'ambito del processo d'appello bis dell'inchiesta Minotauro, il procuratore generale del Piemonte Francesco Saluzzo parla dei rapporti che il boss della 'ndrangheta Salvatore De Masi, condannato a 9 anni, ha avuto con due esponenti politici, non pronunciandone il nome, rappresentanti una "ala deviata del Partito Democratico", precisando che (...) Il Pd non è questo. E queste persone non rappresentano tutto il Pd. Senza contare che il fenomeno della ricerca di serbatoi di voti è vasto e ha una portata più generale. Parliamo però di persone che facevano cattiva politica. Senza farsi troppe domande». (leggi qui)
Poche ore dopo la dichiarazione del procuratore Saluzzo Domenico (Mimmo) Lucà, ex-parlmentare di lungo corso, ha lasciato il suo partito sentendosi tirare in ballo da quelle parole, stanco di “insinuazioni”, rivendicando la sua condotta di uomo e l'attività parlamentare svolta. (leggi qui).

Due lezioni “scansate” e una domanda: Perché la magistratura è stata lasciata sola?
La prima “lezione” è quella di Paolo Borsellino (gennaio 1989) (leggi qui): (...) L'equivoco su cui spesso si gioca  è questo: si dice 'quel politico era vicino ad un mafioso', 'quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto'.  E no! questo ragionamento non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale,(…) Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. “(...)facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti anche se non costituenti reati.”
La seconda “lezione” è quella contenuta nella requisitoria pronunciata nel giugno 2013 da  Gian Carlo Caselli, all’epoca Procuratore Capo di Torino, nell’ambito del processo Minotauro, il processo che porta alla luce la "quantità e la qualità" della 'ndrangheta in Piemonte: “(…) La mafia c'è perché c'è mercato per i suoi servizi. Vedremo che ci sono tante persone che traggono vantaggi dall'esistenza della mafia. Persone che non hanno nessun interesse a denunziare nulla, persone , politici amministratori, che la legge penale non può punire perchè la loro colpa è l'Opportunismo. Una colpa grave sul piano politico-morale, ma non penalmente sanzionata. Una colpa che espone alla ricattabilità. (….)Perché la magistratura è stata lasciata sola (contro le mafie)? Per ignoranza, miopia, impreparazione, sottovalutazione culturale, oppure un certo distacco snobistico del nord? Di fatto se ne è favorito l’insediamento " (leggi qui)

Due motivi di sconcerto …e una domanda: Ci lasceremmo condurre ad una gita in montagna da qualcuno che non sapesse riconoscere l'arrivo di un temporale?
Il primo motivo di sconcerto deriva dai “tempi” dell’uscita di scena del personaggio politico dalla cui vicenda siamo partiti: a trent’anni dalla “lezione” di Paolo Borsellino, lezione che indica un principio per noi imprescindibile; a sette anni dall'Operazione Minotauro; a cinque anni (giugno 2013) dalla requisitoria che Gian Carlo Caselli, allora Procuratore Capo di Torino, volle riservare a se stesso e nella quale trattò proprio le “relazioni esterne”, pure non costituenti reato, della 'ndrangheta piemontese con esponenti del mondo politico-amministrativo piemontese .
L'Operazione Minotauro ed il successivo processo raccontano infatti, e fra le altre cose, di politici-amministratori coinvolti-intercettati in prossimità di eventi elettorali a “chiedere voti” o ad avere contatti con “personaggi” che si sarebbero rivelati esponenti di rilievo della 'ndrangheta calabrese, da anni felicemente accasata nella nostra regione. Personaggi che, anche all'epoca dei fatti, nulla però avevano ufficialmente a che fare con l'attività politica; personaggi che non erano neppure soggetti riconosciuti o “di riferimento” della società civile locale; personaggi sconosciuti ai molti ma tuttavia noti ai principali partiti come  soggetti che era “utile incontrare”, in quanto “portatori di voti”. Fra quei personaggi spicca il nome proprio di quel Salvatore (Giorgio) De Masi citato dal procuratore Saluzzo. La scusante addotta da tutti gli esponenti della politica coinvolti nelle indagini fu che questi non sapevano che il De Masi fosse legato alla criminalità organizzata. 
Eppure il De Masi è coniugato con Romeo Antonia, figlia di Romeo Sebastiano alias “Staccu”, ritenuto (fino alla sua morte) capo bastone della cosca Romeo-Staccu , nonché capo locale di San Luca; cognato di De masi è pure Giorgi Giuseppe alias “u capra”,  inserito nell’elenco dei latitanti più pericolosi. E Gian Carlo Caselli così descriveva il contesto e le modalità del suo agire:(...) Ama (il De Masi) intrattenere cordiali, amichevoli relazioni con vari personaggi, anche di spicco, del mondo politico/amministrativo. Costoro negano con ostinazione, tutti indistintamente, di aver mai saputo, sentito, intuito alcunchè di tali pesanti “parentele”. Eppure spesso si tratta di politici e/o amministratori scafatissimi, calabresi essi stessi, che di Rivoli e dei Rivolesi (De Masi compreso) sanno tutto e di più. Che proprio di lui e dei suoi dei parenti notoriamente mafiosi non sapessero nulla è francamente irreale(…).
Il secondo motivo di sconcerto riguarda “i modi”: stupisce ed amareggia constatare come la classe politica dimostra di non accogliere né la lezione di Paolo Borsellino ma neppure l'appello e le più recenti denunce di Giancarlo Caselli sugli “opportunisti”. Cosicché, per l'ennesima volta e come sempre accade in questi casi, ci troviamo a leggere le “difese d'ufficio” di esponenti-colleghi a favore di personaggi che si sono dimostrati quantomeno poco adatti a guidare una comunità, giacché hanno dimostrato di non conoscerla; oppure, sempre in quell'ambiente, assistiamo a mancate difese, imbarazzati silenzi, che paiono tuttavia la mera conseguenza di precedenti omissioni.
Nulla abbiamo da eccepire sul fatto che un soggetto non indagato,  e sino a prova contraria, si professi persona onesta tuttavia, parlando per metafora , ci poniamo una domanda: “Ci lasceremmo condurre ad una gita in montagna da qualcuno che non sapesse riconoscere l'arrivo di un temporale?”. A nostro parere, prendendo atto di non saper riconoscere l'arrivo di un temporale, sarebbe stato opportuno non attendere cinque anni e la dichiarazione gravissima di un procuratore generale per farsi da parte, non andare più “in montagna” e occuparsi di altre faccende.

Perché non siamo capaci di creare argini morali contro mafie e "pensiero mafioso"?
A nostro parere tutto questo manifesta anche colpe e omissioni della “società civile” ( novella “araba fenice”), di coloro che vorrebbero essere e rappresentare una barriera culturale contro le mafie e, per quanto ci riguarda, contro il “pensiero mafioso” (cercare di ottenere quello che non ci meritiamo). Ad oggi, noi cittadini che ci professiamo“responsabili” non siamo stati capaci di creare gli argini etici e morali necessari ad impedire le derive, “lo scandalo” di cui scriviamo e che, aldilà del fatto specifico e che -come sottolineato dallo stesso procuratore Saluzzo- riguarda tutte le compagini politiche-partitiche: la ricerca dei “portatori di voti”, il fare politica senza porsi certi problemi. Situazioni che tuttavia, pure in assenza di una fattispecie di reato specifica, assumono ancora più gravità dal momento che le mafie, sin dalla loro nascita, traggono linfa essenziale alla loro stessa esistenza e potere proprio dalle “relazioni” col mondo della politica e della comunità nella quale agiscono.
Ci sconcerta pertanto che l’uscita di scena di un soggetto scoperto ad avere frequentazioni poco raccomandabili avvenga ancora una volta non perché la società civile ha saputo innalzare l’asticella dell’inaccettabile (moralmente inaccettabile, pure se non penalmente rilevante) ma solo perché il soggetto si è sentito “tirare in ballo” dalla magistratura. Gli stessi "anticorpi" a cui una certa classe politica fa sempre riferimento quando si tratta di proclami contro mafie (e “pensiero mafioso”) in realtà non esistono perché, cosa ancor più grave, sono ritenuti “non necessari” dalla stessa classe politica, dal momento che noi della società responsabile ci dimostriamo oggettivamente incapaci e inadeguati a chiedere-pretendere che si innalzi l'asticella di quello che, come già detto, deve essere considerato “inaccettabile, pure se non penalmente rilevante!".
Quotidianamente la cronaca riporta notizie di “paladini-maschere” dell’antimafia (parola da abolire in quanto svuotata di ogni significato reale) smascherate, uomini e donne impegnate nell’attività pubblica pur avendo subito condanne definitive e/o avendo procedimenti in corso; fenomeni di corruzione ( l’altra faccia delle mafie) che pare assunta oramai a “sistema”. Fatti e situazione che, quando interessano persone appartenenti al mondo della politica sono addirittura la palese negazione di quanto sancito dall’ Articolo 54 della nostra Costituzione:” Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
Perché non siamo capaci di creare argini morali contro tutto questo? A chi giova? A nostro parere, a queste domande abbiamo il dovere di dare risposte e  -di conseguenza- provare ad elaborare azioni e strategie più efficaci a contrastare culturalmente mafie e “pensiero mafioso”.  Rischia di apparire "coraggio a buon mercato" rilanciare notizie pure gravissime delle mafie che commettono soliti o “aggiornati reati” (esponenti da poco condannati al 41 bis, la prima volta che accade in Piemonte, imprenditori che si rivolgono a ‘ndranghetisti per riavere somme di denaro prestate, la ‘ndrangheta che si mangia squadre giovanili di calcio) mentre il "Troncare e sopire....sopire e troncare" di manzoniana memoria continua ad essere la parola d'ordine “di pezzi” della società civile quando invece si tratterebbe di denunciare, dichiarandole inaccettabili, “le relazioni” ed i legami che, ad esempio, anche in Piemonte la 'ndrangheta rivela di avere attraverso "opportunisti" o addirittura presunte "ali deviate" presenti nei partiti (le testuali parole del procuratore Saluzzo a censurare gravissime colpe e ingiustificati silenzi!).
"Troncare, sopire...Sopire, troncare", nonostante in molti si sappia "tutto" da anni!
Perché la magistratura è stata lasciata sola (contro le mafie)? A questa domanda abbiamo il dovere di dare risposta
Presidio LIBERA “Rita Atria” Pinerolo

martedì 1 maggio 2018

Primo Maggio. Festa del Lavoro: c'è davvero poco da festeggiare e ancora tanto per cui dover lottare:

Primo Maggio: Festa del Lavoro,  Primo maggio 1947: Strage di Portella delle Ginestre. 

Un filo rosso-sangue fa sì che in Italia ancora oggi sia forte il "ricatto del lavoro", tanto che c'è davvero poco da festeggiare e ancora tanto per cui dover lottare: per coloro che hanno perso il lavoro; per coloro che un lavoro non l'hanno mai avuto; per coloro che lavorano senza diritti; per coloro che sul lavoro hanno perso la vita. 


Da principio fondamentale di una nazione, in Italia il Lavoro continua ad essere merce di scambio, svilito spesso da  regole-norme-leggi che, cancellando diritti conquistati a duro prezzo, privilegiano i cosiddetti "poteri-forti" e creano forme di moderna schiavitù: da regalia per compensare e premiare amici  o "servi del potere", ad elemento-chiave che ha reso possibile l'incremento delle diseguaglianze e la conseguente accumulazione di ricchezza nelle mani di "soliti noti". 

Eppure la Costituzione Italiana pone il tema del Lavoro ai primi quattro punti dei Principi Fondamentali. Rileggiamo quei Principi e comprenderemo allora perché, alla luce delle vicende storiche passate e presenti, proprio il Lavoro in Italia sia stato usato come arma di ricatto dalle forme di potere -palesi e occulte- che dominano la storia di questo Paese.  Anche contro questo, contro il ricatto del lavoro, manifestavano i contadini di quel I maggio del 1947 a Portella delle Ginestre. 

La Strage di Portella della Ginestra, Primo maggio 1947, viene considerata il primo esempio di "strage di stato", l'inizio di quella che negli anni successivi verrà detta "strategia della tensione": spargere sangue innocente per impedire che le cose cambino, oppure per indirizzare il cambiamento nella direzione voluta da un potere oscuro e "mafioso". La connivenza, la complicità, fra mala-politica e mafie è poi un corollario drammatico, scandaloso, inequivocabile, provato. 
Scandaloso è vedere ora come alcuni comportamenti del "potere" sembrano ricalcare i principi del potere mafioso: così come i capi-mafia siciliani distribuivano  le terre ai contadini - ingiustamente, non per merito bensì per "appartenentza o contiguita", per ricatto!- così il "potere" concede spesso il Lavoro, spesso non per merito ma per indurre a complicità ad accondiscendenza.    
Da principio fondamentale di una nazione, il Lavoro è diventato merce di scambio, regalia per compensare e premiare amici e servi (del potere), regole-norme a privilegiare i cosiddetti "poteri-forti", elemento chiave che ha reso possibile da un lato l'incremento delle diseguaglianze e dall'altro l'accumulazione di ricchezza nelle mani di "soliti noti": uno scambio che appare "ricatto".
Anche contro questo, contro il ricatto del lavoro, manifestavano i contadini di quel 1° maggio del 1947 a Portella della Ginestra.

la stele che ricorda la strage di Portella delle Ginestre avvenuta il 1 maggio 1947

Le parole di Serafino Pettasopravvissuto alla strage dei contadini di Portella della Ginestra, che fece 12 morti e 27 feriti.


«Ci eravamo dati appuntamento per festeggiare il Primo maggio ma anche l’avanzata della sinistra all’ultima tornata elettorale e per manifestare contro il latifondismo. Non era neanche arrivato l’oratore quando sentimmo degli spari. Avevo 16 anni, pensavo che fossero i petardi della festa, ma alla seconda raffica ho capito. Ho cominciato a cercare mio padre, non l’ho trovato. Quello che ho visto sono i corpi distesi per terra. I primi due erano di donne: la prima morta, sua figlia incinta ferita. Questa scena ce l’ho ancora oggi negli occhi, non la posso dimenticare». A sparare fu la banda di Salvatore Giuliano, «i mandanti non si conoscono ancora ma ad armare la sua mano furono la mafia, i politici e i grandi feudatari», spiega. «Volevano farci abbassare la testa perché lottavamo contro un sistema in cui poche persone possedevano migliaia di ettari di terra e vi facevano pascolare le pecore, mentre i contadini facevano la fame. Un mese dopo successe però una cosa importante: «Tornammo qua a commemorare i morti senza paura, “Non ci fermerete”, gridavamo tutti e non ci hanno fermati. Abbiamo cominciato la lotta per la riforma agraria e nel ‘52 abbiamo ottenuto 150 assegnatari di piccoli lotti. Ma neanche loro si sono fermati, e a giugno bruciarono sedi di Cgil e partito comunista, poi nel mirino finirono anche i sindacalisti».