giovedì 28 giugno 2012

Sarà beatificato don Pino Puglisi



il Papa ha autorizzato il decreto. Lo ha comunicato lo stesso Benedetto XVI 

Fonte : La repubblica





mercoledì 27 giugno 2012

INAUGURATA LA COOPERATIVA SOCIALE "ROSARIO LIVATINO-LIBERA TERRA"

Questa mattina è stata inaugurata la COOPERATIVA SOCIALE "ROSARIO LIVATINO-LIBERA TERRA".
Erano presenti alla cerimonia Luigi Ciotti, Umberto Di Maggio, Davide Pati, i familiari di Livatino e Saetta, il vescovo di Naro 

Rosario Livatino, "Il giudice ragazzino" secondo una definizione coniata da Francesco Cossiga,  fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre '90 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre - senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto - si recava in Tribunale.
Grazie alla testimonianza di Pietro Ivano Nava, il rappresentante di commercio che assistette casualmente all'omicidio, per la sua morte sono stati individuati i componenti del commando omicida e i mandanti . Tutti condannati all'ergastolo, in tre diversi processi e nei vari gradi di giudizio,  con pene ridotte per i "collaboranti".
Come Sostituto Procuratore della Repubblica al Tribunale di Agrigento, si occupò delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche (nell'85) di quella che poi negli anni '90 sarebbe scoppiata come la "Tangentopoli siciliana". Fu proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato. Dal 21 agosto '89 al 21 settembre '90 Rosario Livatino prestò servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione. 

 "ALLA FINE DELLA VITA , QUANDO MORIREMO, NESSUNO CI  VERRA' A CHIEDERE SE SIAMO STATI CREDENTI, MA CREDIBILI "( Rosario Livatino)
La stele posta su una parete del  un bene confiscato alla mafia a Naro in provincia di Agrigento dove ha sede la cooperativa


COSI' PAGA CHI AIUTA LO STATO'. La storia di Pietro Ivano Nava, il testimone dell'omicidio di Rosario Livatino

fonte La Repubblica 08 aprile 1992
Di Giuseppe D’Avanzo
(…) Era un venerdì caldo e senza afa. Erano le nove del mattino. Pietro Ivano Nava, agente di commercio, era a bordo della sua Lancia Thema a quattro chilometri da Agrigento.
Vide sul lato della strada una Ford Fiesta rosso-amaranto con la portiera aperta sul lato destro. Accanto un ragazzotto con il volto coperto dal casco. Più in là, un altro uomo. Sta scavalcando il guard-rail. Ha il volto scoperto, stringe nella destra una pistola. Insegue Rosario Livatino. Il "giudice ragazzino" di Agrigento è stato già colpito ad una spalla. Sta tentando la fuga in un vallone di erba bruciata e sterpi. Il killer della mafia lo braccherà come una bestia. Lo colpirà da lontano e, una volta abbattuto, sparerà ancora - quattro volte - per finirlo. Pietro Ivano Nava dalla sua Lancia Thema fa in tempo a vedere bene l' assassino in faccia. Raggiunge Agrigento. Chiama la polizia. Dice: "Ho visto l' assassino. Se lo trovate, saprei riconoscerlo". E lo ha riconosciuto davvero Domenico Pace, l' assassino."Non mi sento un eroe, non mi sento una mosca bianca. Non sono né l' uno né l' altro. Sono un cittadino che crede nello Stato né più né meno come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato non è un' entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono...". Pietro Ivano Nava è oggi un fantasmaHa lasciato la casa di Monte Marenzo, un paesino della Bergamasca dove ha vissuto per dieci anni. E' stato cancellato dai registri dell' anagrafe, dall' elenco telefonico, dal ricordo dei suoi familiari. Ha vissuto in un anonimo condominio della periferia romana, si è rifugiato su un' isola del golfo di Napoli e ancora in un paesino dell' Irpinia. E' emigrato in Olanda. 
Per sfuggire alla vendetta della mafia, vive ora in un' altro Paese europeo. Dice: "La mia vita è stata stravolta, sì. Ho 42 anni. Avevo degli amici che mi erano cari come fratelli. Non li vedo più, non ci si telefona nemmeno. Ho una famiglia. Posso vederla soltanto di tanto in tanto. Sempre all' improvviso, sempre in fretta. Ho una compagna e due bambini di nove e quattro anni. Trascorriamo del tempo insieme. Quando è possibile, se le condizioni di sicurezza lo permettono. 
Avevo un lavoro. Ero il rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate della ' Dierre' di Villanova d' Asti. Mi hanno licenziato che non era passato neanche un mese dal quel 21 settembre ancora prima di sapere che inferno sarebbe diventata la mia vita. Semplicemnte non volevano guai". La lentezza dello Stato "Avevo una società in nome collettivo in Campania, la ' Delli Cicchi-Nava' . E' stata sciolta due mesi dopo. Ero socio di un' altra società. Anche questa finita. Guadagnavo molto bene. Avevo davanti un futuro senza nubi. Ora vivo di quel che mi passa lo Stato. Non può essere questo il mio futuro. Allo Stato non chiedo nulla, chiedo che non abbandoni la mia famiglia. La mia famiglia, in questa storia, non deve entrarci. Non deve correre nessun pericolo. Mai. Né oggi né domani. Finora non ho nulla da recriminare. Chi mi sta accanto ha fatto il suo dovere. A volte con efficienza, a volte con un' esasperante lentezza burocratica. Io non sono un ' pentito' della mafia o della camorra. A volte ho la sensazione che, per la macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un ' pentito' e un testimone con un' immacolata fedina penale". E il futuro? Pietro Ivano Nava tace per un un attimo. Poi, dice: "Io ho perso le piccole cose, gli affetti, le consuetudini, i luoghi cari che fanno, di un uomo, un uomo. Ora voglio essere soltanto dimenticato. Chiedo di poter ricostruire la mia normalità, la mia anonima vita normale lontano da scorte e bunker. E non voglio passare da un tribunale ad un altro per ripetere la stessa dichiarazione già letta, sottoscritta, registrata, filmata. Un cruccio? Sì, non potrò più tornare in Sicilia. Mi piacevano i siciliani. Gente geniale, operosa, allegra, viva. Vivono in un contesto terribile. Hanno solo bisogno di un po' di fiducia...".

martedì 26 giugno 2012

Bruno Caccia. Magistrato ucciso dalla 'ndrangheta il 26 giugno 1983


Bruno Caccia



Fonte: Cascina Caccia

Nato a Cuneo nel 1917, Bruno Caccia dedicò la sua vita a far rispettare la legge.
Iniziò la sua carriera in magistratura nel 1941 nel Palazzo di giustizia torinese. Nel capoluogo piemontese ci rimase sino al 1964 ricoprendo la carica di Sostituto Procuratore, per poi passare ad Aosta come Procuratore della Repubblica. Nel 1967 Caccia ritornò nelle aule torinesi con l’incarico di sostituto Procuratore della Repubblica e, nel 1980, gli fu affidato il compito di presiedere l’organo giudiziario all’ombra della Mole.
Caccia era un uomo scrupoloso, attento ai dettagli, inflessibile, fedele al ruolo di tutore della legge. Queste caratteristiche lo hanno portato a portare a termine brillanti inchieste. Nel 1974 istituì un’indagine che portò alla luce lo scandalo delle tangenti delle giunte rosse del comune di Torino.
Diede inoltre un contributo di fondamentale importanza per contrastare la ferocia del terrorismo. Grazie alla sua opera, la Procura instituì i primi processi ai capi storici di Br e Prima linea. Il lavoro di Bruno Caccia in Procura fece vacillare le basi del dominio malavitoso imperante tra Torino e Provincia.
Nel capoluogo piemontese era arrivato un vero uomo delle istituzioni che non si poteva corrompere. La malavita lo sapeva e decise di eliminarlo. Bruno Caccia venne freddato con diversi colpi di pistola sotto casa. Domenico Belfiore è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio. Era il 26 giugno del 1983, giorno in cui Bruno Caccia pagò con la vita la sua fedeltà al dovere di magistrato. L’ennesima vittima di mafia in Italia.

sabato 23 giugno 2012

Musica e legalità alla Cascina Caccia


Tre giorni di concerti e interventi
nel bene di San Sebastiano da Po confiscato all'ndrangheta

Il procuratore capo della Repubblica di Torino Gian Carlo Caselli è ospite domenica pomeriggio. A seguire il concerto dell'orchestra Pequenas Huellas
Cascina Caccia, bene confiscato alla famiglia 'ndranghetista dei Belfiore, apre le porte a musica e legalità: anche quest'anno a San Sebastiano da Po torna la rassegna artistica "Armonia", organizzata da Libera, Gruppo Abele ed Acmos, in collaborazione con il Comune, l'IIS Beccari e l'associazione culturale Orme.
La kermesse dedicata a Bruno Caccia, il magistrato torinese ucciso dalla mafia il 26 giugno 1983, prende il via stasera alle 19.30 con l'intervento della figlia Paola Caccia e il concerto dei "24 corde". Sabato 23 è la serata di Beppe Crovella, pianista e membro storico degli "Arti e Mestieri", preceduto dal testimone di giustizia Pino Masciari. Ultima giornata, domenica, con il procuratore capo della Repubblica di Torino Gian Carlo Caselli, al quale segue l'esibizione dell'orchestra Pequenas Huellas. Durante le tre serate saranno esposte le opere della collezione Carla e Bruno Caccia, della Fondazione Benvenuti in Italia, oltre ad alcuni lavori di Piero Gilarsi e di Luca Lucioni, volto amico e colonna storica del Gruppo Abele, recentemente deceduto.
«Armonia - si legge in una nota degli organizzatori - nasce nell'intento di creare una cultura della legalità a partire dalla musica e dall'arte. L'obiettivo è di autoeducarsi alla bellezza, alla difesa del bene comune e all'etica, valori fondamentali per essere cittadini attivi nel contrasto ad ogni forma di illegalità».


venerdì 22 giugno 2012

In Europa la 'ndrangheta non esiste!


Duiisburg, provincia di Reggio Calabria. Ora le 'ndrine 
hanno una seconda patria
Fonte : LA Repubblica
di GIOVANNI TIZIAN e FABIO TONACCI
Duisburg, provincia di Reggio Calabria Ora le 'ndrine hanno una seconda patria
Dalla provincia sullo Stretto, l'organizzazione si è diffusa in quasi tutto il Vecchio Continente: Spagna, Francia, Svizzera, Olanda, Paesi dell'Est. Ma soprattutto in Germania. E l'80 per cento del narcotraffico è nelle sue mani. Con un controllo del territorio che somiglia a quello della madrepatria. Anche se i tedeschi sembrano non rendersene conto
"Buon vespro!", urla il padrino. "Buon vespro", rispondono in coro i sei uomini della locale, sistemati attorno alla tavola. Salvatore Femia prende fiato, e poi recita la formula. "La mia pancia è una tomba, il mio petto è una palata con parole di umiltà, è formata la società!". Il summit della "locale" di 'ndrangheta può iniziare. Nella stanza sul retro del ristorante di Femia, il "Rikaro", si parla di appalti, si parla di fare affari coi russi. Si parla della "mamma". Le microspie della polizia registrano anche le voci ovattate dei clienti della sala accanto, al numero tre di Hegaustrasse. Sono le otto di sera del 20 dicembre del 2009. E a Singen, paesone di 45 mila persone nel sud della Germania, 2000 chilometri a nord di "mamma" Reggio Calabria, è una serata gelida. Quanto sappiamo veramente delle infiltrazioni in Europa della mafia più potente d'Italia, che sta raggiungendo quella russa per importanza e giro d'affari?
Provincia di Reggio Calabria
La 'ndrangheta oggi controlla l'80 per cento del narcotraffico europeo. Secondo la Direzione nazionale antimafia introita con la droga 27 miliardi di euro all'anno. Ha colonizzato tutti gli stati dell'Unione, seguendo due logiche. L'emigrazione storica calabrese e il business. Importa e smercia cocaina ed eroina, investe in immobili e villaggi turistici, acquisisce società e titoli finanziari, organizza estorsioni, traffica in armi. Una multinazionale del crimine inserita dagli esperti del governo statunitense al quarto posto tra le organizzazioni mondiali più pericolose, dopo Al Quaeda, il Pkk e i narcos messicani. E la Germania è la sua seconda patria.
Nella provincia di Costanza (al confine con la Svizzera), dove si trova Singen, vivono 7 mila emigrati, il 40 per cento dei quali è di origine calabrese. Arrivati in terra tedesca con la grande ondata del 1959, che portò 200 mila italiani nei distretti produttivi del Nord Reno-Vestfalia. Radolfzell, cittadina di 33 mila anime è un'altra Singen. In superficie, placida come le acque del lago di Costanza su cui affaccia. Ma qui, nascosti in una palazzina anonima sulla Öschlestrasse, si riunivano alcuni degli 'ndranghetisti arrestati nell'indagine Crimine 2 della Procura antimafia di Reggio Calabria.
Un'inchiesta che ha raccontato alla Germania una verità ignorata ma sotto gli occhi i tutti. E cioè che la strage di Duisburg del ferragosto 2007, l'ultimo atto della faida di San Luca che lasciò a terra nel sangue sei esponenti della 'ndrina dei Pelle-Vottari, non era un caso. Non era solo roba di italienish. Un rapporto del Bundesnachritendienst, i servizi segreti tedeschi, già nel 2006 segnalava che gli 'ndranghetisti avevano fatto un salto di qualità, acquistando pacchetti azionari di Gazprom e di altre compagnie energetiche. Tre anni dopo, nel 2009, la polizia federale dichiarava che in Germania c'erano almeno 230 'ndrine con 1800 affiliati, dislocati soprattutto in Baviera, Assia, Renania settentrionale. Cinque "locali" sono impiantate a Ravensburg, Francoforte, Engen, Rielasingen e Singen. A Berlino, Duisburg, Erfurt e Monaco investono milioni di euro le famiglie dei Pelle, dei Nirta-Strangio, i Vottari, i Romeo. Tutti di San Luca. A Colonia i Morabito di Africo, a Stoccarda i crotonesi che - si sospetta - hanno strutturato una "locale". "E oltre ad investire - spiega Michele Prestipino, procuratore aggiunto dell'Antimafia di Reggio Calabria - controllano il territorio con estorsioni ed intimidazioni, come in Calabria e nella cintura urbana di Milano. Impongono il pizzo, e non solo agli emigranti calabresi. Decidono a chi deve andare il voto degli italiani all'estero". Ma come nasce una "locale" all'estero? E che rapporto si instaura con le cosche in Italia?
La mamma è sempre la mamma
"I governi francesi, tedeschi e spagnoli non vogliono ammettere di essere infettati dalla 'ndrangheta, perché la mafia porta soldi", scandisce Luigi Bonaventura, seduto al tavolo del salotto nella casa di Termoli affidatagli dal servizio di protezione ("sì, scrivetelo che sto a Termoli, perché lo sanno tutti ormai, lo sa anche chi mi sta cercando per uccidermi"). Bonaventura non è un pentito come gli altri. Cinque anni fa era il capocosca dei Vrenna-Bonaventura di Crotone, poi la scelta di collaborare con la giustizia. "La 'ndrangheta è arrivata dovunque, ma la sua testa rimane in provincia di Reggio Calabria, la "mamma" è sempre lì  -  dice - la vera forza sta nella capacità di adattamento. Bastano due-tre persone per formare una 'ndrina. E all'inizio hanno una certa autonomia, possono sperimentare modelli criminali diversi, allearsi con la malavita locale, scegliere strategie. Ma quando il business acquista volume, non si scappa...". Modelli criminali a geometria variabile, ma sempre dentro il recinto disegnato dai patriarchi dell'Organizzazione. E se una partita di coca o un investimento immobiliare non necessita dell'approvazione della casa madre, l'apertura di una unità locale, il conferimento di gradi e il regolamento dei rapporti tra clan esteri vengono discussi per forza al "Crimine" della provincia di Reggio Calabria. L'organo che assomiglia a un atipico Cda aziendale, deputato a coordinare la 'ndrangheta nel mondo. "In Germania hanno sistemato decine di locali, in Svizzera hanno i soldi - continua Bonaventura - in Olanda e Belgio controllano i porti. In Costa Azzurra hanno le ville, in Bulgaria investono nel settore turistico, nei Balcani controllano la rotta della droga. Non è difficile capire come si espande la 'ndrangheta, seguite i soldi".
Società svizzere e immobili italiani
Il portafoglio gravido di denaro sporco nelle tasche dei boss, quantificato nel 2008 in 44 miliardi di euro da Eurispes, porta in Svizzera. Nelle banche, dove è nascosto il tesoro della 'ndrangheta, e nell'alta finanza. "Alcune cosche della costa tirrenica - spiega il procuratore Michele Prestipino - aprono società a Zurigo a cui intestano titoli e beni immobili in Italia, per sottrarli al fisco e ai controlli". L'Antimafia italiana ha certificato l'esistenza di due locali, a Zurigo e a Frauenfeld. Nell'operazione Crimine 2 spunta un soggetto, "Ntoni lo svizzero" alias Antonio Nesci, cugino alla lontana del capo di Singen Bruno Nesci. Gli investigatori lo ascoltano al telefono mentre spiega che a Mossendorf, borgo svizzero di 3 mila anime, può contare su cinque persone, "uomini a mia disposizione", dice.
Nelle valli attorno a Zurigo i capicosca sono per lo più a piede libero. Liberi di gestire aziende e ristoranti a nome proprio. Come i boss della ndrina catanzarese Ferrazzo, presenti nel cantone di Zurigo. In Svizzera passano gli interessi e il denaro delle famiglie Bellocco di Rosarno, Gallico e Parrello di Palmi. I clan cioè che, qualche migliaio di chilometri più a sud, si sono spartiti negli anni gli appalti dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Alleata con tutti, e con nessuno
"La 'ndrangheta non ha problemi a fare affari con gente di ogni razza e nazione", spiegava qualche anno fa ai magistrati il pentito Saverio Morabito. Lavora e sfrutta tutte le realtà criminali estere, ma non stabilisce mai vere alleanze. E' in quest'ottica, opportunistica e parassita, che vanno interpretate le reti che ha creato per controllare i grandi porti di Rotterdam, Anversa, Barcellona, Pireo: le vie d'ingresso della droga in Europa.
In un recente rapporto riservato della polizia olandese si legge che "tra Amsterdam, Hoofddorp, Diemen e Amstelveen vivono almeno una ventina di boss calabresi e un centinaio di 'ndranghetisti che trafficano in armi, eroina, cocaina e pasticche. Hanno appartamenti di lusso in piazza Minerva ad Amsterdam, agiscono indisturbati perché il governo olandese non è consapevole del loro passato criminale". Sono legati alle famiglie Nirta-Strangio e Romeo di San Luca (Giovanni Strangio, protagonista della strage di Duisburg, venne arrestato il 12 marzo 2009 proprio a Diemen) e alle 'ndrine di Cirò e Corigliano Calabro. Ebbene, quel rapporto spiega che la 'ndrangheta ha contatti con i 5 criminali più pericolosi d'Olanda. Non solo. Per controllare le merci del porto di Rotterdam, dove passa il 30 per cento della cocaina proveniente dalla Colombia (sono circa 36 mila chili che arrivano ogni anno sulle navi, nascosti nei container di frutta), si serve di una alleanza strategica con i mafiosi albanesi. E si garantisce informazioni e impunità infiltrando i suoi nella polizia. Come ha fatto con Barbara Fun, olandese di 39 anni, che grazie ad amicizie nei servizi segreti fino al 2010 ha potuto lavorare nella polizia regionale di Haaglanden nonostante nel 1992 fosse stata arrestata in Portogallo insieme con due esponenti della cosca Di Giovane-Serraino.
Con la mafia russa la 'ndrangheta dialoga da quando è caduto il muro di Berlino. La "lingua" è sempre quella: armi e coca. Sulla rotta balcanica della droga, che parte dall'Afganistan e passa da Grecia, Romania, Albania e paesi dell'ex Jugoslavia, la 'ndrangheta ha legami con tutti i gruppi criminali autoctoni. La mafia serbo-montenegrina si è offerta di consegnare eroina e cocaina ai calabresi direttamente a Milano. L'operazione Magna Charta del Ros dei Carabinieri, che il 4 giugno scorso ha portato all'arresto di una trentina di trafficanti in tutta Europa, ha svelato l'asse che si era creato per il trasporto via mare tra una cosca piemontese affiliata ai Bellocco di Rosarno e l'uomo d'affari Evelin Banev, sospettato di essere uno dei capi della mafia bulgara. "Anche mio zio Sergio Vrenna  -  racconta a Repubblica il pentito Luigi Bonaventura  -  ha affari con la mafia bulgara, con la quale condivide il codice "del coltello", il codice d'onore mafioso. Andate a vedere gli investimenti immobiliari dei calabresi sulle coste turistiche del mar Nero. Tutta roba nostra". E poi c'è Barcellona.
Barcellona, la "nuova" Marsiglia
La capitale della Catalogna è il nuovo crocevia europeo delle mafie. "Siamo tutti là, sembra la Marsiglia degli anni ottanta", vanno dicendo da qualche anno gli 'ndranghetisti. A Barcellona si sono ritrovati i calabresi della cosca Piromalli di Gioia Tauro, e la 'ndrina Parrello e Gallico di Palmi. Ci sono poi gli emissari dei narcos colombiani e messicani, le cui joint venture della coca con la 'ndrangheta sono ormai stabili e ben oliate. Qui, nei ristoranti attorno alla Ramblas, si decidono i prezzi delle grandi partite di droga in arrivo dal Sudamerica. L'ultimo a finire in carcere è stato Carmelo Gallico, 48 anni, detto "U Picu", capo dell'omonima cosca di Palmi. Si nascondeva in un'abitazione nel quartiere universitario di Barcellona, e si intestava fittiziamente delle proprietà in Italia.
Il terreno spagnolo è stato concimato e reso fertile soprattutto da un soggetto: Santo Maesano, alias Hoffa, alias il professore, il capo delle famiglie calabresi Maesano-Paviglianiti. Lo racconta Francesco Forgione nel libro "Mafia Export". Trasferitosi in Spagna alla fine degli anni Novanta, Maesano era uno dei più grandi narcotrafficanti del mondo. Dal centro penitenziario Valdemoro di Madrid faceva affari con i suoi referenti in Colombia e in Venezuela, comprava armi, riceveva il suo vice Vincenzo Romeo. Il carcere Valdemoro era più una casa di riposo che una vera prigione.
In Spagna, dunque, non esiste il regime speciale del 41 bis. In Svizzera i boss girano senza nascondersi. In Germania addirittura le mogli degli 'ndranghetisti arrestati ricevono il sussidio di disoccupazione, 365 euro al mese. "E sono esentati dal pagare l'affitto", come racconta Vito Giudicepietro, sindacalista del patronato Inca-Cgil di Singen, punto di riferimento della comunità italiana. Com'è possibile? Con quali mezzi si sta contrastando la 'ndrangheta all'estero?
In Europa la 'ndrangheta non esiste
Il problema è che, tecnicamente, la mafia non esiste nei codici giuridici degli stati europei. Il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso c'è solo in Italia, introdotto nel 1982. All'estero appartenere a una cosca, far parte di una 'ndrina riconosciuta, non è di per se un reato. Se non ci sono delitti specifici, le forze dell'ordine non possono aggredire i patrimoni mafiosi con i sequestri preventivi, né emettere custodie cautelari. "Il crimine organizzato progredisce e noi siamo ciechi", ha sintetizzato pochi giorni fa il commissario della polizia francese Jean-Francois Gayraud davanti alla commissione antimafia europea.  
"Quegli ordinamenti giuridici orbi - dice Prestipino - sono l'ostacolo più grande. In Europa le istituzioni fanno fatica a comprendere la pericolosità del vincolo associativo e la forza di intimidazione dei clan". Qualcosa, eppure, si muove. La nostra Direzione nazionale antimafia sempre più viene presa a modello dalle polizie estere. Le 111 rogatorie inviate nel 2011 dalla Dia ai paesi europei (34 alla Spagna, 27 all'Olanda, 14 alla Germania, 7 al Belgio)hanno trovato la collaborazione che meritavano. E da Bruxelles il direttore dell'Olaf (Ufficio per la lotta antifrode) Giovanni Kessler, dopo aver segnalato un aumento del 10 per cento negli ultimi due anni delle indagini su reati economici e finanziari della criminalità organizzata, sposa una nuova linea. "Serve un soggetto europeo unico che abbia poteri investigativi e di accusa, serve il procuratore europeo". E in molti, anche all'estero, guardano alla Direzione investigativa antimafia (Dia) come a un modello da esportare.


giovedì 21 giugno 2012

Non basta fare cortei, mettere lenzuola se poi non c'e' continuità d'interventi. E allora nasce Libera


Mafia: dal Gruppo Abele a Libera, don Ciotti si racconta

 Fonte: Antimafia2000

21 giugno 2012
Roma. 
Dagli inizi resi difficili dalla povertà all'attuale guida di Libera, don Luigi Ciotti si raccconta. In un'anticipazione sulla "Stampa" del programma dedicato alla figura del sacerdote antimafia, in onda questa sera alle 23,30 su Rai Due, don Ciotti parte dall'infanzia, in una Torino alla soglia del boom ma con la sua famiglia in sostanziale povertà, e invidivua in un episodio preciso la sua scelta di non violenza: "quando tirai per rabbia un calamaio addosso alla maestra. Mia madre a casa mi diede una sonora lezione, e per questo le saro' per sempre riconoscente". Fondatore in gioventu' del Gruppo Abele, dedito alla lotta alle tossicodipendenze, don Ciotti offre una visione d'insieme sul tema delle droghe: e se prima erano l'eroina e le sue tossiche sorelle ad avere il monopolio della morsa su giovani e non, "ora raccogliamo persone che sono dipendenti dal gioco d'azzardo, da Internet". 
Il passaggio dalla lotta alle droghe a quello al narcotraffico e' naturale, e lo sbocco sulla strada dell'antimafia ne è la logica conseguenza. "Dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, la morte di Falcone e Borsellino e quei stupendi ragazzi della polizia di Stato che li accompagnavano. In quelle due giornate ero in Sicilia proprio a lavorare sul problema delle dipendenze -racconta don Luigi-. E in quel momento uno sente prepotente di dover continua a stare sulla strada, con i poveri, ma nello stesso tempo di dire 'ma perche' non mettiamo insieme le migliori forze del paese? Non basta fare cortei, mettere lenzuola se poi non c'e' continuità d'interventi. E allora nasce Libera"
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lunedì 18 giugno 2012

Sentinelle del Territorio: "Vogliamo aspettare il prossimo allagamento" ?



Vogliamo aspettare il prossimo allagamento?
(Non abbiamo dovuto aspettare troppo...E ieri sera abbiamo replicato)

Pinerolo. allagamento del  sottopasso di C.so Torino
 Due ore di pioggia torrenziale ieri sera hanno provocato a Pinerolo gli stessi effetti dello scorso 29 aprile quando un violento temporale, pure di minor durata, aveva determinato l’allagamento della parte terminale di Via Martiri del XXI, con l’acqua che si riversava nelle cantine e nei garages di case e condomini della zona e l’allagamento del sottopasso. 
La settimana scorsa, la sera del 14 giugno, si era svolta l’assemblea pubblica indetta dall’Osservatorio 0121 sul tema. Il titolo dato all'incontro, quasi una preveggenza, era stato: Vogliamo aspettare il prossimo allagamento?”.


Gli organizzatori
L’Osservatorio 0121 nasce aderendo al Forum Italiano del movimento “Salviamo il paesaggio difendiamo il Territorio”, e avendo come scopo la sensibilizzazione dei cittadini e delle amministrazioni verso una delle risorse principali delle comunità, il Territorio-Paesaggio, oggetto di tutela persino dalla nostra Costituzione laddove all’art. 9 si dice: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
L’Osservatorio 0121 ha introdotto il tema dell’incontro sottolineando come l’attività edilizia, quando viene condotta in maniera poco attenta e non tenendo conto della situazione esistenti,  può costituire un pericolo per il territorio. La riduzione delle superfici agricole e delle verdi diminuisce infatti la capacità drenante del suolo e quindi può determinare, in presenza di insufficienti sistemi fognari e di smaltimento delle acque,  episodi come quelli che si sono verificati: le acque che si riversano dalla collina pinerolese, e non efficacemente intercettate, trovano in Via martiri del XXI una sorta di canale "naturale, insufficiente tuttavia a garantirne il corretto deflusso. Da qui il ripetersi degli allagamenti!
Sembra quindi poco lungimirante continuare a consumare suolo in una cittadina nella quale  circa 4.000 alloggi risultano sfitti. Quindi, perchè costruire ancora in una area così delicata? Ricordiamo che questa è l’area  prossima a Monte Oliveto, la famosa area CP7 del Piano Regolatore Generale, per la quale l’attuale Amministrazione ha di fatto restituito alle imprese concessionarie dei diritti edificatori la possibilità di realizzare un nuovo insediamento residenziale. Gli organizzatori rimarcano un altro aspetto, solitamente poco considerato: l’eccessiva estensione delle aree edificate, oltre ai problemi contingenti di "invenduto" derivanti dalla crisi economica in atto, determina un aggravio dei costi a carico della collettività dovuti alla manutenzioni ed ai servizi di cui occorre dotare le arre di insediamento. 
Da parte dell'Osservatorio si è voluto sottolineare come una urbanistica “partecipata”, una gestione del territorio che nasca anche valorizzando l’esperienza e le indicazioni di coloro che vivono realmente in quel territorio, possa contribuire a cambiare l’indirizzo di una attività, l’edilizia, che pare volta al perseguimento di un “profitto” che avvantaggia solo alcuni, e dove le condizioni e i limiti imposti dalla salvaguardia del bene comune "paesaggio-territorio" spesso non vengono considerati. La richiesta è quindi anche quella di indire un Consiglio Comunale "aperto" nel quale si discutano gli indirizzi urbanistici della città di Pinerolo.
Le richieste specifiche avanzate dall’Osservatorio ( alle quali si è chiesto di aderire firmando il relativo documento) poste in discussione sono state le seguenti:
a)      verifica situazione fognaria esistente
b)      messa in sicurezza del sottopasso e zone “alluvionate”
c)      studio ed intervento a breve termine su pulitura-riassetto idrogeologico a monte (collina)
d)      rivalsa economica sul progettista-appaltatore-collaudatore del sottopasso
e)      stop alla cementificazione       
Gli interventi dei partecipanti.
I partecipanti hanno anzitutto posto in evidenza come il problema “alluvione” per la zona di Via Martiri del XXI sia un problema serio e i danni economici subiti dalle abitazioni -che hanno avuto garages e cantine allagate-  non siano trascurabili; danni in realtà quasi sempre non "riconosciuti" ai cittadini  poichè la Regione ha imposto una franchigia di € 3.500,00 sull’eventuale richiesta di risarcimento. 
Interessante l’intervento che faceva notare come, accanto al fenomeno degli alloggi sfitti e dell'allargamento delle fasce sociali in difficoltà economiche, si unisca il paradosso di avere alloggi “popolari” davanti ai quali si vedono parcheggiate “Porsche” ( il noto marchio di automobili di lusso). Occorrerebbero pertanto attente verifiche su coloro che  occupano alloggi di edilizia popolare, i quali rappresentano un notevole onere di manutenzione a carico del Comune, senza magari averne più diritto in considerazioni di migliorate situazioni economiche
Da parte di alcuni cittadini è stata avanza la proposta di far pagare lIMU anche ai costruttori qualora gli edifici risultino ultimati e anche se le unità abitative siano ancora invendute.
Intervento del Sindaco di Pinerolo, Eugenio Buttiero.
Il Sindaco di Pinerolo era stato immediatamente chiamato in causa da gli organizzatori del dibattito, anche perchè egli ha mantenuto per sé, sino ad oggi, la delicata delega all’Urbanistica; forse, come è stato detto,  per curare meglio quell’ambito non avendo trovato nessuno di sua fiducia all’altezza dell’incarico. 
Il sindaco non ha voluto negare l’evidenza del problema: le nuove costruzioni che sono sorte a ridosso di Via Martiri sono un dato di fatto; così come è reale l'insufficiente portata dell’impianto fognario esistente. Un impianto che risente anche di una impostazione funzionale oramai superata, facendo confluire in una unica canalizzazione sia le acque “bianche” che le acque “nere”. Questo determina una complicanza alle soluzioni di smaltimento ipotizzabili e consentite.
L’impegno assunto dal Sindaco è stato di incaricare i tecnici del comune di un immediato e attento esame della situazione per verificare lo stato reale degli impianti esistenti e le misure adottabili. Occorre considerare, ha sottolineato il Sindaco, che gli interventi risolutivi  e necessari non sono di poco conto e potrebbero essere adottati solo nelle previsioni di spesa dei prossimi anni. Riconoscendo una gestione oculata delle amministrazioni precedenti , il Sindaco  ha infatti rilevato come esiste la possibilità di ricorrere a mutui per la realizzazioni di opere impegnative come quelle ipotizzabili nel caso specifico e che sarebbero -a suo dire-  nell’ordine di  €1.500.000,00. Nell’immediato occorre tuttavia considerare la necessità di interventi di portata più ridotta ma che possano alleviare il problema. Il sindaco ha ribadito la sua vicinanza ai problemi dei cittadini, assumendosi le responsabilità che ne incorrono anche se derivanti da fatti  e situazioni pre-esistenti alla attuale amministrazione.
Conclusione.
Poichè l’adagio “prevenire è meglio che curare” è stato citato sia dal Sindaco che dai cittadini, anche noi del presidio Libera "Rita Atria" saremo attenti a verificare che anche queste non siamo parole dettate dalla emergenza del momento ma si tramutino in atti e politiche territoriali coerenti e conseguenti: “Sentinelle del territorio” significa conoscere e vigilare anche su un ambito importante come quello dell'urbanistica della città!
presidio Libera "Rita Atria" Pinerolo

"Rivelerò alla Procura di Palermo il nome di chi incontrò Pio La Torre prima di essere ucciso"


 Pio La Torre, segretario del PCI siciliano, pochi giorni prima di morire aveva incontrato 5 professori universitari a cui voleva far visionare documenti riservatissimi relativi ai rapporti tra mafia, politica, anche estera, e imprenditoria da Portella della Ginestra alla scalata dei corleonesi. Il secondo incontro non si tenne mai e quei professori sono rimasti fino ad oggi figure senza volto.   

Fonte :  L'Unità- 
la torre pio web0Solo lui può raccontare ai magistrati di quei documenti riservatissimi in possesso di La Torre”.
di Nicola Biondo - 17 giugno 2012
Intervista all'avvocato Armando Sorrentino
Lo sguardo di Armando Sorrentino è mobile e vivacissimo. A volte dolente: come se la conoscenza di fatti, nomi, intrecci e inganni, in terra di mafia, nel Paese delle stragi, lo inchiodi a ragionamenti inesprimibili solo a parole.
Dirigente politico, avvocato di parte civile per il Pci-Pds nel processo per l’omicidio di Pio La Torre e il suo uomo ombra Rosario Di Salvo, studioso e libero battitore della sinistra siciliana. Sorrentino è balzato agli onori della cronaca per un libro-inchiesta sull’omicidio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre, avvenuto il 30 aprile 1981. Delitto eccellente, forse qualcosa di più, quello di La Torre. Sul quale la Procura di Palermo sta riaprendo le indagini proprio sulla base di nuovi elementi, alcuni dei quali forniti dal volume di Sorrentino, scritto con il giornalista Paolo Mondani. Uno su tutti: il segretario del Pci pochi giorni prima di morire aveva incontrato 5 professori universitari a cui voleva far visionare documenti riservatissimi relativi ai rapporti tra mafia, politica, anche estera, e imprenditoria da Portella della Ginestra alla scalata dei corleonesi. Il secondo incontro non si tenne mai e quei professori sono rimasti fino ad oggi figure senza volto.       
Quando ha incontrato uno di questi cinque uomini chiamati da Pio La Torre?
Nel 2007 e solo una volta.
Perché non ne ha parlato subito?
Comprendo la sua domanda. Ma l’esistenza di questo personaggio è pubblica. Lo intervistò prima di me un giornalista nell’aprile 2007. Nessuno però dice nulla: né i magistrati né alcuno di quei dirigenti politici che si affrettano ad ogni anniversario a celebrare La Torre.
Vuole fare adesso il suo nome?
Lo farò solo ai magistrati e poi, com’è giusto, saranno loro ad indagare.
Cosa le ha detto questo personaggio?
Da quell’incontro con La Torre, e dai fatti che poi si sono succeduti, si è convinto che sia esistita una sorta di struttura riservata a copertura di una sistema di potere in Sicilia, come una trincea che spiega decenni di crimini di sangue ma anche politici ed economici. La parte visibile sono gli omicidi di mafia la cui spiegazione non si trova solo nelle dinamiche mafiose.
Una ricostruzione che lei ritiene credibile?
La Torre parlava di “direzione strategica della mafia”, di un “tribunale internazionale” che decideva i delitti politici in Sicilia. La Torre è l’ultimo dirigente comunista ad essere ucciso ma prima di lui due generazioni di militanti vengono trucidati. La lotta antimafia non è nata dopo le stragi del ’92, anzi.
Ieri come oggi si parla di trattativa, di patti tra Stato e Cosa nostra. La Torre fu ucciso perché intuì questi legami?
Nessuna banda politico-criminale è più longeva di Cosa nostra. L’ossessione di La Torre era chi permetteva il “successo” di questa banda. Le faccio notare che ad ogni forte cambiamento politico corrisponde un cambiamento di Cosa nostra: i padrini italo-americani del dopoguerra durante il monopolio democristiano, poi l’ascesa dei corleonesi parallela alle fortune andreottiane fino alla dittatura di Riina durante il decennio craxiano. Tante trattative per un unico lungo patto.
Secondo questo testimone La Torre mette intorno ad un tavolo tutti professori universitari di letteratura e esperti del linguaggio. Nessuno storico, non le sembra strano?
A loro La Torre chiede che leggano dei documenti per analizzarne il linguaggio: potevano essere di tipo militare e messaggi provenienti da uomini di Cosa nostra. I mafiosi e il loro modo di comunicare a volte sono molto raffinati e complessi. Pensi al killer di La Torre: diplomato al liceo classico, lontano dal prototipo del “viddano” e pur essendo un soldato semplice sedeva alla pari nelle riunioni della Cupola.
E’ solo per paura che “il professore” non ha parlato?
La paura non spiega tutto. Lui ci dice che La Torre gli impose il silenzio assoluto anche all’interno della federazione. La paura dell’isolamento è spesso più forte della paura di morire. La morte è un attimo, l’isolamento ti divora la vita.
Killer e mandanti mafiosi sono stati condannati per il delitto. In questi trent’anni si è sempre parlato di moventi esterni per l’omicidio La Torre: non solo l’impegno antimafia ma anche contro i missili nucleari di Comiso, addirittura una pista interna.
La pista interna fu un depistaggio anche raffazzonato ma ha messo in allarme chi nel Pci siciliano  non era privo di peccati, anzi accettava il sistema di potere dominante. La Torre fu un uomo di rottura dentro il Pci siciliano, contro quel meccanismo che aveva inglobato una parte del partito. Lo dice lo stesso ex-segretario Natta: in Sicilia non vi fu un compromesso storico ma solo un compromesso. E le dirò di più: Berlinguer si è “fermato” a Eboli, la sua spinta ideale non è mai arrivata in Sicilia. Ai funerali di La Torre fu permesso di parlare al presidente della Regione, l’andreottiano D’Acquisto, il cui governo La Torre definì il peggiore nella storia dell’isola.
Ma nell’era di internet, che senso ha parlare di una “vecchia” storia di mafia, di comunisti, di segreti legati alla guerra fredda. Sembra archeologia, non le pare?
La nostra è un’indagine sul potere, sul coraggio di sfidare il potere. E spesso il potere non ha colore politico. Oggi La Torre sarebbe un feroce critico, sempre da sinistra, un punto di riferimento per i giovani: aveva capito che la mafia e la politica, come le avevamo conosciute stavano morendo, sostituite da altri soggetti non più definibili tout court con i vecchi schemi, destra-sinistra, criminale-illegale. Era un eretico, ce ne fossero di eretici come lui.
Parliamo sempre del passato ma com’è la mafia oggi?
Da sempre e’ una delle manifestazioni, quella più brutale, del potere italiano. Cambia forma ma è sempre un esercito a disposizione di altre logiche. La Torre diceva pubblicamente che la sola azione della magistratura non basta a capire cosa è la mafia, il malaffare. Ci vuole la politica, una sua assunzione di responsabilità. Perché spesso la magistratura ha fatto da tappo alla verità, anche nel caso La Torre.
A cosa si riferisce?
Come parte civile non abbiamo potuto interrogare uno dei killer, reo confesso. Non sono state svolte indagini precise nemmeno sulla dinamica dell’omicidio. Perché?
Giovanni Falcone indagò a lungo anche sull’omicidio di La Torre ma le indagini non lo soddisfacevano.
“Non firmerò quell’inchiesta nemmeno se mi torturano”, ecco cosa disse. E pubblicamente diceva anche che la mafia non prende ordini. Ma sapeva che non era così, era un messaggio verso l’esterno, quasi a tranquillizzare i suoi avversari nelle istituzioni.
Poi però arrivo l’attacco di Leoluca Orlando che diceva che i giudici palermitani tenevano le carte nei cassetti sugli omicidi eccellenti.
Un attacco irrituale ma i diari di Falcone confermarono che c’era qualcosa di vero. Al giudice –come lui stesso racconta – non fu permesso di indagare sul ruolo dei servizi segreti sui delitti La Torre e Mattarella. Sa quando vidi l’ultima volta il giudice?
Prego
Aula Bunker, Processo La Torre, fine maggio 1992: improvvisamente Falcone entra nell’aula che stava interrogando Bruno Contrada [ex-numero tre del Sisde, condannato a dieci anni per mafia]. Ero dietro Contrada, nei banchi riservati alle parti civili. Per pochi secondi il giudice lo osserva con un espressione profonda, dura. Poi prende posto ma la seduta venne sospesa. Pochissimi giorni dopo avvenne la strage di Capaci. Ancora una volta si decise di fare politica con il sangue.
Lei crede che ci siano altre voci rimaste ancora nell’ombra?
Non ne ho le prove ma sono sicuro che ci siano.


giovedì 14 giugno 2012

Processo Rostagno: le indagini malfatte, la pista mafiosa mai seguita e il colonnello che non ricorda


 C'era bisogno di una ulteriore testimonianza per sapere che i carabinieri per anni non hanno mai indagato a dovere attorno al delitto di Mauro Rostagno? La risposta che viene da dare è no, non c'era questo bisogno perché già questa circostanza è un fatto assodato dal dibattimento che è in corso da 16 mesi dinanzi alla Corte di Assise di Trapani.
E che si trattava di indagini non condotte a perfezione lo dimostra la circostanza certamente insolita che i carabinieri che per anni hanno detto di avere indagato sono stati ad un certo punto sentiti come persone informate dei fatti quando la Procura di Trapani a metà degli anni '90 riaprendo le indagini si accorse di gravissime anomalie, come la sparizione dei brogliacci delle intercettazioni e dei nastri delle stesse intercettazioni. Debbono essere state convocazioni indigeste se un importante ufficiale, come l'ex comandante del reparto operativo dell'arma, oggi colonnello Elio Dell'Anna, sentito nel processo nel corso dell'udienza di oggi 13 giugno, ha addirittura rimosso il ricordo della sua convocazione dinanzi all'allora procuratore di Trapani Garofalo. Non ricordo ha risposto all'avvocato di parte civile Carmelo Miceli, uno dei tanti non ricordo che hanno condito la sua testimonianza. Tanti non ricordo, forse troppi, eccessivi per un teste che è stato chiamato sul pretorio dalla difesa dell'imputato Vito Mazzara (il presunto assassino di Rostagno) e che con la sua testimonianza doveva aprire uno scenario non nuovo, già sondato ed escluso dalla magistratura, ma l'avvocato Vito Galluffo ci ha provato a far riparlare delle possibili connessioni tra il delitto Calabresi e il delitto Rostagno. La vicenda è questa. Nel 1988 la Procura di Milano e l'ufficio istruzione riaprono le indagini sul delitto del commissario Luigi Calabresi. C'è un pentito, ex componente di Lotta Continua, Leonardo Marino, che accusa l'esecutivo del movimento, nel frattempo sciolto, di avere ordinato l'uccisione del commissario Calabresi. L'accusa è diretta al leader di Lotta Continua, Adriano Sofri, un avviso di garanzia arriva a Rostagno perché era componente di quell'esecutivo mandante del delitto Calabresi, anche se secondo il pentito Marino, Rostagno era contrario. Mauro Rostagno dagli schermi di Rtc reagisce a quella comunicazione giudiziaria, fa un editoriale, dice che presto vuole essere sentito dal giudice istruttore Lombardi. Ma i killer a Lenzi arrivano prima.
Una vicenda che si è riaperta in Corte di Assise. Risultava risolta, i contorni emersi erano risultati fin troppo frutto di fantasia, scenari dove semmai possono cogliersi aspetti di pre concetti politici nei confronti di ambienti politici. "Vicenda infarcita da gratuiti giudizi spacciati per notizie di reato" commenta in una pausa dell'udienza fuori dall'aula il pm della Dda di Palermo Gaetano Paci. Che bisogno c'era di riaprire questi scenari? Il bisogno è stato tutto della difesa degli imputati che sostengono che Rostagno non fu ucciso dai loro assistiti, dalla mafia insomma, ma da altre entità. La pista Calabresi? Ci sta, a sentire le difese. La sintesi è questa: Rostagno indagato per il delitto del commissario non ci sta e vorrebbe essere sentito per accusare meglio i suoi ex compagni di Lotta Continua. Incarica un avvocato, Giuliano Pisapia di parlare con il giudice istruttore, Antonio Lombardi, per farsi presto sentire. E l'avvocato in effetti parla a Lombardi e dice che Rostagno vuole essere sentito per fare rivelazioni clamorose. Ora tutto questo non lo dicono i diretti interessati, ma l'ex capitano oggi colonnello Elio Dell'Anna. E' lui che nel 1992 mette tutto questo nero su bianco, in un "pro memoria" per il pm titolare dell'indagine sul delitto Rostagno, il suo scritto deriva da un colloquio avuto con il giudice Lombardi. Quando la notizia a suo tempo uscì su L'Espresso e Panorama, il giudice Lombardi smentì, Adriano Sofri che era stato chiamato in causa anche per il delitto Rostagno, presentò denuncia per calunnia. Oggi fuori dall'aula grazie a Valeria Gandus che è andato a sentirlo ha fatto sentire la sua voce anche l'avvocato che secondo il pro memoria di Dell'Anna per conto di Rostagno andò dal giudice Lombardi a sollecitare l'interrogatorio. Si tratta di Giuliano Pisapia, attuale sindaco di Milano. Per l'ufficiale dei carabinieri altra smentita. Pisapia a valeria Gandus ha dichiarato: "L'abboccamento con il giudice Lombardi non c'è mai stato, la ricostruzione di Dell'Anna è totalmente destituita di fondament. All'epoca dell'arresto di Sofri, Rostagno aveva dato semplicemente la sua disponibilità a farsi interrogare". Valeria Gandus chiosa: "Rostagno non voleva certo testimoniare contro i suoi compagni, come provano le registrazioni dei suoi interventi alla televisione privata di Trapani dove ribadiva la sua fiducia a Sofri e rivendicava la propria militanza in Lotta continua. In ogni caso, non ebbe il tempo di testimoniare, perché venne ammazzato prima".
In aula, in Corte di Assise, il colonnello Dell'Anna è apparso fortemente a disagio, ha spiegato che le sbavature contestate dai pm Paci e Del Bene, erano dovute all'emergenza dei tempi. C'erano omicidi ogni giorno, "io non sapevo nulla di Calabresi, delle indagini di Milano, me ne dovetti occupare perché me lo chiese il pm che seguiva il delitto Rostagno, non ricordo da cosa aveva preso spunto ma mi chiese di parlare col giudice Lombardi a Milano, cosa che feci, poi dopo quel colloquio scrissi quel pro memoria, trascrissi tutto quello che ci eravamo detti, tutto quello che mi era rimasto in memoria, ho scritto quello che pensavo che ci fossimo detti". C'erano omicidi ogni giorno, c'erano le faide mafiose in corso, ma per il delitto Rostagno "non si seguiva la pista di mafia – ha detto Dell'Anna – perché i pm non ci hanno mai fatto una delega di indagine in questo senso".
Le sbavature di questo pro memoria. "E' possibile che un giudice istruttore in piene indagini decida di parlare con un ufficiale dei carabinieri che non si occupa di quelle indagini del loro contenuto? E' possibile che un pm di Trapani incarichi quell'ufficiale dei carabinieri ad andare a parlare con quel giudice e tutto questo lo fa a voce?". Il pm Gaetano Paci non ha graziato l'ufficiale dei carabinieri e quando la difesa ha detto che quell'attività era condotta con specifica delega, è saltato fuori che il pro memoria era di novembre 1992 e una delega di indagini risulta rilasciata a dicembre 92. Possibile? E poi ad una delega di indagine si risponde con un pro memoria? I pm pongono i quesiti al colonnello Dell'Anna ma ottengono risposte vaghe, non ricordo tantissimi, Dell'Anna non nasconde che la storia è delicata, "per questo avevo chiesto al pm di andare lui a parlare con il giudice Lombardi....io certamente quello che ho scritto non me lo sono inventato". E cosa c'è scritto in quel pro memoria? Per esempio che Chicca Roveri e Francesco Cardella sapevano le ragioni del delitto Rostagno e che Rostagno voleva raccontare tutto quello che sapeva sul delitto Calabresi. "E questo dato da dove lo ha tratto?" hanno chiesto i pm, "forse Lombardi, forse non ricordo" la risposta dell'ufficiale.
Memoria senza ricordi sul caso per il colonnello Dell'Anna che non nasconde fastidio perché di questa storia ancora se ne parli, "io ho subito gravissime conseguenze, anche un procedimento penale". Il giudice Lombardi ha sempre smentito la circostanza di aver parlato di collegamenti tra i due delitti con Dell'Anna, ma il colonnello in aula ha detto di non conoscere le dichiarazioni del giudice. "Ma lei non è stato sentito nel 1996 dal procuratore di Trapani Garofalo come persona informata dei fatti proprio su queste vicende? Non ha avuto lette per contestazione le dichiarazioni del giudice Lombardi? Questo ad un certo punto ha chiesto l'avvocato di parte civile Carmelo Miceli: "Io sentito dal procuratore? Niente affatto" ha risposto Dell'Anna. Quando però hanno fatto la comparsa i verbali di sit, il colonnello ha tirato fuori ancora un "non ricordo". Il procuratore Garofalo scrisse che connessioni tra i due delitti non ce ne potevano essere. Il pro memoria del comandante Dell'Anna non conteneva fatti realmente accaduti.
L'udienza è poi continuata con l'audizione di un pentito (o ex pentito) Roberto Sipala, uno che è diventato mafioso a 14 anni, prima diventando uomo della "stidda" e poi uomo d'onore con Cosa nostra. Anche lui citato dalla difesa. Sipala ha ribadito il contenuto di un suo verbale di interrogatorio, che un gruppo di catanesi si mosse per venire a Trapani ad occuparsi del delitto Rostagno. Ha fatto il nome del killer, un certo Fagone, che rimase ferito "perché scoppiò il fucile", parlò delle responsabilità che avrebbe avuto Chicca Roveri, la compagna di Rostagno: per queste dichiarazioni Sipala è stato condannato per calunnia, le sue rivelazioni sul delitto sono risultate tutte false, un gran bugiardo, ancora ieri chi è il personaggio citato dalla difesa dell'imputato Vito Mazzara, celo ha ricordato da Firenze Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell'associazione che ricorda le vittime della strage mafiosa di Firenze del 27 maggio: "Roberto Sipala sentito oggi al processo Rostagno come "imputato di reato probabilmente collegato", agli inizi del 1994 ebbe a dire :"Come ho già detto, tutto quanto ho riferito in merito alla strage di Firenze, me lo sono inventato". Le dichiarazioni a cui faceva riferimento Roberto Sipala risalivano appena a metà Settembre del 1993, a pochi mesi dalla strage di Via dei Georgofili, dove avevamo perso drammaticamente i figli. Sentirlo chiamare oggi collaboratore di giustizia e saperlo agli arresti domiciliari a scontare la sua pena, per noi, anche con tutto il dovuto rispetto verso i collaboratori, resta davvero difficile accettarlo". Un bugiardo matricolato, ancora una volta la svolta nel processo per il delitto Rostagno a favore della difesa non c'è stata. Sia con il colonnello Dell'Anna sia con il (finto) pentito.

 fonte http://www.corleonedialogos.it di Rino Giacalone

La 'ndrangheta in Piemonte. Operazione "Minotauro": pugno di ferro per i primi 73 imputati



Dopo il blitz di un anno fa, il processo contro la criminalità organizzata calabrese - al suo primo atto - si svolge nell'aula bunker del carcere Lorusso-Cutugno (nella foto)

Quasi 500 anni le pene chieste dai pm per chi ha scelto l'abbreviato

Fonte : La Stampa
MASSIMILIANO PEGGIO
TORINO
Quasi 500 anni di reclusione per gli affiliati alla ‘ndrangheta. È la somma delle pene richieste ieri dalla procura torinese per i 73 imputati dell’operazione Minotauro, inchiesta monumentale contro la criminalità organizzata calabrese, che hanno scelto il giudizio abbreviato. Pugno duro dei magistrati nei confronti dei «capi locale» e dei «padrini», cioè per quei soggetti che secondo il codice penale, articolo 416 bis, nell’ambito dell’organizzazione mafiosa «promuovono, dirigono o organizzano l'associazione».
Proposte di condanna che sanno di alchimie giuridiche: un labirinto di commi, aggravanti, recidive. Nel complesso calcolo delle richieste di pena, è stata comunque riconosciuta in generale l’equivalenza tra le attenuanti generiche e la circostanza aggravante dell’associazione armata. Scelta che in procura viene definita «equilibrata», per suggellare il primo atto processuale della più importante inchiesta contro la criminalità calabrese attiva in Torino e provincia, portata a termine dai carabinieri del Comando Provinciale. Ma gli imputati non finiscono qui. Al di là di quelli che hanno scelto il patteggiamento, tutti gli altri, oltre settanta, andranno a dibattimento. Tra questi Nevio Coral, ex sindaco di Leini e imprenditore, coinvolto nella vicenda con l’accusa di aver «fatto affari con le «famiglie» dell’associazione, anche per scopi politici.
Quindici anni di reclusione è la pena più severa richiesta al tribunale dal procuratore aggiunto Sandro Ausiello coordinatore della Direzione Distrettuale Antimafia,  per Aldo Cosimo Crea, alias «Cosimino», 38 anni. Stando agli atti dell’inchiesta avrebbe ricoperto la dote di «padrino» con un ruolo attivo nel «crimine di Torino», cioè «la struttura associativa operativa, preposta allo svolgimento di azioni violente». Quattordici anni e 4 mesi per il fratello Adolfo, 41 anni, originario di Locri, anche lui affiliato con dote di «padrino». Per entrambi hanno pesato le condanne ricevuto in precedenti sentenze.
A ruota segue la richiesta per Bruno Iaria, considerato capo locale di Cuorgnè: 14 anni, più 45 mila euro di multa dovuti ad altri reati oltre a quello associativo. Per suo zio, Giovanni Iaria, ex assessore comunale di Courgné ed ex attivista socialista, la procura ha chiesto 7 anni e 8 mesi di reclusione. Rilevanti anche le pene richieste per Giuseppe Barbaro e Pasquale Barbaro, rispettivamente 6 anni e 8 mesi, e 10 anni. Quest’ultimo, detto «U Nigru», è considerato un anello di congiunzione tra Nord e Sud, tra due «unità criminali», come «referente del Locale di Platì col Locale di Volpiano». La pena più mite riguarda Leonardo Bernardo, 8 mesi, per l’accusa di aver partecipato al furto di un’auto. Per uno solo dei 73 imputati, Ergas Brollo, di Rivoli, finito nel calderone delle annotazioni d’indagine per le sue frequentazioni «pericolose», la procura ha chiesto l’assoluzione.
A margine è stata chiesta anche la confisca di beni per un valore superiore a 4 milioni di euro. Il provvedimento riguarda 25 imputati. Tra i beni da confiscare, 32 immobili, appartamenti, box, terreni, nove automobili, 650 mila euro in contanti e quote societarie di una decina di aziende. Nelle prossime udienze parleranno i difensori. Dopo l’estate si pronuncerà il tribunale.

Trattativa tra Stato e mafia: indagato l'ex ministro della Giustizia Conso

Un altro tassello, a comporre il quadro drammatico degli avvenimenti che precedettero e seguirono l'uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. 
Fonte: La Stampa

Trattativa tra Stato e mafia, indagato l'ex ministro della Giustizia Conso


Giovanni Conso, ministro di Grazia e giustizia durante il governo Ciampi (28 aprile 1993 - 10 maggio 1994), in un'immagine d'archivio. L'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso è indagato per false informazioni a pubblico ministero nell'ambito dell'inchiesta condotta a Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia.

Inchiesta dei pm di Palermo,
l’ex Guardasigilli nel mirino
per false informazioni: «Sono
curioso di conoscere le accuse»

PALERMO
L’11 novembre del 2010, davanti alla commissione Antimafia, a sorpresa, tirò fuori una notizia passata praticamente sotto silenzio per anni: tra novembre del 1993 e gennaio dell’anno dopo, quando ancora rimbombavano gli echi delle stragi mafiose, a oltre 300 uomini d’onore venne revocato il carcere duro
«Io e solo io, in solitudine, presi la decisione nella convinzione che in questo modo si sarebbero fermate le stragi», rivelò in sostanza l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso ai commissari che lo ascoltavano a palazzo San Macuto. Un’assunzione di paternità non richiesta, quella del novantunenne ex Guardasigilli, a cui i pm di Palermo che indagano sulla trattativa tra Stato e mafia non hanno mai creduto. Tanto che, dopo averlo interrogato più volte e dopo avere acquisito documenti che proverebbero l’esistenza di un disegno politico volto a fare concessioni alle cosche sul 41 bis, hanno deciso di iscriverlo nel registro degli indagati per false informazioni al pubblico ministero.


In via Arenula da febbraio del ’93 ad aprile del ’94, Conso è il terzo ex ministro a essere coinvolto nell’indagine che si appresta a una svolta imminente: è atteso per le prossime ore il deposito dell’avviso di conclusione che dovrebbe essere notificato a una decina di persone. Nel registro degli indagati, infatti, oltre ai boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Antonino Cinà e Giovanni Brusca e a tre esponenti del Ros, i generali Mario Mori, Antonio Subranni e all’ex capitano Giuseppe De Donno, al senatore del Pdl Marcello dell’Utri e a Massimo Ciancimino, sono stati iscritti l’ex ministro del’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, e l’ex ministro per il Mezzogiorno Calogero Mannino, al quale i pm hanno contestato il reato di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. L’inchiesta a carico di Conso - lo impone il codice penale - resterà ferma fino alla definizione in primo grado del processo principale, quello sulla trattativa, appunto.



Ma a smentire l’ex Guardasigilli e a confermare l’ipotesi della procura che vede proprio nell’alleggerimento del 41 bis uno degli argomenti che furono oggetto della trattativa Stato-mafia c’è un documento. Una nota riservata che porta la firma dell’ex capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Adalberto Capriotti, risalente al 26 giugno ’93, sei mesi prima che Conso facesse scadere 140 provvedimenti di carcere duro e non ne rinnovasse altri 200. Nel documento indirizzato in via Arenula il capo del dap annunciava al ministro della Giustizia l’imminente scadenza di 373 provvedimenti di 41 bis per altrettanti detenuti di «media pericolosità», applicati nel ’92 dal Dap. E suggeriva al Guardasigilli di farli scadere per dare un segnale «positivo di distensione». Non solo, in un secondo punto si proponeva di ridurre del 10% i provvedimenti di carcere duro relativi ai mafiosi pericolosi. Il documento, subito ritenuto dai pm di straordinaria rilevanza, cozza con la versione sempre ribadita da Conso che più che «solitario» ideatore di un segnale di distensione lanciato alle cosche, sarebbe, per i pm, uno dei protagonisti della trattativa portata avanti dallo Stato.

mercoledì 13 giugno 2012

PROCESSO "MINOTAURO": la 'ndrangheta in Piemonte


 PROCESSO MINOTAURO

'Ndrangheta, chieste 73 condanne

Fonte: La Stampa


Il processo si svolge nell'aula bunker del tribunale in corso Regina

L'accusa è associazione mafiosa
L'operazione ha svelato i legami
tra cosche e politica in Piemonte

TORINO
La Procura di Torino ha chiesto la condanna di 73 persone, la maggior parte per associazione di stampo mafioso, nell'ambito dell’inchiesta Minotauro, l’operazione, con 170 indagati, che ha smantellato le cosche della ’ndrangheta in Piemonte svelando tentativi di condizionamento della vita politica locale.
Le richieste sono state formulate per gli imputati che hanno scelto di farsi giudicare con il rito abbreviato. La pena più alta, 15 anni, proposta per Aldo Cosimo Crea.