martedì 3 settembre 2013

Memoria e impegno. Il 3 settembre 1982 i killer della mafia uccidono il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro, l'agente Domenico russo

Cento giorni di solitudine bastarono ai poteri mafiosi ( e non solo mafiosi) per spegnere  "la speranza" dei palermitani e degli italiani onesti. Cosi' venne ucciso il generale nominato prefetto di Palermo per sconfiggere la mafia.  Carlo Alberto Dalla Chiesa era vittima sacrificale, lasciato solo dallo Stato "...a Palermo, con i poteri del prefetto di Forlì" , così ebbe a dire lui stesso nella sua ultima  intervista rilasciata a Giorgio Bocca 


Riproponiamo l'articolo scritto lo scorso settembre 2012 da Francesco Licata per commemorare la memoria di Carlo Alberto dalla Chiesa, Emmanuela Setti Carraro, e l’agente Domenico Russo. Sottolineiamo la conclusione dell'articolo:

"(...) Fu solo mafia?(...) una coincidenza va sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le indagini: Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da una non frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo. La mafia siciliana ha ucciso (chissà perché?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale. Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri."

fonte: La Stampa

Carlo Alberto Dalla Chiesa,

quei cento giorni di solitudine


Il 3 settembre 1982 in via Isidoro Carini a Palermo vengono uccisi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emmanuela Setti Carraro. La loro A112 bianca venne crivellata di colpi di kalashnikov Ak-47

Trent’anni fa lo Stato lo lasciò solo, la mafia uccise lui e la moglie e l'agente di scorta

FRANCESCO LA LICATA
PALERMO
Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa venne assassinato in una calda serata sciroccosa. Erano passate da poco le 21 del 3 settembre 1982 e la A112 color crema, guidata dalla giovane moglie, Emmanuela Setti Carraro, imboccava la via Isidoro Carini, lasciandosi alle spalle Villa Whitaker - sede della Prefettura - diretta verso il refrigerio di un ristorante all’aperto del golfo di Mondello. Seguiva l’utilitaria l’agente Domenico Russo, alla guida dell’Alfa blu che il generale-prefetto non utilizzava, convinto che l’anonimato di una «normale macchinetta» offrisse maggiori garanzie di sicurezza dell’auto blu, immediatamente identificabile.
Precauzione inutile, perché la task-force messa in campo da Cosa nostra monitorava da diverse ore i movimenti del bersaglio e forse aveva potuto disporre anche della soffiata partita da Villa Whitaker, da qualcuno che controllava strettamente il generale.
Due macchine e due moto rasero al suolo la A112, senza risparmio di violenza e a nulla valse la protezione offerta ad Emmanuela dall’abbraccio coraggioso del marito. L’agente Russo fu finito dal killer più sanguinario di quel momento: Giuseppe Pino Greco, detto «Scarpuzzedda».
I palermitani stavano a cena, davanti ai televisori. La notizia, tuttavia, non l’ebbero dai telegiornali perché arrivò prima il passaparola. Esplose così rapida da richiamare in pochi minuti una folla di gente in piedi, impietrita in un silenzio irreale, con gli occhi rossi di rabbia. Quando, ormai a notte fatta, fu smontata la scena e i fari, i lampeggiatori delle volanti, si spensero, rimase solo la fragile disperazione di una città, sintetizzata in un cartello che sentenziava: «Qui muore la speranza dei palermitani onesti».
Così fu spenta una luce che si era accesa appena cento giorni prima, sull’onda dell’ennesimo eccidio mafioso che aveva colpito il segretario regionale del Pci, Pio La Torre, abbattuto dalla mafia insieme con l’amico, compagno e scorta volontaria, il militante Rosario Di Salvo.
La speranza, per la verità, non era nata sotto i migliori auspici. Il generale era stato inviato a Palermo come un’arma spuntata: Roma non aveva voluto dargli gli stessi poteri che gli erano stati dati nella lotta al terrorismoPrefetto senza poteri speciali: un messaggio rassicurante per la palude palermitana, preoccupata per la presenza di un uomo deciso, carabiniere nel Dna, poco incline alle pantomime sicule dell’indignazione senza conseguenze.
E infatti la città gli dimostrò immediatamente tutta la propria avversione. La città del potere, ovviamente. Perché i cittadini, invece, riponevano molte aspettative sulle capacità del prefetto. Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo in incognito. Ignorò l’auto che l’aspettava in aeroporto, montò su un taxi ed arrivò in Prefettura «pieno» delle notizie e degli umori strappati al tassista loquace. Non si fidava, il generale, e con quella «presentazione» intendeva mettere subito le cose in chiaro.
Fu criticato, ovviamente, per quella scelta. Non gli furono risparmiate ironie e commenti, pesanti allusioni sulla differenza di età con la giovane seconda moglie: insomma tutto il repertorio della maldicenza e della mafiosità locale. Persino il sindaco, l’avvocato Nello Martellucci, uomo del gruppo di potere dominante (Lima, Ciancimino, Gioia), si rifiutò di portargli il saluto con la pretestuosa motivazione che doveva essere il generale a «presentarsi» al padrone di casa. E come lo sbeffeggiavano quando andava nelle scuole a parlare di legalità coi ragazzi o quando faceva sequestrare agli angoli delle strade il pane prodotto e venduto abusivamente
Solo Leonardo Sciascia capì il valore di quel gesto e spiegò che non si poteva battere la mafia fino a quando i mercati di Palermo sarebbero rimasti repubbliche indipendentiCome a dire c’è Cosa nostra ma anche qualcosa di più subdolo, per esempio la mafiosità.
La solitudine del generale, in quei cento giorni palermitani, è stata ricordata più volte dal figlio, Nando, che non ha mai modificato il suo giudizio duro sulla politica che isolò il padre (giudizio riproposto oggi a Luciano Mirone, autore di «A Palermo per morire»). E quando si parla dell’isolamento di Dalla Chiesa il discorso non può non cadere sul rapporto con Giulio Andreotti, a cui il generale, in partenza - «disarmato» per Palermo - anticipa che non avrà «nessun riguardo per la corrente Dc più inquinata» (quella di Salvo Lima, di Gioia, di Ciancimino e dei cugini Ignazio e Nino Salvo). Li conosceva bene, il prefetto, quei personaggi. Aveva redatto un rapporto destinato alla Commissione antimafia, quando era comandante della Legione a Palermo. Ma quell’analisi - ricorda il figlio Nando - era arrivata in Parlamento molto manipolata, addirittura coi nomi «sbianchettati».
Qual era lo stato d’animo del generale e della giovane moglie, pochi giorni prima dell’eccidio? Bastano le parole dette al telefono alla madre da Emmanuela: «Non posso venire a Milano, non voglio lasciare Carlo nemmeno per un momento, chi lo salverebbe? Siamo dimenticati, mamma, da chi ci dovrebbe tutelare». 
Gli assassini del generale, della moglie e dell’agente sono stati condannati. Ma si tratta dei macellai. Mancano le menti raffinatissime, per dirla con le parole di Giovanni Falcone
Chi ha tradito Dalla Chiesa? Quale conto hanno fatto pagare al generale sabaudo mandato nella terra degli infedeli? 
Persino la Chiesa siciliana, solitamente cauta, nel giorno dei funerali usò parole di fuoco e puntò il dito sul potere ignavo: «Mentre a Roma si discute sul da farsi, Sagunto viene espugnata», gridò il cardinal Pappalardo dal sagrato della basilica di San Domenico.
Fu solo mafia? Oppure il «conto» inglobava anche i segreti del sequestro Moro e di quel grumo conseguente, conosciuto alle cronache come l’affaire del giornalista Mino Pecorelli? Certo, dopo trent’anni è difficile andare a rovistare nei pozzi neri, forse andava fatto subito. Ma una coincidenza va sottolineata, al di là di ciò che hanno raccolto le indagini: Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa sono vicende caratterizzate da una non frequente «sinergia» tra mafia e terrorismo. La mafia siciliana ha ucciso (chissà perché?) il giornalista molto intimo dei Servizi, è stata coinvolta nel tentativo di salvare Aldo Moro prigioniero delle Br e ha pianificato ed eseguito l’assassinio del generale. 
Come una vera agenzia del crimine al servizio di altri.

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