giovedì 26 giugno 2014

26 giugno 1983. Bruno Caccia viene assassinato a Torino

“Vogliamo conoscere la verità”. 

Era quanto chiedevano i figli di Bruno caccia lo scorso anno, trentennale dell'uccisione del procuratore capo di Torino



«I cittadini hanno diritto di conoscere la verità su ciò che è successo». Questo l’appello di Guido, Paola e Cristina Caccia, figli di Bruno Caccia, ucciso il 26 giugno 1983 dalla `ndrangheta, contenuto nella lettera aperta indirizzata alla Città di Torino nel trentennale della morte del giudice.  La commemorazione dello scorso anno iniziativa, dicevano i figli di Bruno Caccia, «onora la memoria di nostro padre e ci fa profondamente piacere», ma che non può ridursi soltanto a retorica: serve, sostengono, una «analisi storica». 
«Ciò che durante questi trent’anni sta diventando sempre più chiaro, è che l’assassinio di Bruno Caccia non è stato solo un gesto isolato, progettato in autonomia da un boss locale, l’unico condannato, e compiuto dalla mano di due sicari ancora oggi sconosciuti, ma è stato qualcosa di più complesso, un delitto commesso non tanto e non solo perché Bruno Caccia era un magistrato integerrimo, quanto per tutelare concretamente gli enormi interessi che dal suo operato potevano essere messi a rischio. (...) Torino è città-laboratorio, sarebbe bello che, ricordando il sacrificio di nostro padre, diventasse da quest’anno anche un laboratorio di verità».  

Bruno Caccia
Bruno Caccia aveva iniziato la sua carriera in magistratura nel 1941 nel Palazzo di giustizia torinese. Nel capoluogo piemontese rimase sino al 1964 ricoprendo la carica di Sostituto Procuratore, per poi passare ad Aosta come Procuratore della Repubblica. Nel 1967 Caccia ritornò nelle aule torinesi con l’incarico di sostituto Procuratore della Repubblica. Nominato nel 1980 Procuratore della Repubblica di Torino, si occupò di indagare sulle violenze ed i pestaggi che all'epoca puntualmente si verificavano in occasione di ogni sciopero. Come ricorda l'allora suo collega Marcello Maddalena: "Fu, nel settore, il primo segno di presenza dello Stato dopo anni di non indolore assenza". Le indagini di Bruno Caccia si indirizzarono quindi sui terroristi delle Brigate Rosse e Prima Linea e fu lui a condurre le indagini sui primi grandi scandali italiani che coinvolgevano"(...) i grandi petrolieri e i generali delle Fiamme Gialle corrotti, i politici torinesi della prima tangentopoli di Adriano Zampini, gli uomini della Fiat e le mafie trapiantate al Nord". Così Nicola Gratteri ricorda la figura di Bruno Caccia nel libro "Fratelli di sangue". 
Indagini che, come accerterà la storia processuale, dovettero rivelarsi così incisive da decretare la condanna a morte di Bruno Caccia. Ad oggi, Bruno caccia rimane l'unico giudice ucciso per mano delle mafie fuori dalle terre di Sicilia e Calabria. 
E' solo mafia? 
"Vogliamo conoscere la verità", proclamano i figli del giudice assassinato


l'assassinio di Bruno Caccia
Il 26 giugno 1983, Bruno Caccia si era recato con la famiglia fuori città rientrando a Torino soltanto nella serata. Essendo una domenica, aveva deciso di lasciare a riposo la propria scorta. La decisione facilitò il compito ai sicari della 'ndrangheta. Verso le 23,15 mentre Bruno Caccia portava da solo a passeggio il proprio cane, in via Sommacampagna  venne affiancato da una macchina con due uomini a bordo. Questi, senza scendere dall'auto, spararono 14 colpi e, per essere certi della morte del magistrato, lo finirono con 3 colpi di grazia.

Le indagini
Dapprima le indagini presero la via delle Brigate Rosse: erano quelli gli "anni di piombo" e diverse indagini di Bruno Caccia avevano riguardato proprio brigatisti. Il giorno seguente, le Brigate Rosse rivendicarono l'omicidio, ma presto si scoprì che la rivendicazione risultava essere falsa. Inoltre nessuno dei brigatisti in carcere rivelò che fosse mai stato pianificato l'omicidio del magistrato cuneese. Le indagini puntarono allora l'attenzione sui neofascisti del NAR, ma anche questa pista si rivelò ben presto infondata. L'imbeccata giusta arrivò da un mafioso in galera, Francesco Miano, boss della cosca catanese che si era insediata a Torino. Grazie all'intermediazione dei servizi segreti, Miano decise di collaborare per risolvere il caso e raccolse le confidenze del 'ndranghetista Domenico Belfiore, uno dei capi della 'ndrangheta a Torino, anch'egli in galera. Belfiore ammise che era stata la 'ndrangheta ad uccidere Bruno Caccia e il motivo principale fu che "con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare", come disse lo stesso Belfiore. Una frase inquietante al punto che i magistrati nella sentenza di condanna di colui che era diventato un referente di primo piano per le ‘ndrine calabresi in Piemonte, scriveranno «Egli [Bruno Caccia, nda], poté apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici. Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati».

A Bruno Caccia sono stati intitolati il Palazzo di Giustizia di Torino, il 26 giugno 2001, e il cascinale "Cascina Bruno e Carla Caccia" a San Sebastiano da Po, sulle colline torinesi. Il cascinale fu sequestrato proprio alla famiglia Belfiore, più precisamente a Salvatore Belfiore, fratello di Domenico, grazie alla legge 109/96.

Cascina Caccia è gestita da Libera 

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